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OPERE COMPLETE
DI
GIOVANNI GENTILE
A CURA DELLA
FONDAZIONE GIOVANNI GENTILE PER GLI STUDI FILOSOFICI
GIOVANNI GENTILE
OPERE
XII
SANSONI - FIRENZE
GIOVANNI GENTILE
I PROBLEMI
DELLA SCOLASTICA
E IL PENSIERO ITALIANO
j l edizione riveduta
SANSONI
FIRENZE
PROPRIETÀ LETTERARIA RISERVATA
Stampato in Italia
A VVERIE NZ A
Le quattro letture sui Problemi della Scolastica, raccolte
in questo volume, furono tenute nella Biblioteca filosofica dì
Firenze nei giorni 21, 23, 28 e 30 maggio ign, come prima
parte dì un corso di lezioni, che quella benemerita Biblioteca
volle iniziare intorno alla filosofia e alla vita religiosa ita-
liana del Medio Evo. Ciò può spiegare particolarmente il
carattere della prima lettura, che fa in qualche modo d’ in-
troduzione alle altre, e perché io, dovendo rappresentare a
un uditorio alquanto largo di persone colte lo spirito, più
che altro, della filosofia scolastica, abbia avuto rocchio di
solito ai pensatori italiani 0 più strettamente legati alla
storia del pensiero italiano,
Palermo, 15 luglio 1912
La commemorazione seguente, scritta per invito del Comi-
tato per le onoranze a Bernardino Telesio nella ricorrenza
del quarto centenario della sua nascita, e letta, tranne poche
pagine, nel Teatro Comunale di Cosenza il 26 aprile dì
quest’anno, non poteva e non vuol essere una monografia sul
Telesio ; ma soltanto una caratteristica della sua personalità
e della sua filosofia, guardata nel processo generale del pen-
siero speculativo. Ciò spiega perché essa si estenda un po'
largamente sulla storia degli antecedenti.
Palermo, maggio 1911
Vili
AVVERTENZA
Nella prima edizione di questa commemorazione telesiana
(ign), oltre alle poche note più necessarie, fu aggiunta una
Bibliografia, nella quale non parve imitile riprodurre dalle
prime e rare stampe degli scritti del Telesio dediche e proe-
mii, che hanno una notevole importanza storica e biografica,
e di cui gli studiosi in passato avevano potuto conoscere
soltanto qualche periodo di seconda mano.
Ma in questa nuova edizione ho creduto superfluo ristam-
pare questi documenti ormai facilmente accessibili nel mio
opuscolo del ign. Ho invece aggiunto qualche altra nota e
messo al corrente la Bibliografia. E poiché in questo volume
il saggio sul Telesio sì ricongiunge alle mie letture sulla
Scolastica considerata dal punto di vista della- storia del
pensiero italiano, ho pur creduto che potesse riuscire non
inutile sfondo al quadro di questo pensiero, quale faticosa-
mente si sviluppa dal travaglio medievale, sforzandosi, at-
traverso V Umanesimo, di conquistare nel Telesio un nuovo
concetto del mondo, la Prolusione, già aneli essa pubblicata
a parte, con cui nel igi8, quando ogni cuore italiano era
tuttavia oppresso dall’angoscia di Caporetto, ripresi qui in
Roma V insegnamento di Storia della filosofia.
G. G.
Roma, 2 luglio 1922
I
I PROBLEMI DELLA SCOLASTICA
E IL PENSIERO ITALIANO
i.
Gentile, I problemi della s-colastica.
1
LA FILOSOFIA SCOLASTICA IX ITALIA
E I SUOI PROBLEMI
i. Tra il 1230 e il ’32 Federico II, che la sua giovinezza
aveva passata a Palermo, sede allora fiorentissima di cul-
tura scientifica, per opera segnatamente degli arabi e dei
greci di Sicilia; Federico II, che nella prima metà di quel
secolo grandeggia come non pure grande assertore della
laicità e nazionalità dello Stato, ma come promotore in-
signe di arte e di pensiero, fondatore di scuole, mecenate
di studiosi, cultore, egli e i suoi, di ogni più gentile di-
sciplina, vir inquisitor et sapientiae amator (come si com-
piacque di dirsi da sé nel prologo a un suo trattato), in-
viava con una nobilissima lettera alle università italiane
una raccolta di traduzioni latine dal greco e dall’arabo
di opere filosofiche, non ancora note all’ Occidente : com-
pilationes varie ab Aristotele aliisque philosophis sub Grecis
Arabisque vocabulis antiquitus edite in sermocinalibus et
mathematicis disciplinis', cioè nelle materie logiche, ret-
toriche e grammaticali, e nelle astronomiche e fisiche in
generale.
Nella lettera Magistris et scholaribus Bononiae, — poi
quasi ricopiata dal figlio Manfredi, quando inviò quell’ im-
portante raccolta allo Studio di Parigi, — Federico scri-
veva che al fastigio del suo trono ei credeva necessari,
oltre le leggi e le armi, i sussidi della scienza contro i
4
I. 1 PROBLEMI DELLA SCOLASTICA
pericoli dell' ignoranza tenebrosa e della sfrenata lascivia,
onde si snervano le forze e s' infiacchisce il potere stesso
della giustizia. — Prima ancora di salire al trono, egli
dice, dalla gioventù, noi, per l'aspirazione naturale di
tutti gli uomini al sapere, abbiamo cercato di profittare
nella scienza. — E con intonazione orientale aggiunge:
Formam cius indesinenter amavimus, et in odore unguen-
torum suorum sempcr aspiravimus indefesse. Assunto 1’ im-
pero, tutto il tempo che ci resta dalle cure dello Stato,
transire non patimur otiosum, sed totum in lectionis exerci-
tatione gratuite libenter expendimus, ut anime clarius vigeat
instrumentum in acquisitione scientiae, sine qua mortalium
vita non regitur Uber aliter. Ora, rivolgendo con assidua
meditazione e considerando con accurato studio i molti
volumi in varie lingue, di cui sono ricchi i nostri armadi,
abbiamo pensato di far tradurre le dette opere di filosofi,
e le mandiamo a voi, quia vero scientiarum possessio, in
plures dispersa, non deperit, et distributa per partes, mino-
rationis detrimenta non sentii, sed eo diuturnius perpetuata
senescit, quo publicata se diffundit.
Magnifico vanto della universalità del sapere, che suona
ammonimento solenne e glorioso a quei primi inizi della
filosofia, che può dirsi nostra. Giacché la corte di Federico
non va solo considerata con Dante quasi la culla della
poesia italiana, perché quanto di più eccellente, com’è
detto nel De vulgari eloquentia J, produssero i poeti nostri,
primitus in tantorum coronatorum amia prodibat (di Fede-
rico cioè e di Manfredi) : donde l'appellativo di « siciliana »
data a tutta la prima poesia volgare {quod quidem reti-
nemus et nos, nec posteri nostri permutare valebunt !) ; bensì
anche come il primo focolare di una filosofìa, che possa
dirsi italiana, e da cui possa prender le mosse lo storico
della filosofia italiana.
1 I, xii, 2-3.
I. LA FILOSOFIA SCOLASTICA IX ITALIA
2. Ma, poiché questo stesso concetto di una filosofia
italiana è discutibile e può dar luogo a fraintendimenti
non lievi pel mio modo di considerare la natura della
filosofia e della sua storia, mi sia subito consentita una
dichiarazione.
Vi sono due modi d’intendere la filosofia, che io credo
doversi unificare in un concetto più alto e concreto. Poiché
ora la filosofia si guarda anch’essa dall’esterno, e ora dal-
1’ interno. C’è chi crede di poter intendere il pensiero di
un filosofo, ricercandone gli antecedenti nella sua cultura
e nella sua biografia, ossia nella storia del pensiero ante-
riore, in quanto essa agì sulla mentalità del filosofo. La
quale, da questo punto di vista, va presa integralmente
nel suo tutto e ne’ suoi particolari, senza scelta ed elimi-
nazione di sorta ; giacché, a guardare così, deterministi-
camente, il pensiero di un uomo, non c’è nulla che non
si giustifichi e non dimostri la propria ragion d’essere.
C’è invece chi, persuaso che la vera e vivente realtà di
un pensiero consista nell’atto del pensarlo, e nella natura
logica di questo atto, stima che ad intendere una filosofia
convenga primieramente conquistare l’intuizione iniziale
e fondamentale del filosofo per seguirne indi lo svolgi-
mento interiore al lume della logica eterna, che fu la
legge della costruzione primitiva e dev’essere perciò la
legge della ricostruzione. Il che importa necessariamente
la possibilità di divergenze, e in generale una riflessione
critica e discriminante.
Altrettanto, mutatis mutandis, accade nella storia del-
l’arte e nella storia della religione : in cui pare egualmente
che ora si guardi alla forma, ora al contenuto; ora allo
spirito come si attacca e quasi si abbarbica al suo mo-
mento storico, alla cultura del paese e dell’uomo, ora allo
spirito che si celebra nella sua vita immortale, in cui gli
animi di ogni tempo e ogni luogo possono raccogliersi in
uno, trionfando dei limiti della storia empirica. Muor Giove,
(>
i, r PROBLEMI 15ELLA. SCOLASTICA
è stato detto, e 1’ inno del poeta resta, sottraendosi alla
morte del dio e di tutta la spiritualità perita perché deter-
minata e investita di forme caduche. E io direi piuttosto
che né muore l’inno, né Giove, e che nulla muore, se ogni
cosa si prende con tutte le radici sue nella realtà. Giove
non viveva se non negli spiriti, che raccoglievano: lì era
la sua realtà. Nello spirito del poeta era inno. Immortale
questo, immortale Giove. E così sempre. C’è qualche cosa
nella cultura di un certo momento e luogo spirituale e
nella biografìa d’un filosofo, che resta affatto estranea alla
sua filosofìa: non condiziona nessun atteggiamento del suo
spirito, non gli propone nessun problema, non opera su
lui nessuna suggestione. Ma nell’uomo di genio, nel vero
filosofo, come nel vero poeta, questi elementi non riusciti
a penetrare nella fiamma della spiritualità creatrice son
rari. Tutto l’universo si concentra in essa, e arde nel
fuoco della coscienza, onde la realtà si rivela a se stessa,
tutta, in ogni sistema di filosofìa. In quel fuoco trova la
sua suprema realizzazione; come in ogni pensiero, e sia
tenue e volgare, si rivela a volta a volta ed è a ciascuno
il suo mondo.
Così nella vita storica della filosofia si rispecchia tutta
la vita della civiltà, anzi dell’universo, nella concretezza
delle sue determinazioni. E come l’inno del poeta ci dà
la poesia di Giove immortale, tutti i momenti singoli della
filosofìa ci danno la filosofia di una realtà egualmente
immortale. Questa realtà, considerata nella sua forma più
prossima, è la biografia del filosofo, pregna, pur nella
rappresentazione della persona individuale, della storia
del suo tempo e del suo paese. Storia, si badi bene, che
nella filosofia non è altro che la stessa filosofia nella sua
determinazione concreta ; come Giove nel fantasma poe-
tico, non è dio, o sentimento religioso, ma corpo del fan-
tasma stesso, poesia.
I. LA FILOSOFÌA SCOLASTICA TX ITALIA
/
Una storia della filosofia pertanto può esser nazionale
a patto di riassorbire nella ricostruzione dei problemi filo-
sofici, come si vennero di fatto generando e maturando,
gli elementi solo apparentemente eterogenei della storia
della cultura: quando, s’intende, questa cultura abbia
assunto forme speciali relative alla storia delle singole
nazioni. Giacché vi sono periodi storici in cui questa varia
fisononria si dilegua; e allora una rappresentazione dello
svolgimento del pensiero filosofico in relazione alla nazio-
nalità meramente estrinseca dei filosofi è affatto arbitra-
ria e antistorica. Staccare in una storia della filosofia
l’ontologismo giobertiano dalla storia del Romanticismo
e del Risorgimento italiano non è possibile : perché il
suo problema, che è tutto suo, nasce lì: il suo pensiero
è pensiero di una realtà, che si genera attraverso quei
movimenti spirituali. I quali, non occorre dirlo, sono con-
nessi con tutta la storia universale, e però con tutta la
realtà; ma pur hanno colore ed essere lor proprio; né si
possono trascurare senza togliere al Gioberti, come accade
in tutte le esposizioni generali della storia della filosofia,
il posto che la storia deve serbargli, se vuol essere la
coscienza attuale dell’attualità del pensiero. Potrei citare
altri esempi, egualmente evidenti; ma in generale si vuol
osservare che quegli stessi filosofi, cui nessuno storico
pensa di negare un largo posto in una storia universale,
Platone, per esempio, Aristotele, Cartesio, Kant, Hegel,
se vanno intesi puntualmente nel loro pensiero, pure,
studiati nella loro mentalità che è la loro cultura, per
via di questa si riallacciano tutti alla storia della cultura
dei rispettivi paesi a cui appartengono.
3. Una filosofia italiana è incontestabile nel Rinasci-
mento, così come esso si genera dall’ Umanesimo, che è
movimento di origini italiane e in Italia largamente esteso
e penetrato nella storia delle nostre istituzioni scolastiche,
8
I. I PROBLEMI DELLA SCOLASTICA
della comune cultura e della letteratura. Ma una filosofia
scolastica italiana è un errore storico; perché è risaputo,
e lo ripeteva recentemente il Baeumker 1 nella sua lucida
esposizione della storia della filosofìa medievale, che questa
filosofia non ha accento personale, né peculiarità nazionali.
In quel pensiero, dice F insigne indagatore della filosofìa
del Medio Evo, « l’elemento personale si ritrae dietro
Funiversalità astratta, la psicologia dei pensatori dietro
la dialettica dell’ intelletto sciolto dallo spazio e dal tempo.
FI che in fondo non soltanto gli elementi puramente indi-
viduali, ma anche gli elementi tipici sorgano dalla vita
interiore di un problema, che afferra tutto Fuomo, in
una personalità veramente significativa, questa idea è
estranea alla filosofia medievale. In essa domina la scuola,
e nella scuola F intelletto astratto ».
Il che, naturalmente, non è da prendere alla lettera,
perché anche nel Medio Evo Fuomo è uomo, e il filosofo
è un uomo: sicché anche allora, mettendo da parte i
molti ripetitori, che gli eruditi vengono ora disseppellendo
dai manoscritti dimenticati, a illustrare e onorare certa-
mente più sé che quegli uomini di scuola, della stessa
stoffa di tanti che insegnano e scrivono attorno a noi,
insigni ora, ma che saranno fatalmente dimenticati, an-
corché rievocati un giorno per avventura dallo zelo degli
studiosi futuri; anche allora tra un Eriugena e un An-
seimo, tra un Alberto Magno e un Alessandro di Hales,
tra un Tommaso e un Bonaventura, tra un Ruggero
Bacone e un Giovanni Duns non è difficile scorgere di-
vergenze cF indirizzo mentale e d’ intonazione spirituale,
oltre che di dottrine. Ma queste variazioni hanno assai
scarsa importanza rispetto alia collocazione storica dei
problemi, che in quella filosofìa si vennero tentando, e
1 Die europäische Philos. des Mittelalters, in Allg. Gesch. d. Philos.
(Kultur d. Gegenwart, i, 5, Berlin 11. Lpz. 1909), pp. 294-95.
I. LA FILOSOFIA SCOLASTICA IN ITALIA
della correlativa mentalità scientifica, in cui essi sorge-
vano: poiché i problemi, astrattamente considerati, nel
loro nocciolo sostanziale, sono un legato che il Medio Evo
raccoglie dallo spirito greco, come apparirà particolar-
mente da quelli su cui ci tratterremo nelle venture lezioni ;
e quella mentalità era degna di questi problemi non sca-
turiti dall’ intimo della propria vita spirituale, ma quasi
accettati dalla speculazione anteriore non per anco digesta.
Si ponga mente che la scienza medievale è tutta in
mano ai chierici, principalmente ai frati, almeno nel sec.
xnr, ossia nel periodo culminante della scolastica. Onde
« chierico » nel nostro antico volgare significò dotto, se
pur laico ; e « 1 o i c o e e h e r i c o grande» disse
Dante nel Convivio Federico II, non pur laico, ma infesto
a papi, a preti e a frati. Ora una scienza ecclesiastica è
necessariamente una scienza impersonale, internazionale
e relativamente astratta. Perché, a parte le invasioni de-
gl' interessi temporali nella vita pratica e dommatica della
Chiesa, che nel Medio Evo ebbero tanta importanza, ma
rispetto alle quali la Chiesa assume sempre il carattere
di personalità antinazionale o sopra-nazionale e cattolica,
il contenuto essenziale dello spirito ecclesiastico è sopra-
mondano e estrastorico : i suoi interessi immanenti e
caratteristici trascendono tutti la sfera pratica dello spi-
rito, in cui l’uomo è padre o figlio, servo o signore, lavo-
ratore e cittadino. Non veni pacem mittere, sed gladium.
Veni enim separare hominem adversas patrem snum, et
fdiam adversas malrem suam r. È vero che Gesù soggiunse
essere indegno di lui qui amai patrem aut matrem plus
quam me.... et qui amai fili uni, aut fdiam super me; ma
lo stesso paragone implica una dualità, per cui l’amore di
Gesù riesce a un amore diverso da quello dei genitori e dei
figli, ed elevante lo spirito umano in una sfera superiore.
1 Matth., X, 34-35.
I PROBLEMI DELLA SCOLASTICA
IO
E quanto fosse reale questa sopramondanità dello spi-
rito religioso nell’età di mezzo è attestato dal sorgere e
moltiplicarsi degli ordini monacali, sequestratisi dalla vita
in un ideale astratto, in cui ogni postilla d’umano aspetto
svanisce e vien meno. Ricordate Francesco d’Assisi citato
da Pietro Bernardone a comparire innanzi ai consoli,
perché ne fosse richiamato ai doveri di figlio ; e prote-
stante che egli oramai, fatto libero dalla grazia di Dio,
non era soggetto né al padre né al magistrato della città,
ma servo soltanto di Dio altissimo. Simbolo, e quasi ideale
di questo uscire del chierico dalla vita mondana, nel buon
senso della parola, hi se, in questa sua solitaria ed astratta
spiritualità, c’è per lui una scienza, è ovvio che questa
non potrà avere forti elementi personali da assorbire, né
potrà riflettere in sé colori della vita circostante.
La storia italiana, per esempio, vive nei comuni, nei
feudi, nelle contese politiche tra Chiesa e Stato; ma tutto
questo è un mondo che non tocca l’animo dello scienziato,
che si divide senza sforzo dal suo popolo, e assorbito nel
circolo della scienza universale, può passare indifferente-
mente da Aosta a Canterbury, da Parigi a Oxford, da
Colonia a Ratisbona, a Strasburgo, a Parigi, e da Parigi
a Napoli, dalla Sassonia a Padova per ritornare in Ger-
mania, da Occam, in Inghilterra, a Parigi e in Baviera:
per tutto il mondo già unificato da Roma, e ora raccolto
in una fede dal cristianesimo. Parlano tutti sotto ogni
cielo una stessa lingua, che li aiuta ad estraniarsi dalla
famiglia, dagli affari e dagli uomini, che si agitano intorno
a loro, fuori delle scuole.
4. In quel mondo chiuso dell'intelletto tacciono perfino
i rumori e i contrasti delle sette e delle fedi diverse. Il
Petrarca, uno dei più poderosi avversari dello spirito me-
dievale scolastico, chiamerà cane arrabbiato Averroè, e
dei motivi religiosi si farà un’arma contro Aristotele. Ma
T. [.A FILOSOFIA SCOLASTICA IX ITALIA II
ascoltate Dante, che è tutto imbevuto di quello spirito,
quando nel quarto canto dell’ Inferno si fa dare da Vir-
gilio il nuovo battesimo di poeta ; quel battesimo ambito
dacché aveva impreso a scrivere il Convito, e sentito il
bisogno di una poesia, che fosse anche scienza e insegna-
mento; di quella poesia, onde agli occhi suoi era stato
maestro Virgilio, il « savio che tutto seppe », il « mar di
tutto il senno ».
Nel limbo, in cui è tanta parte dell’anima del Poeta,
divisa tra il culto della veneranda sapienza e della grande
arte pagana e il vivo bisogno della fede nuova riforma-
trice, attorno a quel fuoco, che sulla proda della valle
d’abisso, rompe la tenebra circostante (luce naturale dello
spirito, anche dove non splenda lume di fede), Dante trova
alcuni spiriti, per cui tanta è la sua venerazione da pen-
sare che quel luogo distinto, in cui essi stanno fuor della
« selva di spiriti spessi » che non ebbero battesimo, sia
effetto della grazia ottenuta in cielo dalla onorata nomi-
nanza, che di loro suona su nella vita: Omero, con Orazio,
Ovidio, Lucano, tutta la scuola del « signor delhaltissimo
canto, che sovra gli altri com’aquila vola»: tutti pronti
a rendere onore a Virgilio, l’altissimo interprete di quel-
l’altissimo canto. Dante ammesso sesto tra cotanto senno;
e da’ suoi grandi padri condotto alla gran luce, alla « lu-
miera » che già aveva attirato i suoi sguardi a piè d’un
nobile castello, cerchiato da sette mura, a cui si accede
per sette porte (quante le arti o discipline del trivio e
del quadrivio). E lì, nell’ interno, sul prato di fresca ver-
dura, quanto possono promettere allo spirito che si coltivi
negli studi le arti liberali: ogni forma di sapere storico,
scientifico e filosofico. Ecco gli eroi della storia insieme
coi grandi savi di storia naturale, medicina, morale, elo-
quenza; e, innalzando un po’ le ciglia, Dante può vedere
il maestro di color che sanno, « quello glorioso maestro,
al quale la natura più aperse li suoi segreti », il « maestro
1. T PROBLEMI DELLA SCOLASTICA
I Z
della umana ragione»: Aristotele. Lo vede seder tra filo-
sofica famiglia. Socrate e Platone gli stanno più presso,
innanzi agli altri; ma c’è anche Talete, Anassagora, Dio-
gene, Eraclito, Empedocle e Zenone, ed altri ed altri,
dei quali tutti il poeta non può ritrarre a pieno: tra i
quali tuttavia non manca di ricordare, egli che condan-
nerà nella bolgia del sangue e delle piaghe Maometto
rotto dal mento in giù, non solo il Saladino e Avicenna,
ma « Averrois, che il gran comento feo », pur non igno-
rando di certo quali gravi colpi (come il maestro Tommaso
sopra tutto, aveva mostrato) fossero venuti dall’averroi-
smo a credenze essenziali del cristianesimo. Quel verde
smalto, pieno di « gente di molto valore », come dice
Dante, di spiriti magni, che del vederli s’esaltava in se
stesso,
^^BCenti v'eran con occhi tardi e gravi,
Di grande autorità ne' lor sembianti;
Parlavan rado, con voci soavi, —■ 1
quel verde smalto, in cui l’anima di Dante si commuove
a religiosa reverenza non meno che nelle sfere superne
del cielo, è il mondo scolastico, dove la scienza accomuna
spiriti di tutti i tempi e paesi, di tutte le filosofie e fin
di tutte le credenze, nella libertà più serena dello spirito
assoluto, in cui sparisce ogni carattere di personalità
empirica.
Di qui quell’ « aria senza tempo tinta » (e come senza
tempo, senza spazio e senza differenze nazionali) che spira
nelle scuole della filosofia medievale: in cui non c’è tede-
schi, o italiani o francesi o inglesi, ma scholastici, come si
dissero per lo più i maestri, e talvolta gli stessi scolari.
Se un legame pur che sia tra la storia della filosofia sco-
lastica e una nazione volesse stabilirsi, questa nazione
1 Inf., VI, Il 2.
!. LA FILOSOFIA SCOLASTICA IN ITALIA 13
potrebbe essere la francese: poiché lo studio di Parigi fu
veramente il centro, attorno al quale gravitarono dalla
fine del sec. xn a tutto il xiv gli studi filosofici; e il mo-
numentale Chartularium universitatis Parisiensis raccolto
dal Denifìe e dallo Châtelain 1 è uno specchio dello svol-
gimento di quegli studi, segnatamente nel Due e nel Tre-
cento. Ma anche per la Francia si tratterebbe di legame
affatto esteriore e la Universitas magistrorum et schola-
rium, che essa albergava, era un mondo a sé, dove conve-
nivano e si distribuivano appunto, come in tutti gli studi
medievali, secondo le varie nationes, maestri e scolari di
regioni diverse.
5. Affinché, adunque, si vegga sorgere qualche carattere
nazionale nella storia della filosofia cristiana bisogna aspet-
tare la dissoluzione della scolastica. In Francia e in In-
ghilterra bisogna aspettare il tramonto del sec. xvi, quan-
do sorgono Cartesio e Bacone, che cominciano a scrivere
in francese e in inglese, e, nudriti, specialmente il primo,
nella filosofia scolastica, rompono con essa, trovando im-
pulsi speculativi radicalmente nuovi. In Germania la
dissoluzione incomincia fin dal sec. xm con Meister
Eckhart, che nelle sue Prediche scritte in tedesco inizia
non solo una letteratura filosofica nazionale, ma una filo-
sofia che, sebbene si sforzi di rivestirsi della comune forma
scolastica, s’inspira a un principio direttamente opposto
a quello che governa la filosofia delle scuole. E alla mistica
del sec. xiv si riattacca tutta la più schietta tradizione
germanica della filosofia moderna. In Italia, a differenza
di tutti gli altri paesi, il primo filosofo e tutti quelli che
con lui si possono considerare iniziatori di un movimento
di pensiero intimamente connesso con la nostra lettera-
tura e con tutta l’anima nostra nazionale, Francesco
In 4 tomi (1889-1897), oltre 2 di A actuarium (1894-97!.
T. T PROBLEMI DELLA SCOLASTICA
? t
Petrarca e gli umanisti che camminano sulla via eia lui
aperta, non scrivono in italiano; ma il loro latino non è
più il gergo scolastico, quella specie di xoivy; BiólKzktqc;
che il latino era diventato sulla bocca di quegli scrittori
senza patria, formulatoli d'un pensiero i cui elementi si
raccoglievano da fonti greche, alessandrine e bizantine,
romane, giudaiche ed arabe: ma il latino restituito alla
purezza primitiva e genuina della classicità romana, da
cui, poiché le forme dello spirito non è possibile che si
tramandino indifferentemente, doveva nascere una lette-
ratura affatto nuova, che è letteratura italiana, anche se
scritta in latino.
6. Ma Francesco Petrarca, che dà la spinta alla lette-
ratura nuova del nostro glorioso Rinascimento classico, e,
quasi senza saperlo anche a una nuova filosofia -— gene-
ratasi attraverso la rielaborazione dell'aristotelismo e del
platonismo prodotta dall’ Umanesimo, — Francesco Pe-
trarca era stato preceduto da un consapevole tentativo,
e grandioso, di nazionalizzare la filosofìa in Italia, scri-
vendone in volgare. Non guardate a quella povera cosa
{povera rispetto a chi la scrisse) che riuscì il frammento
del Convìvio dantesco, come opera dottrinale e filosofica;
ma ponete mente alle intenzioni dell’autore (piando vi si
accinse. Considerate che egli stesso, l’autore, s’avvide in
tempo, che non quei desolanti stiracchiati commenti alle
sue canzoni potevano dar vita all’ ideale artistico che ei
vagheggiava nella mente; e considerate pure che quello
stesso ideale egli intese a tradurre in atto nella Commedia.
Sicché può dirsi che il vero Convivio è il poema, chi guardi
all’ intimo svolgimento del pensiero dantesco.
Il Convivio, nell’ intenzione dell’autore, avrebbe dovuto
essere, come tutti sanno, una vasta enciclopedia del sapere
scientifico medievale. Lasciando a’ pochi beati, cui è dato
sedere « a quella mensa ove il pane degli angeli si mangia »,
I. LA FILOSOFIA SCOLASTICA TX ITALIA 15
ossia ai « religiosi » teologi la loro teologia, che è scienza
rivelata, Dante avrebbe nel suo banchetto imbandito le
briciole da lui raccolte a’ piedi di coloro che seggono.
Morta Beatrice, infatti, sapendo da Boezio della consola-
zione che arreca agli afflitti la filosofia, l’aveva anch’egli,
questa consolatrice, cercata alle «scuole de li religiosi»:
forse a Santa Maria Novella, dove i domenicani già spie-
gavano Tommaso d’Aquino; forse a Santa Croce, alle
scuole dei francescani, e «a le deputazioni de li filoso-
fanti ». Dove « in picciol tempo, forse di trenta mesi »,
aveva cominciato « tanto a sentire de la sua dolcezza, che
10 suo amore cacciava e distruggeva ogni altro pensiero » J.
A quelle dolci memorie giovanili negli anni penosi dell’e-
silio egli torna con un senso di fresco ristoro, come quando
in paradiso san Pietro lo esamina intorno alla fede;
Sì come il bacceìlier s’arma, e non parìa,
Fin che il maestro la quistion propone,
Per approvarla, non per terminarla;
Così m’armava io (Fogni ragione...
A quegli studi ritorna, come a sicuro rifugio, poiché
le sorti della vita pubblica gli sono state così fieramente
avverse, e 1’ fiali gittato fuori del dolcissimo seno della
bellissima e famosissima Firenze, « nel quale era nato e
nudrito fino al colmo della sua vita, e nel quale desiderava
con tutto il cuore di riposare l’animo stanco, e terminare
11 tempo che gli era dato » ; e costrettolo ad errar peregrino
mendicando per quasi tutte le parti, «alle quali questa
lingua si stende », mostrando contro sua voglia quella
piaga della fortuna, « che suole ingiustamente al piagato
molte volte essere imputata»; «legno senza vela e senza
governo, portato a diversi porti e foci e lidi dal vento
secco che vapora la dolorosa povertà ». Torna all’antica
1 Conv., Il, xn, 7.
16 I. I PROBLEMI DELLA SCOLASTICA
consolatrice, e sente che, mercé sna, egli potrà apparire
altr’uomo da quello, che i più eran soliti a vedere nel
giovanile poeta d’amore della Vita Nuova. Non aveva egli
appreso dai mistici come un’esposizione allegorica potesse
disascondere dai veli di una poesia amorosa la sostanza
delle più alte verità speculative ? « Moverni timore d’in-
famia e movemi disiderio di dottrina dare... Temo la
infamia di tanta passione avere seguita, quanta concepe
chi legge le soprannominate canzoni in me avere signo-
reggiato; la quale infamia si cessa, per lo presente di me
parlare, interamente; lo quale mostra che non passione,
ma vertù sia stata la movente cagione... E questo non
solamente darà diletto buono a udire, ma utile ammae-
stramento... » 1.
Il Convivio, insomma, doveva rialzare l’esule errabondo
e spregiato nell’estimazione degl’ Italiani, scoprendo il
dotto, l’uomo di pensiero, e insomma lo spirito serio nel
poeta delle « nuove rime » uso a notare quando spirava
amore. « Convienmi che con più alto stilo dea, ne la pre-
sente opera, un poco di gravezza, per la quale paia di
maggiore autoritade. E questa scusa basti a la fortezza
del mio comento » 1 2. Nel quale a bello studio pertanto si
coglie e si fa nascere ogni possibile opportunità di citare
opere aristoteliche o pseudo-aristoteliche; e di Platone è
ricordata la traduzione calcidiana del Timeo e quante
dottrine son pervenute a notizia di Dante attraverso
Cicerone o Agostino o Alberto Magno, o Tommaso d’A-
quino o lo stesso Aristotele. E Avicenna e Averroè e altri
arabi: al-Fàrabi, al-Ghazzàli, al-Farghànì, di cui conosce
gli scritti; e tutti i nomi di fì’osofì antichi, da Talete ad
Epicuro, che a Dante era accaduto di incontrare in Cice-
rone e in Boezio.
1 Conv., I, ii, 15-17.
2 Coni1., I, iv, 13.
LA FILOSOFIA SCOLASTICA IX ITALIA
Alle scuole dei religiosi l’Alighieri aveva anche appreso
che la grandezza dei più famosi poeti dell’antichità non
consiste nel vano ornamento favoloso, ond’essi seppero
rivestire i loro concetti; sì nell'arcana filosofia, che riu-
scirono a così bellamente insegnare. L'estetica medievale
gli aveva insegnato che il pregio sommo di quell ’Eneide,
che egli sapeva « tutta quanta » z, consiste appunto nella
universale dottrina, di cui Virgilio si dimostra espertis-
simo. Egli perciò non sdegnerà la poesia; ma la vorrà
pari alla poesia virgiliana, grave di verità e di ammae-
stramento.
Il Convivio, anteriore forse al De vulvari eloquentia,
certo al De Monarchia, può essere ascritto agli anni tra
il 1307 e il 1309, quando forse fu incominciata anche la
Commedia, e può considerarsi come il momento critico
dello spirito dantesco, il quale, movendo dalla poesia del
dolce stile, si orienta verso la poesia scientifica e filoso-
fica. Concepita, infatti, la poesia, secondo gl' insegna-
menti di quella cultura chiericale, che prevalse nella
mente di Dante quando il « vento secco » dell’esilio e della
povertà ebbe essiccata in lui ogni vena del vago poetare
giovanile, come strumento o forma di sapere assoluto,
potevano le canzoni prese a commentare nel Convivio
appagare alla lunga il suo nuovo ideale ? Quale dei grandi
poeti dell’antichità aveva sentito il bisogno di dimostrare
con esposizioni allegoriche il verace contenuto della
propria poesia ? E poi, il commento che egli veniva
compilando, per sforzi che facesse, non riusciva, né poteva
riuscire a cavar tutta dalle canzoni quella enciclopedia,
di cui Dante voleva esser dottore; e molta parte entrava
nell’ordito dell’opera come schiarimento e appendice al
commento. Laddove la teoria dell’allegorismo richiedeva
che nel simbolo fosse tutto il simboleggiato ; e l’alta poesia
1 Inf., XX, 114.
1!. — Gentile. I problemi duella scolastica.
iS LI PROBLEMI DELLA SCOLASTICA
doveva tutta comprendere in sé e lasciar trasparire di
tra le ombre sapienti la materia della dottrina. E però
Dante, nella sua energica personalità, non poteva non
stancarsi ben presto del faticoso tentativo di allegorizzare
le proprie canzoni; e non sentire il bisogno di un’attuazione
più piena di questa nuova poesia virile, a cui aspirava il
suo genio. E Dante interruppe il Convivio; e il fine stesso,
più maturamente concepito, perseguì nella Commedia,
La quale, per altro, dispenserà non soltanto quello che
cade dalla beata mensa, alla quale nel Convivio Dante
non credeva di poter sedere: cioè la pura scienza mondana,
o filosofia; ma lo stesso pan degli angeli, serbato ai pochi:
la teologia. Ammesso per Virgilio alla scuola dell’altissimo
canto, egli verrà condotto nel nobile castello della scienza,
fino ad Aristotele ; ma, infiammato dall’amore infinito della
sua Beatrice, salirà di contemplazione in contemplazione
fino a Dio. La sua poesia si leverà con volo possente dalla
materia d’amore alla dottrina di una somma teologica,
che ai dommi premette i prdeambula fidei, alla scienza
rivelata le arti liberali dovute ai lavoro spontaneo del
pensiero umano.
Avrebbe potuto scrivere una somma teologica, e scrisse
un poema; perché egli era nato poeta, e sentiva la forza
irresistibile del genio interiore, come accennò a Bona-
giunta. Di poesia era vissuto agli anni lieti della giovi-
nezza, quando il suo mondo era il mondo dei sogni e
dell’amore :
Guido, i’ vorrei che tu e Lapo ed io
Fossimo presi per incantamento,
E messi in un vascel, ch’ad ogni vento
Per mare andasse al voler vostro e mio;
E quivi ragionar sempre d'amore... 1
1 Rime, LII.
I. LA FILOSOFIA SCOLASTICA IX ITALIA
19
Quando questi sogni s'infransero, od ei cercò un pascolo
allo spirito negli studi dei religiosi, le passioni di parte lo
ebbero presto avvolto nelle loro spire, e distratto nelle
cure politiche e negli affanni tempestosi delle lotte citta-
dine. Uscir dalle quali fu per lui, com'era naturale, un
tornare bramoso a se stesso, allo spirito d’una volta,
dell’età più lieta, alla poesia: alla poesia bensì maturata
nei contrasti del mondo, nella prova dolorosa, nella grave
riflessione dell’uomo, che s’era una volta accostato alla
filosofìa e trovava già nella folta esperienza della storia
più agitata tanta materia di meditazione e tanti spiragli
di verità luminosa. Sicché le sorti della sua vita e gli
ammaestramenti della scuola poterono presto persuaderlo
a comporre in uno tutti i bisogni imperiosi del suo spirito:
tornare alla dolce poesia, ma filosofando; tornare alla
Beatrice degli anni belli, ma per trasfigurarla nella medi-
tazione degli anni maturi, cui non arridono più gl’ incan-
tamenti d’amore, e dell’uomo fatto pensoso dal serio spet-
tacolo del mondo. Non scriverà una somma (per Dante
la somma era stata scritta da Tommaso d'Aquino); ma
qualche cosa di più di una somma, che contiene sì la
verità, ma non più nuda e disamabile, e però imperfetta.
Laddove la forma ideale della verità nuova bandita dal
cristianesimo non avrebbe dovuto esser da meno di quella
che l’antica aveva ottenuta da Virgilio; e doveva riceverla
per Dante in un poema, al quale, quando era presso a
compierlo, ei potè pensare che avessero posto mano cielo
e terra 1 : le celesti ispirazioni della fede e le supreme con-
cezioni della ragione terrena.
Così la filosofia entrava non solo in quanto pensata e
fermata nella lingua volgare, ma, quel che è assai più,
raffigurata nei fantasmi del monumento più magnifico
della nostra arte, nella letteratura nazionale. Vi entrava
1 Par., XXV, 1-2.
20
I, I PROBLEMI DELLA SCOLASTICA
trionfalmente, con intera coscienza della importanza sto-
rica della novità. 11 programma dantesco, anche per
questa parte, è nel Convivio. Si leggano i capitoli 5-13 del
primo trattato, dove l’Alighieri dice perché scrive in
volgare il suo commento: e vi si vedrà esplicito il proposito
di creare un nuovo, serio, alto contenuto alla letteratura
già sorta fuori delle scuole ; e di trarre pertanto dal chiuso
di queste la scienza.
Che fu tale novità che, al primo tratto, nel Convivio,
Dante dubitò non fosse inopportuno questo suo scrivere
di così alte materie in volgare; e si chiese se c’era quella
« evidente ragione, che partir faccia l'uomo da quello che
per gli altri è stato servato lungamente >>; e si scusò lun-
gamente del suo ardire adducendo « lo naturale amore
della propria loquela » (oh la nostalgia del tempo felice
nella miseria ! del tempo in cui egli veniva trattando ad
ora ad ora la sua loquela col cesello dell’arte !).
Egli era geloso del suo volgare; e nel Convivio aveva
preferito lui maneggiarlo, anzi che, dando in latino il
commento, lasciare poi la cura, se mai, di volgarizzarlo
a qualche « illitterato », che l’avrebbe fatto parer laido :
come aveva fatto nella seconda metà del Duecento il
traduttore della Summa quorundam Alexandrinorum, o
estratti dAYEtica a Nicomaco, messi in latino da Ermanno
il Tedesco : (« come fece quelli che trasmutò il latino del-
VEtica ») ; o come fece anche il fisico Taddeo d'Alderotto,
che è pur menzionato nel Paradiso, quale uno degli autori
prediletti da’ mestieranti contemporanei, incuriosi della
« verace manna ».
Dante, insomma, tratta di filosofia in volgare per amore
d’artista e coscienza della propria arte. E difende perciò
il suo volgare da quelli che per « abominevoli cagioni » lo
dispregiano o lo tengon da meno delle altre lingue ro-
manze, sentendosi di dimostrarlo con l’esempio atto ad
esprimere «altissimi e novissimi concetti convenevolmente,
I. J.A FILOSOFIA SCOLASTICA IX ITALIA 21
sufficientemente e acconciamente ». E finisce con un inno
d’amore, di un amore che si potrebbe dire dionisiaco:
Questo mio volgare fu congiugnitore de li miei generanti,
che con esso parlavano..., per che manifesto è lui essere concorso
a la mia generazione, e così essere alcuna cagione del mio essere.
Ancora, questo mio volgare fu introduttore di me ne la via di
scienza, che è l’ultima perfezione, in quanto con esso io entrai ne
lo latino, e con esso mi fu mostrato : lo quale latino poi mi fu via
a più innanzi andare...
Oui lo scolastico si riscuote c si sveglia; e sente la
terra, a cui lo avvincono le sue radici spirituali. Indi sente
salire allo spirito la linfa della vita, e permeare in un solo
circolo vitale l’umore che avviva una moltitudine di par-
lanti una stessa lingua, e aventi in questa alcuna cagione
delbesser loro. Sa a prova il valore di questa lingua, a
cui era vietato l’ingresso nelle vecchie scuole; e con
l’istinto della vita che sarà vissuta, presente che una
nuova scienza nascerà, fuori di quelle scuole, germogliante
da quella terra, vivente di quello spirito che parlava il
volgare: una scienza che, uscita dalla breve cerchia dei
chierici privilegiati, si diffonderà nella moltitudine.
Questo sarà quello pane orzato del quale si satolleranno mi-
gliaia, e a me ne soperchieranno le sporte piene. Questo sarà luce
nuova, sole nuovo, il quale surgerà là dove l’usato tramonterà, e
darà luce a coloro che sono in tenebre e in oscuritade, per lo usato
sole che a loro non luce3.
Il sole che tramonterà sarà la scienza umbratile delle
scuole senza nessun carattere nazionale; il sole che sor-
gerà, se non nel Convivio, nella Commedia, sarà la scienza
liberata dal suo astratto universalismo, e fatta italiana,
perché passata attraverso una grandissima anima italiana,
e penetrata nella nuova vita d’ Italia.
1 Conv., I, xin, 4-5.
3 Conv., I, xin, 12.
I. I PROBLEMI OKI.LA SCOLASTICA
7. C’è infatti bisogno di dire, che non è nella sola lingua
astrattamente considerata l’italianità del poema dante-
sco ? 0 piuttosto, che la vera lingua, la vera forma, in cui
vive il mondo poetico di questo spirito eroico, che fu il
più possente dei creatori della nostra anima nazionale,
non è pur il volgare dei filologi, ma la stessa anima dan-
tesca, che fonde e potenzia la civiltà italiana in incuba-
zione nei Comuni, e nei contrasti economici tra le vecchie
e le nuove classi, nelle ardenti passioni sociali e religiose
divampate dalle eresie insinuate o diffuse dal moto fran-
cescano nel corpo stesso del cattolicismo, nelle antiche
aspirazioni all’ ideale perenne della romanità, nella cultura
delle lettere e delle arti, nelle sempre risorgenti esigenze
contro le pretensioni ierocratiche della Chiesa ? Nessuno
oggi pensa più che la lingua d'un uomo o di una lettera-
tura sia quella chiusa nei vocabolari c nelle grammatiche:
poiché ci siamo accorti che la parola suona nel contesto
di un’anima con accento sempre nuovo nell’ inquieto svol-
gimento della sua vita; e nella forma che par parola
vediamo confluire e condensarsi tutta la spiritualità nel-
l’atteggiamento individuale o storicamente determinato,
che vi s’esprime. Anzi l'espressione non ci pare sia altro
che questa vita interiore, questa effusione lirica che un
mondo, per altro in sé concepibile solo in astratto e sempre
dopo che è stato espresso, assume nello spirito in crii si
realizza.
Non è ufficio mio analizzare qui i caratteri nazionali
dell’opera dantesca; e qui può bastare l’osservazione,
tante volte già ripetuta, che Dante è risorto non dico
nella oziosa erudizione, per cui ogni materia è degna
perché nessuna materia è davvero degna per gli animi
indifferenti, ma nella vita palpitante, attuale, concreta
dello spirito italiano, ogni volta che gl’ Italiani si sono
comunque, letterariamente o politicamente, riscossi, si
sono guardati in faccia, e hanno sentito un’unità di ori-
I. LA FILOSOFIA SCOLASTICA IN ITALIA
gine, di tradizione, di aspirazione: un’essenza comune,
insomma, e una sostanza e missione nazionale.
Ebbene, Dante rompe in letteratura l’universalità me-
dievale; e per l’ampiezza del mondo che esprime la sua
vasta poesia, si può dire che crei la storia dello spirito
italiano, in quanto arte, religione, filosofìa.
Ma la sua creazione ha carattere artistico, e non reli-
gioso né filosofico. Il suo spirito è attivo come arte che
c' impone pur oggi, dopo tanta vita di travaglio religioso
e di pensiero, quel vecchio mondo di fede e di speculazione
medievale vivente nell’aere eterno dell’arte; ma è piutto-
sto passivo e recettivo sì in religione e sì in filosofia.
Che se soltanto la religione e, più adeguatamente, la filo-
sofia ci danno il reale nella sua obbiettività, quale gli
uomini vogliono averlo innanzi, non più mero ideale
carezzato dalla fantasia, ma mondo saldo della loro fede;
Dante italianizza la scolastica, come italianizza il misti-
cismo moderato e contradittorio e il cattolicismo medie-
vali ; ci fa sentire la vita che questo mondo universalistico
medievale continuava a vivere anche in uno spirito, che
nel mondo del pensiero si affacciava così energicamente
alla realtà della nuova storia d’ Italia; ma non dà alla
storia d’ Italia né una nuova fede religiosa, né un con-
cetto filosofico iniziatore.
Quello che Dante credente e filosofo ci ha tramandato,
non è di lui, non è nostro, ma di quel Medio Evo, in cui,
come pensatori, non avevamo neppure una vera persona-
lità: quello che è suo, ed è nostro, è un mondo non chiuso
in una determinata idea religiosa e filosofica, e però logi-
camente compatibile ancora con le vecchie forme della
fede e della speculazione. Rispetto alle quali dirò anche
essere stato Dante eclettico e conciliativo, come chi non
ha un grande interesse ai profondi motivi spirituali, da
cui nascono sempre le divergenze e le lotte in religione
e in filosofia.
1. Í PROBLEMI DELLA SCOLASTICA
E dirò pure che l’esempio singolarmente significativo
di Dante determina il senso che solo può darsi alla ricerca
propostaci in queste lezioni, intorno alla filosofia scola-
stica italiana, non volendo del tutto arbitrariamente dir
tale la filosofia di quegli scrittori medievali che nacquero
e magari vissero per qualche tempo in Italia. La nostra
ricerca cioè non può mirare se non a quella filosofia che,
come scolastica, non è punto italiana ; e che con la storia
nostra ha questo solo legame, che essa era studiata anche
nelle scuole italiane, anche dagli Italiani, che come Dante
si procacciassero una profonda cultura filosofica: e che,
secondo l’indole sua, poté favorire o contrastare inclina-
zioni più intime e più proprie dello spirito italiano: un
legame affatto analogo a quello per cui nella storia ita-
liana, e più strettamente della letteratura italiana, pos-
siamo pure occuparci della filosofia di Hobbes e di Rous-
seau a proposito di Ugo Foscolo, che non fu filosofo, e
di quella dei sensisti e materialisti francesi a proposito
di Leopardi, che non fu filosofo neppur lui.
8. Da Dante al Petrarca il problema si rovescia ; e però
io considero il secondo, e non il primo, iniziatore di una
filosofia italiana, quantunque il primo abbia un così vivo
senso del bisogno di far entrare la filosofia nella nostra
letteratura, e il secondo ostenti un così superbo dispregio
del volgare italiano là dove si fa assertore e propagatore
di una scienza che cacci di seggio la scolastica. In Dante
la filosofia è materia d'arte, è contenuto, alimento della
sua ricca personalità poetica; nel Petrarca la stessa sensi-
bilità del poeta diventa materia d'un concetto della filo-
sofia profondamente diverso da quello grettamente intel-
lettualistico proprio delle forme più povere della scola-
stica, in cui egli s'imbatte: il terminismo occamistico,
che invase tutte le scuole d' Italia, e vi ebbe uno dei
più celebri sommolisti con Paolo Veneto; e l'averroismo
I. LA FILOSOFIA SCOLASTICA IN ITALIA
2 5
irreligioso dei medici e naturalisti senza interesse filoso-
fico, insediatosi principalmente per opera di Pietro d’A-
bano nella scuola padovana.
Ma, se la storia della filosofia, che può dirsi nostra,
comincia a rigore con l'Umanesimo, nel doppio senso
filologico e filosofico di questa parola, iniziato dal secondo
grande poeta della nostra letteratura, fa d’uopo anche
riflettere che ogni storia è un quadro in cui le figure, che
attirano la nostra attenzione, risaltano sopra uno sfondo
più o meno lontano, che la fantasia vagamente ricostruisce
quando manchi nella tela. La filosofia italiana dal Pe-
trarca e da Marsilio da Padova fino al Rosmini e al Gio-
berti, attraverso il Ficino e il Pomponazzi, il Telesio e il
Patrizzi, il Bruno e il Campanella e fin lo stesso Vico, non
si stacca mai del tutto dalla sua matrice, che è la filosofia
scolastica, platonica o aristotelica. Tutti, o quasi tutti, i
nostri filosofi recano nel loro pensiero qualche cosa di
scolastico, di medievale, di inesplicabile senza quella sco-
lastica, senza quel Medio Evo, rimasto nel cuore stesso
della nostra cultura e dell’anima nostra : la « grave mora »,
sotto la quale per secoli e secoli giacque oppressa la nostra
spontaneità e intimità religiosa e filosofica.
V’ ha chi fantastica, di là d’ogni concezione intelligi-
bile, di un’ indole della razza latina, indifferente a quei
motivi mistici, in cui si radica non pure la schietta reli-
giosità, ma anche lo schietto spirito speculativo, che è
sì bisogno di intendere, ma d’intendere qualcosa che sia
tutto, e un tutto che si senta vivo dentro il nostro animo
stesso. Ma questa razza, che non sia un mito, è la storia.
E la nostra spontaneità spirituale è stata sempre (pos-
siamo dire senza immodestia, fino ad oggi) impedita e
compressa dalla nostra tradizionale e ufficiale e fatale
cultura. Nessuno dei nostri pensatori ha fatto scuola tra
noi: ogni moto filosofico ha raggiunto faticosamente un
vertice, su cui s'è arrestato; e poi s’è dovuto ricominciare
>6
I. I PROBLEMI DELLA SCOLASTICA
da capo, con nuovo sforzo. La scuola, ecclesiastica o laica,
fino al sec. xvm fu scolastica : Aristotele il testo dell' in-
segnamento accademico in Italia fino alla Rivoluzione
francese. Dalla quale non avemmo una spinta a un movi-
mento filosofico nostro se non nel periodo della restaura-
zione, quando alla filosofia dovemmo tornare con due
pensatori grandi ma preoccupati da preconcetti religiosi
intesi pure scolasticamente. Poiché l'altra scuola di filo-
sofia che, oltre l’accademia pei dotti, avemmo in Italia
anche dopo la morte ideale della scolastica, voglio dire
la scuola di filosofìa pel popolo, per tutti, quella che do-
veva deporre in tutte le anime almeno il germe d’un
concetto dell’assoluto, la Chiesa, per l'andamento parti-
colare della nostra storia politica, non tutta soggetta né
tutta libera dal Papato, non ha mai potuto essere altro
che la Chiesa cattolica: una Chiesa, la cui dommatica
coincide coi principii essenziali della scolastica, quali pro-
cureremo di fermarli in queste altre lezioni : e che si
possono riassumere nella negazione della divinità del-
l’uomo, nella netta separazione tra l'anima umana e
quella realtà che quest’anima, ripeto, deve sentirsi dentro,
per vivere una vita veramente e profondamente religiosa
e insomma proporsi e sentire il problema filosofico. Ora,
quando ci s’abitua a guardar fuori per vedere l’oggetto
che solo è dentro di noi, come volete che si desti mai
in tutta la sua pienezza quella vita rigogliosa dello spirito,
che nasce dalla coscienza di quest'oggetto ?
Così Bruno, Vico, Gioberti scoprono, ciascuno con ge-
nialità meravigliosa d’intuito speculativo, un Dio, che è
momento essenziale nella storia del pensiero moderno nelle
sue più alte manifestazioni : ma nessuno di essi è in grado
di riconoscervi il suo vero Dio.
Questa invero la nostra storia, che solo ora si ripiglia
con quella piena libertà di spirito che è l'aria vivificante
così del pensiero filosofico, come di quello religioso.
I. LA FILOSOFIA SCOI.ASTICA IX ITALIA
9. La rappresentazione storica delia filosofìa italiana
pertanto ha più d’ogni altra bisogno di uno sfondo scola-
stico. Ed è fortuna per la coscienza nazionale del nostro
spirito, che tale sfondo ci stia sempre innanzi, indimen-
ticabile, in opera pur così fortemente italiana come la
Commedia dantesca. La quale, per altro, con la scolastica
ci conserva un motivo di dissoluzione della medesima:
una delle prime e più vigorose proteste levate dalla stessa
logica della vita contro il trascendente della scienza me-
dievale ; una delle prime affermazioni di quella coscienza,
che, pervenuta più tardi a concetto generale della realtà,
sarà la filosofia moderna.
Voglio accennare a quel credo politico, a cui Dante si
sforza di dare forma filosofica nel De monarchia: che è
nella forma e nei principi! un trattato scolastico; ma si
propone pure una tesi in assoluto contrasto cogl’ insegna-
menti generali della filosofìa stessa dantesca. La quale,
si noti, non solo non permette a Dante di salire con la
sola guida di Virgilio, simbolo della ragione umana, dalla
selva delle passioni accecatrici fino alla luce di Dio, ma
non ritiene lo stesso Virgilio capace di muovere al soc-
corso dell’uomo per dirgli « quanto ragion vede >u giù per
i cerchi dell’ inferno e su per i gironi del purgatorio fino
alla « selva antica » del paradiso terrestre, senza il comando
e lo sprone di Beatrice « loda di Dio vera », scienza rive-
lata; la quale va a lui, non chiamata, non attesa; inviata,
da Lucia, la « nimica di ciascun crudele », la grazia illu-
minante; mossa, a sua volta, dalla donna gentile, grazia
preveniente. Insomma, la stessa salute terrena, pur pos-
sibile per opera di ragione umana, secondo la filosofìa
scolastica, che è quella di Dante, presuppone 1’ intervento
positivo di un’azione divina estrinseca alla ragione umana.
Tuttavia, quando l’uomo politico si propone il problema
1 Puvg., XVIII, 46.
SCOLASTICA
2 S I. ! PROBLEMI DELLA
dei rapporti tra Stato e Chiesa, l’imo, si può dire, opera
di Virgilio, e l’altra di Beatrice; quello indirizzato alla
beatitudine terrena, al paradiso terrestre, e questa alla
felicità eterna del celeste paradiso, Dante sta con 1' « ul-
tima possanza di Soave », con 1’ « ultimo imperator delli
Romani » J, con quel secondo Federico, per cui tanta era
la sua ammirazione, quantunque nella severità della sua
divina giustizia lo dovesse pur condannare alle tombe
infocate come un « epicureo », di quelli « che l’anima col
corpo morta fanno », e che perciò non possono sperare
al lor Virgilio gli estrinseci aiuti d’alcuna Beatrice. Il suo
Stato è all’uomo operatio propriae virtutis, celebrazione
della propria natura; la quale soltanto al celeste paradiso
non può ascendere ni si iumine divino adiuta. Ai fini dello
Stato per philosophica documenta venìmus, dummodo illa
sequamur, secundum virtutes morales et intellectuales ope-
rando. Alla pienezza della vita terrena I mezzi ci sono
forniti ab huniana fattone, quae per philosophos tota nobis
innotuit2. E però lo Stato, pura opera umana, è indipen-
dente dalla Chiesa; possiede un valore assoluto, ha in
sé Dio. Il che vuol dire che Virgilio può da se medesimo
uscire dal nobile castello « del vizio senza speme » e muo-
vere da sé incontro alla virtù stanca del discepolo smar-
rito. Dante non ha più bisogno di dire a Cavalcante: « Da
me. stesso non vegno !» a
Certo, questo spunto d’immanenza non è svolto: e
rimane in contraddizione col carattere complessivo del
pensiero dantesco. Ma è anche vero che questo spunto
sarà sempre il tratto più brillante, più significativo, più
vivo del pensiero di Dante, ogni volta che gl’ Italiani si
ricorderanno del loro primo padre spirituale per averne
un monito e una parola di missione storica nazionale.
1 Conv.t IV, ni, 6, e Par., Ili, 120,
- Mon., Ili, 16.
? Tnf.. X, 15.
I. LA FILOSOFIA SCOLASTICA IN ITALIA
20
Ed è anche vero che tutta la nostra filosofia da Marsilio
a Gioberti e a Spaventa, come tutto il resto della filosofia
moderna antiscolastica, è intenta allo svolgimento di quel
germe d’immanentismo.
io. E da questo aspetto Dante ci riporta a Federico li,
da cui pigliammo le mosse: al fiero avversario del prepo-
tere papale, allo strenuo difensore delle prerogative dello
Stato, al primo che abbia pensato a raccogliere sotto un
governo, in un sol corpo, tutta la penisola. E riportandoci
a questo grande suo precursore che « della filosofia fu
studioso » come dice lo Pseudo-Iamsilla, « e non pure egli
la coltivò, ma volle che nel regno si propagasse », non
solo ci fa fermare a un punto di maggior momento sto-
rico, per la storia generale d’ Italia, ma ad un’afferma-
zione più piena e più concreta di quello stesso germe di
dissoluzione, che la Scolastica mostra con Dante nelle
sue viscere. Giacché in Federico svevo l’aspirazione all’au-
tonomia assoluta dello Stato si giovava di tendenze filo-
sofiche, pur proprie della scolastica, ma aliene dal pen-
siero dantesco: le quali nella scolastica fermentavano ap-
punto come principio dissolvente.
Di lui fra Salimbene disse che non aveva alcuna fede in
Dio : Erat epicureus, et ideo quicquid poterat invenire in Di-
vina Scriptura per se et sapientes suos, quod faceret ad osten-
dendum quod non esset alia vita post mortem, totum inve-
niebat. — Fuit vere epicureus, dice Benvenuto, l’arguto
commentatore della Divina Commedia; giacché, aspirando
a potenza e dominio per fas et nefas, insorse con ingrati-
tudine grande contro madre Chiesa, che lo aveva educato
pupillo, e l’afflisse con più guerre, facendo invece una
pace turpe col sultano, quando avrebbe potuto e dovuto
liberare Gerusalemme. — Ma, spogliata la tradizione
guelfa del contorno e del colorito leggendario, che è già
nell’atto di scomunica fulminato contro il re pestifero
30
I. I PROBLEMI DELLA SCOLASTICA
da Gregorio IX nel 1239, resta che Federico il, pur facen-
dosi, per motivi politici, persecutore acerrimo degli ere-
tici, per la sua cultura mezza cristiana e mezza araba,
pel suo continuo contatto con dotti musulmani e giudei,
fu personalmente scettico in fatto di religioni positive : e
ne è sicuro documento il racconto che i cronisti arabi
fanno della sua condotta verso i musulmani nella cro-
ciata che condusse a Gerusalemme. Onde il Renan potè
scrivere : « Fu certo uno spettacolo strano quello di questa
crociata, in cui si vide l’unione più cordiale regnare tra
l’imperatore e il capo degl' infedeli, a gran dispetto dei
loro eserciti fanatici. E lo scandalo giunse al colmo quando
Federico visitò Gerusalemme. Dove non parve il più santo
della cristianità se non per burlarsi più apertamente del
cristianesimo. Il rettore della moschea che. l’accompa-
gnava racconta gli scherzi onde questo strano pellegrino
rese notabile la sua visita ai luoghi santi. Conversava
di matematica e filosofia coi dotti musulmani, e indirizzò
al sultano problemi molto difficili su queste scienze; e il
sultano, da parte sua, mandò in dono all’ imperatore
una sfera artificiale rappresentante i movimenti dei cieli
e dei pianeti ». Federico, dunque, aveva ben più profonde
ragioni di Dante per opporsi alla pretesa teocratica di
Gregorio IX, quando questi nella sua lettera del 23 otto-
bre 1236 gli rimproverava di disconoscere « il potere che
lo aveva fatto ciò che egli era ».
Un documento interessantissimo del pensiero filosofico
dell’ imperatore lo abbiamo nei Quesiti siciliani dello
sceicco Ibn Sab’ in, conservati in un manoscritto di Ox-
ford e pubblicati da Michele Amari T. Dove il filosofo
musulmano da Ceuta, in Africa, risponde a talune que-
stioni che Federico intorno al 1240 aveva inviato ai dotti
1 Nei Journal Asiatique del 1853. Cfr. dello stesso Amari, Storia dei
musulmani di Sicilia, ITI, (1872), pp. 701-03.
I. LA FILOSOFIA SCOLASTICA IX ITALIA
31
di tutte le parti d’ Oriente: e lo stesso testo di esse ripor-
tato da Ibn Sab' In, che ora non posso analizzare, ma
di cui mi sono altrove occupato, dimostra che Federico li
era un averroista stretto a quegli « invidiosi veri » che
sillogizzerà Sigieri, leggendo a Parigi nel Vico degli strami :
quei veri invidiosi allo spirito più puro della scolastica,
perché con Punita dell’ intelletto toglievano, come vedre-
mo nella nostra quarta lezione, la personalità della parte
immortale delPanima umana, e negavano perciò P immor-
talità dell’anima individuale; e, con l’eternità del mondo,
spiantavano il domma della creazione, e sottraevano in
certo modo la natura all’azione di un Dio trascendente.
Quindi si spiega perché i guelfi lo chiamassero epicureo :
che fu nel Medio Evo designazione generica di chi non
credesse in un’altra vita; e perché l’accusassero di non
credere in nessun Dio ; quantunque nella seconda metà
del Duecento tutti gli averroisti latini non dubitassero
di salvare la fede nell’ immortalità, grazie alla famosa
dottrina della doppia verità, che nel sec. xvi rinnoverà
il Pomponazzi per Io stesso motivo ; e quanto all'eternità,
non ne rifuggisse, come vedremo, nel terreno della filo-
sofìa lo stesso Tommaso d’Aquino, il quale faceva anche
lui della creazione in tempo un mero articolo di fede.
Ma la tradizione guelfa per Federico II non si spieghe-
rebbe, se egli non avesse dimostrato di professare senza
riserve quelle dottrine averroistiche. Le quali, se non im-
pedivano ai seguaci di Ibn Rushd una sincera profes-
sione di teismo (che anzi concorrevano, come vedremo,
ad accentuare il concetto della trascendenza, che è il car-
dine dello scolasticismo), d’altra parte, alPaverroista che
non fosse andato fino in fondo della propria logica consen-
tivano ed agevolavano una certa affermazione dell’auto-
nomia della natura, nel largo senso medievale. Onde aver-
roismo divenne nel sec. xiv sinonimo d’incredulità e di
materialismo, come accadde nelle polemiche che contro
t. I PROM.IMI HI.].LA SCOLASTICA
gli averroisti del suo tempo condusse il Petrarca, special-
mente nell'opuscolo così caratteristico e significativo De
sui ipsius et multormn ignorantia. E la tradizione aver-
roistica padovana dei sec. xiv e xv è tradizione di libero
pensiero naturalistico.
Appunto per questa intonazione dell’averroismo di Fe-
derico II, che non fu uno studioso solitario, ma un vero
excubitor ingeniorum e un promotore entusiasta di studi
filosofici, per tutti i mezzi di cui poteva disporre, dalla
sua corte, centro della nuova ingenua cultura romanza e
della provetta e ricca scienza orientale, fondatore di
università, rinnovatore della biblioteca filosofica del sec.
xiii in Italia; in quello sfondo della storia della nostra
filosofia, dove noi dobbiamo allogare i movimenti spiri-
tuali, dalla cui risoluzione sorge il pensiero nuovo e nostro,
al geniale Svevo d’ Italia e al suo Manfredi, che ne seguì
degnamente le orme, non può negarsi un luogo cospicuo.
Al principio del sec. xn la scolastica non ha ancora
conquistato il posto che è destinata ad occupare nella
storia del pensiero. Di Aristotele 1’ Oriente non ha cono-
sciuto ancora se non la Logica; prevale la corrente plato-
nico-agostiniana, che non crea nessun grande movimento
filosofico; e i dialettici, a proposito dell’ Isagoge porfi-
riana, s'impigliano nel problema degli universali, che,
senza l’interesse teologico, variamente ferito dalle oppo-
ste soluzioni, non avrebbe potuto, pel suo significato filo-
sofico, destare tanto ardore di dispute: poiché nomina-
listi e realisti dovevano in conclusione accordarsi nella
concezione dualistica, ed essere gli uni e gli altri, pertanto,
egualmente realisti.
Il sec. xiii, invece, rappresenta un instaurati^ ab imis
della filosofia medievale, per la penetrazione nel mondo
latino dei libri della Fisica e della Metafisica di Aristotele,
provenienti principalmente dalla Spagna araba; seguiti
poco stante dalle versioni dei compendi che ne aveva
I. LA FILOSOFIA SCOLASTICA IN ITALIA
fatti Avicenna e dei commenti diversi di Averroè, morto
proprio alla fine del secolo innanzi (1198). L'orientamento
degli studi cambiò. Cominciarono le preoccupazioni del-
] autorità ecclesiastica. E cominciarono i divieti. Nel 1210
un concilio provinciale tenutosi a Parigi, e nel 1215 il
legato pontificio Roberto di Courgon nel regolamento
imposto alle scuole parigine, proibirono la lettura di
questi libri aristotelici, dei compendi e dei commenti.
Il legato lasciava passare soltanto YEthica vetus, conte-
nente il secondo e il terzo libro della Nicomachea. Quando
nel 1231 Gregorio IX, l'avversario di Federico II, rico-
stituì l’università di Parigi, che s’era sciolta due anni
innanzi, rinnovò la proibizione, finché epici libri non fos-
sero esaminati ed espurgati. Ma pochi giorni dopo — i
tempi maturavano rapidamente, poiché i nuovi libri,
malgrado tutti i divieti ecclesiastici, si facevano strada
e il papa non voleva esser da meno del suo aborrito Fede-
rico nel favore verso gli studi -— scriveva all'abate di
san Vittore e al priore dei Predicatori a Parigi, che assol-
vessero maestri e scolari incorsi in pena per le proibizioni
anteriori. E subito dopo nominava una commissione di
teologi, che esaminasse questi libri con tutta l’attenzione
e il rigore necessari, per purgarli d’ogni errore atto a
scandalizzare ed offendere i lettori, sì che essi potessero,
senza altro ritardo e senza pericolo, esser restituiti allo
studio: così come — secondo la bella immagine ponti-
ficia — una donna di rara bellezza, presa tra i prigionieri,
non sarà introdotta in casa prima che non abbia lasciato
cadere sotto le forbici il soverchio della incolta capiglia-
tura e ritagliare le aguzze unghia.
Allora fu un accorrere entusiasta di tutti gli spiriti
attorno al nuovo Aristotele, rivelato dagli arabi. E nel
lavorio d’interpretazione intorno a quei testi si costituì
la Scolastica sistematica, che fiorì nel sec. xm. Soprag-
giunsero intorno alla metà del secolo i testi greci, di cui,
3. — Ckstilk, I problemi rifila gmhtxfim.
Fio: " ; | 1 ^
derUnivv.ioiu • oesouui mudes
34
I. I PROBLEMI DELLA SCOLASTICA
principalmente per opera di Enrico di Brabante e di Gu-
glielmo di Moerbeke e desiderio di Tommaso d’Aquino,
si fecero traduzioni dirette, letterali, che servirono ap-
punto a’ commenti tomisti, condotti col metodo inaugu-
rato da Averroè. E in Tommaso e in Giovanni Duns
Scoto la scolastica toccò l’apogeo, cui seguì poscia la
discesa.
Orbene, a questo risorgimento filosofico, che di è luogo
alla fioritura della scolastica, Federico e Manfredi diedero
un impulso potente. Il primo giovossi principalmente del
celebre Michele Scoto, condannato come mago da Dante
alla quarta bolgia del cerchio ottavo : di quello Scoto, per
opera del quale, secondo Ruggero Bacone, si sarebbero
divulgate intorno al 1230 per V Europa le versioni latine
degli expositores sapientes di Aristotele, oltre a quelle di
alcuni scritti aristotelici. Infatti, prima di venire alla corte
di Federico, intorno al 1220, egli aveva tradotto i com-
menti di Averroè al De cado et mundo e al De anima;
e forse anche quelli al De generatione et corruptione e ai
Metereologici; nonché le parafrasi dei Parva naturalia e
il De substantia orbis. E doveva avere tradotto, sempre
dall’arabo, gli stessi libri aristotelici De cáelo et mundo e
De anima. Intorno al 1232 era a Melfi presso Federico,
e traduceva per lui il compendio di Avicenna del De
partibus animalium e una manipolazione, anch’essa araba,
dei Phy sio gnomica. Ma le traduzioni già compiute dallo
Scoto potevano essere tra quelle che Federico mandò alle
varie università.
Manfredi, che il Collenuccio dice « dottissimo in filo-
sofia e grandissimo aristotelico » ; e di cui il guelfo Gio-
vanni Villani ci assicura che « tutta sua vita fu epicurìa,
non curando quasi Iddio né santi »; oltre a tradurre di
suo dall’arabo in ebraico e quindi in latino lo pseudo-
aristotelico De Pomo, stipendiò dotti a tradurre dall’arabo
I. LA FILOSOFÌA SCOLASTICA IN ITALIA
35
opere dello Stagirita, come ci è attestato da un accenno
àeWOpus tertium del vecchio Bacone; e noi possediamo
tuttavia due versioni dal greco, eseguite per commissione
di lui: l’una dei Problemi, anonima; e l’altra dei Magna
morali a, di Bartolomeo da Messina.
li. Così gli ultimi Svevi, la cui opera e la cui sorte ò
strettamente legata alla nostra storia, da una parte promo-
vevano il risveglio degli studi filosofici nel sec. xm, e però
della scolastica, e, dall’altra, ne favorivano l’indirizzo, che
doveva creare maggiori difficoltà alla intuizione fonda-
mentale della scolastica stessa e di tutta la filosofia ante-
riore, e affrettarne la fine. E però dicevo a principio che,
se lo storico della letteratura italiana, sulle orme di Dante,
deve rifarsi dalla reggia di Sicilia, indi pure deve prender
le mosse lo storico della nostra filosofia. Se non che l'arte
precede la filosofia; e la poesia già nel Duecento è formata,
e culmina al rompere del secolo successivo in Dante. Il
pensiero speculativo s’indugia dapprima nella rielabora-
zione del passato, e non perviene alla oscura coscienza
della vita nuova se non al declinare del Trecento. Per
più d’un secolo, tra la metà del xm e la metà del sec.
xiv, è un fervore di vita speculativa che vuole assorbire
le antiche dottrine, nella sistemazione più scientifica e
grandiosa che se ne conosca, quella di Aristotele. ETna
vita agitata, di spiriti impazienti di riconquistare quel
gran mondo smarrito, che s’affrettano a ripercorrere rapi-
damente in tutti i sensi; e nel tumulto, nell’entusiasmo
e nell’ansia dell’opera febbrile cercano un orientamento,
una filosofia nuova.
Poiché anche gl’ Italiani vi parteciparono, poiché il
modo in cui vi parteciparono è in stretta relazione colla
vita religiosa, di cui essi erano capaci, e che è nell’ in-
tento di questi corsi indagare, contentiamoci nelle pros-
I. L PROBLEMI DELLA SCOLASTICA
36
siine lezioni, che non potranno essere la storia di una
filosofia italiana, che non ci fu, di rappresentare in iscorcio
quel tumulto di ricerca, che fu pure vita nostra, quando
anche noi cercavamo una filosofia capace di intendere
la grande realtà nuova rivelata dal cristianesimo : la realtà
dello spirito.
IT
LA VERITÀ
i
i. Nei primi giorni dell’ottobre 1259, il settimo generale
dei frati minori, dopo Francesco d’Assisi, Giovanni Fi-
danza (1221-1274), in religione frate Bonaventura da
Bagnorea, saliva in cerca di pace il « crudo sasso, intra
Tevere ed Arno », dove Francesco, trentacinque anni
prima, macerato dai digiuni e dalle preghiere, aveva preso
da Cristo 1' « ultimo sigillo », che le sue membra portarono
quindi per altri due anni: saliva, in cerca di quella pace
estatica, a cui aspira la contemplazione. Ma sull'Alvernia
alla tepida anima del discepolo non soccorse la visione
ingenua, in cui s’era estasiato lo spirito ardente, ma più
schietto e più semplice, del padre Francesco: la visione
del serafino, del profeta, dalle sei ali.
Il discepolo era un dottore, due anni prima solenne-
mente laureato nello studio di Parigi, dove aveva impa-
rato come Tardore stesso di padre Francesco da volo
dell’anima innamorata di Dio potesse trasformarsi nel
metodo di una dottrina: metodo, di cui l’amore da parte
del soggetto e la grazia da parte dell’oggetto fossero bensì
l’espresso presupposto, ma che, date le condizioni neces-
sarie, non assolveva l’atto essenziale mistico in uno slan-
cio immediato, sì lo mediava e spiegava in una serie di
gradi laboriosi, fondati con logica intellettualistica sulla
3«
1. I PROBLEMI DELLA SCOLASTICA
considerazione filosófica del mondo spirituale correlativo:
sì che il senso mistico diventasse forma capace e indiffe-
rente di un contenuto, in cui la costruzione dell’ intel-
letto potesse liberamente adagiarsi, e sostituirsi nell’anima
dello studioso al vero e diretto interesse divino, 11 fine
rimaneva; ma la passione intellettuale della scuola., com'è
ovvio, lo allontanava e riponeva in una cima sì alta e
remota, che il mezzo di raggiungerlo lungo la scala fati-
cosa destava un problema nuovo, e, senza che il mistico
se n’accorgesse, diventava esso stesso fine.
Nessuna meraviglia pertanto se frate Bonaventura,
andato sul monte sacro al ricordo dei seguaci di Fran-
cesco, a studiare, — dum mente traci-arem aliquas mentales
ascensiones in Deum, com’egli stesso racconta, — non
vide anche lui il suo serafino, ma si rammentò solamente
di quello che aveva visto padre Francesco: e lungi dal
rivivere i sentimenti del Santo, gioì del pensiero, punto
francescano, che quella visione potesse raccostarsi alla
teoria della contemplazione che egli aveva appreso dal
maestro, a parer suo, più insigne in questa materia, il
vittorino Riccardo I: poiché quella visione poteva simbo-
leggiare appunto l’estasi e la via di pervenirvi. Nam per
senas alas illas recte intelligi possunt sex illuminationum
suspensiones, quibus anima quasi quihusdam gradibus vel
itineribus disponitur, ut transeat ad pacem per ecstaticos ex-
cessus sapientide christianae.
Ed ecco la mistica visione di Francesco, che era stato
atto vivo dello spirito anelante a Dio, trasformarsi nel
dottrinale Itinerarium mentis in Deum; teoria artificiosa
e astratta, di cui quell’atto già vivo diventa oggetto,
quasi materia già morta; e vivo rimane, ma malamente
vivo, come può essere il tentativo di risolvere un problema
1 Cfr. Red. art. ad theol., 5.
II. LA VERITÀ
39
mal posto, soltanto l’atto che lo teorizza: l’atto intellet-
tuale, che impietra l’amore.
2. Ebbene, leggiamolo, questo celebre Itinerario, che
ci può rendere un’ immagine adeguata del contrasto im-
manente a tutte le direzioni della filosofia cristiana me-
dievale; la quale tutta può dirsi, a mio modo di vedere,
scolastica, se questa designazione si estende a quante dot-
trine nel basso Medio Evo, e segnatamente nel xiiì secolo,
ebbero voga nelle scuole latine.
Nello stesso prologo T dell’opuscolo, Bonaventura ci
dice che la via alla pace dell’estasi cristiana, è una sola,
né può consistere se non nell’amore ardentissimo del
Crocefisso, che Paolo rapito al terzo cielo trasmutò in
Cristo, onde egli disse: Christo confixus sum cruci; vivo
attieni, iam non ego ; vivìt vero in me Christus. Quel mede-
simo che accadde a Francesco, la cui anima fu talmente
assorbita in Cristo, da investire il corpo: quod mens in
carne patuit, nelle sante stimmate della passione divina.
Fine dunque dell’Itinerario è l’assorbimento dell’uomo
in Dio, quel trasumanare, per cui Paolo è morto e vive
il Cristo: quasi l’elevarsi, come oggi si direbbe, della co-
scienza empirica allo spirito assoluto. Il quale spirito asso-
luto non è più via, ma già mèta; non più pensiero che
cerca la verità, e non 1’ ha trovata, ma la stessa verità;
e non la verità, a cui il pensiero (dico il pensiero nostro)
tendeva, e che non era perciò questo pensiero: ma la
verità, a cui s’è ridotto, in cui s’è assorbito, come dice
Bonaventura, il pensiero. Non è insomma verità come
termine più o meno lontano, ma essenzialmente distinto,
del pensiero, ma è propriamente concetto, o come altro
voglia dirsi quel possesso della verità, in cui lo spirito
s’acqueta, e dimentica se stesso.
1 Ititi., c. in.
!, I PROBLEMI DELLA SCOLASTICA
L’ideale di Bonaventura è questo: non Paolo, sto per
dire, non Francesco né Cristo: ma Paolo o Francesco che
si fa Cristo: non l’uomo né Dio, ma l’uomo che si fa Dio:
il fondamentale problema cristiano, e l’ideale che scava
un abisso tra lo spirito greco o antico in generale e il
moderno. Francesco che rivive la passione dell’uomo di-
vino, e partecipa a questa celebrazione della sua divinità,
vi partecipa con un' intimità profonda, con una pienezza
di vigore spirituale, che trabocca dalla contemplazione
nella vita stessa del suo essere naturale; e si fa tutto,
anima e corpo, Cristo, tutta adeguando la propria umanità
alla divinità che risplende alla sua amorosa fantasia : tutto
sublimandosi nell’unità perfetta dell’esser suo, quale Fran-
cesco la sentì nel fondo dell’anima allorché fraternizzava
non pur cogli uomini, ma col sole, la luna e le stelle, e
l’aria, l’acqua, il fuoco e « sora nostra matre terra ». Il
senso della vita umana per Bonaventura è questo amore
ardentissimo di Dio, che fa Dio l’uomo; e però il valore
dello spirito sta nel suo indiarsi; come il valore, d'altra
parte, di Dio nel suo umanarsi, nella sua passione: che
sono due facce dello stesso concetto.
3. Per questo concetto, che è il motivo dell'Itinerario,
Bonaventura è nella verità instaurata dal Cristianesimo,
che ho detto separata con un abisso daH'ellenismo, cui
questa pace suprema dello spirito, di cui parla il france-
scano, fu ignota: questa pace, che è ascensione sopra se
stesso, o salire sulla natura e farsi spirito. L’idealismo,
o, se vuoisi, spiritualismo platonico, è infatti la negazione
dello spirito, al pari dello spiritualismo orfico dei misteri;
e la posizione logica di quel primo sospetto del valore
dello spirito è nella logica aristotelica; accettata la quale,
è impossibile più concepire la storia, cioè appunto la realtà
e il valore dello spirito.
II. LA VERITÀ
41
In Grecia l’uomo cerca se stesso, e non si può trovare,
perché il mondo in cui dovrebbe trovarsi, se l’è fatto lui,
ed è un mondo, in cui non c’è davvero posto per l’uomo :
il quale, pur essendo il creatore del suo mondo, gli può
restar quasi di rimpetto come spettatore. E l’uomo in
Grecia guardava solo innanzi a sé, da semplice spettatore,
e non rivolgeva mai lo sguardo su se stesso. Così, dopo
avere invano cercato la verità — cioè, se stesso — nella
natura sensibile, accortosi che ciò che v’ha di più vero,
costantemente vero per tutti, non è natura sensibile, ma
idea, non il particolare, ma l’universale, questo univer-
sale non seppe concepire altrimenti di quel che aveva
concepito il particolare; e però come una nuova natura,
l’altro dallo spirito che conosce, il conosciuto, l’oggetto.
Il quale, bensì, sottratto alla caducità del mondo sensi-
bile, nel suo divino sapore diè un primo gusto misterioso
di non so che spirituale, e l’idea si dispiccò d’un tratto
dalle cose, e si ritrasse in sé, e fu la verità. Ma non lo
spirito, non l’uomo, che rimase partecipe della natura di
quanto è caduco.
L’uomo di Platone non può scoprire in sé la radice del
mondo ideale; e se ha innate le idee, in quanto non può
certo cavarle dalle notizie delle cose particolari, non le
ha, come dirà Cartesio, perché esse costituiscano la sua
natura di essere intelligente ; sì perché, prima che in questo,
egli ha vissuto in un altro mondo: nel quale la relazione
sua con le idee, che sono propriamente entità ideali, è
identica alia relazione in cui egli si trova in questo con
le cose sensibili: relazione di opposizione e dualismo.
Sicché il problema della conoscenza, della conquista che
l’uomo fa della verità, e cioè del suo trasumanarsi e
indiarsi, non è risoluto, ma spostato, e rimandato dal
mondo visibile all’ invisibile, in tutto identico al primo,
salvo che nell’esigenza, affermata ma non giustificata né
giustificabile, del suo valore.
42
1. I PROBLEMI DELLA SCOLASTICA
Il mondo platonico non è il mondo, dunque, dello spi-
rito, bensì il mondo intelligibile, al quale lo spirito par-
tecipa in quanto è esso stesso idea. Che è la rappresenta-
zione filosofica della scissura, ond’era piagata l’anima
greca più religiosa, voglio dire l’anima degli orfici; dai
quali non è dubbio che Platone ricevette quel soffio di
mistica religiosità che anima la sua fervente aspirazione
al divino, motivo centrale del suo idealismo.
4. Né il mondo di Aristotele, malgrado gli sforzi com-
piuti da lui per risolvere la trascendente idea platonica
nella naturalità della realtà effettiva, è più spirituale ed
umano. Aristotele raggiunge con la genialità del suo in-
tuito miracoloso il concetto del pensiero, che è « pensiero
di se stesso »: ma questo pensiero così, perfettamente defi-
nito, non è per lui il nostro pensiero ; non è il pensiero
dell’uomo; il quale, secondo la dottrina aristotelica, è
sempre parte della natura ; e questa è generazione e cor-
ruzione continua. Codesto pensiero è partecipato da noi,
ma è in sé; e in sé è tutto il pensiero, scevro perciò d’ogni
movimento, poiché il movimento nasce dalla privazione
di una forma, grado di realtà da conquistare, e però fine.
Cotesto pensiero è motore immobile, cioè, in sostanza, lo
stesso mondo intelligibile di Platone, a cui la natura,
mossa e retta dalla causalità finale, aspira e aspirerà in
eterno, con travaglio che non avrà mai posa ed è pertanto
disperatamente vano.
A codesto pensiero s’adatta soltanto quella logica del
vecchio Organo, cui indarno sempre i moderni, da Bacone
in poi, hanno cercato una giustificazione nel reale processo
del nostro pensiero : laddove era, in sostanza, la logica del
pensiero divino: del pensiero che può analizzare e dedurre,
perché consta di principii pregni dello scibile in tutta la
sua infinita estensione, dall’essere che è fino alla rappre-
sentazione degli individui sparsi in tutta la serie dei tempi :
IT. LA VERITÀ
43
pensiero perciò che deduce ab aeterno, e insomma non
deduce, se per deduzione s’intende lo svolgimento e 1’ in-
cremento su se stesso: ma È. Un pensiero, dunque, che
non era pensiero, ma essere, come tale, sostanzialmente
identico all’essere della natura.
5. In tutta la filosofia greca indarno cercherete lo spirito,
sia che facciate consistere tutto l’atto suo nel pensare,
sia che distinguiate tra atto spirituale che è teoria e atto
spirituale che è vita o pratica, sia che unifichiate tutto il
suo operare nel suo vivere, amare 0 volere che si voglia
dire. Il Bene di Platone è idea con la sua ferrea oggetti-
vità. La virtù di Aristotele è opzEic, e vouc ; ma il soggetto
è opsEt;, e il vooc, che purifica l’appetito e ne fa la virtù,
non può, in fine, essere altro che quel pensiero che non
è nostro pensiero. Il valore dell’uomo, Dio, è fuori del-
l’uomo, proprio come per la coscienza ebraica: e la sere-
nità a cui assorge lo spirito ellenico, non è la pace che
succede alla conquista del fine, ma il vagheggiamento
ingenuo di questo, e l’estetica contemplazione del suo
valore meramente oggettivo.
La filosofia greca può dirsi a rigore intellettua-
listica, se per intelletto intendiamo una passiva
intuizione della verità concepita come esterna al soggetto,
una vana operosità (se operosità può dirsi) che non con-
corre per nulla al processo del mondo, dal quale l’intel-
letto si trae quasi in disparte, per godersene lo spettacolo.
6. Cotesta, come ognun vede, è la più sciagurata con-
dizione dell’uomo rispetto alla coscienza cristiana; per
cui la vita è milizia, fare la volontà divina in cielo e in
terra, amare, soffrire, morire anche per vivere davvero;
e però non starsene mai, ma edificare, fare se stesso in
Dio, mai senza peccato, mai senza la fede operosa, senza
44 K T PROBLEMI DELLA SCOLASTICA
la speranza ricreatrice, senza l’amore che redime dalla
natura. L’amore cristiano non è più filosofia, che è pure
amore, come ammonisce la parola stessa; non è la filo-
sofia degli antichi: non più la conoscenza dell’essere che è
in sé, fuori di noi e indipendente da noi; anzi la creazione
dell’essere (fiat voluntas tua), o la conoscenza di un essere,
che è in quanto si conosce. Non più lo spettacolo della
vita, ma la celebrazione di essa. E Dio scende in terra e
s'incarna in quanto l’uomo cessa perciò di essere un va-
gheggiatore platonico del vero mondo, che è Dio, e di-
venta l’artefice di questo mondo; è cioè esso stesso Dio.
Ecce etimi regnimi Dei intra vos est A Tutta la storia del-
l’uomo acquista un valore insospettato dagli antichi : il
valore di una vera e propria teogonia.
Di questa umana teogonia, che è 1’ intuizione sostan-
ziale del cristianesimo, prima che si raggiunga la chiara
coscienza sistematica non c’è bisogno di dire che passe-
ranno secoli e passeranno millennii. Né sarà d’uopo di-
chiarare non esser convinzione mia che si sia già perfet-
tamente conquistata. Tutta l’orientazione della filosofia
moderna segue questo indirizzo; noi, specialmente dopo
Cartesio, dopo Vico, dopo Kant, siamo immersi, se così
posso esprimermi, in questa coscienza del processo spiri-
tuale come teogonia; ma questo mare in cui navighiamo
è oceano senza lidi, poiché nessun concetto filosofico è
concepibile una volta per sempre. La filosofia scolastica
è ancora oscura visione di questo valore dello spirito; ma
è oppressa tutta sotto la tradizione della filosofia greca,
anche nei mistici come Bonaventura: coi quali non vanno
confusi i mistici tedeschi, autori di una violenta riscossa
antiscolastica dello spirito cristiano. E la preoccupazione,
sotto la quale, in Bonaventura, resta schiacciata l’anima
i Luca, XVII, 21.
II. LA VERITÀ
1Ó
francescana, non permette a quella oscura visione di
ascendere a concetto adeguato dello spirito L
7. Bonaventura, dunque, si è proposto il problema della
conversione di Francesco in Cristo, o dello spirito empirico
nello spirito assoluto. In questo mondo, egli dice, lo stesso
universo è scala per salire a Dio. Ma nei l’universo si
1 [li concetto qui adombrato delia scolastica nei suoi rapporti con
la filosofia greca e tenuto presente in tutte queste letture non mi pare
sia stato bene interpretato dal Nardi nella bella recensione di queste
letture da lui scritta nel Bollettino Bibliografico della Voce di Firenze
(1913, a. V, n. a6) : dove mi obbietta che « non è punto vero che il Medio
Evo ereditasse tali e quali i s a oi problemi dal mondo greco; ma li
generò dall’intimo della propria vita spirituale... Si può dire che nessun
problema della filosofia greca in risollevato nel Medio Evo nelle identiche
condizioni e colle stesse preoccupazioni dell’animo greco ». Verità che
10 non pensai mai a contestare e che credo risultino anche da queste
letture, necessariamente molto, forse troppo sintetiche. E se il Nardi
avesse più atteso a questo carattere del mio lavoro, che m’imponeva di
considerare la filosofìa medievale da un punto di prospettiva molto
remoto ed atto ad abbracciare in un breve obbiettivo tutta la storia
della filosofia, si sarebbe pur reso conto della impossibilità in cui ero
di insistere sul tono particolare della filosofia medievale rispetto a
quella greca, e su talune minori divergenze di secondario significato
nello svolgimento generale del pensiero.
Ma quando egli vuol additarmi un esempio delle differenze che le
nuove esigenze dello spirito cristiano importavano nel ripensamento
degli stessi problemi della filosofia greca, non mi pare che abbia la
mano felice. « La presenza », egli dice, « della luce eterna e la eoope*
razione divina all’atto dell’intendere è una novità tutta cristiana che
mancava al platonismo. L'atto dell’intendere non è propriamente né del
solo lume creato né di quello increato, ma è dovuto alla cooperazionc
simultanea dell’uno e dell’altro. Questo mistico contatto colla luce
divina non è più il vecchio innatismo né la reminiscenza platonica,
ma l’espediente provvisorio per soddisfare un’esigenza nuova che si
svegliava a poco a poco nella coscienza cristiana... ». E io non voglio
negare che la cooperazione come e spediente rispondesse a un
bisogno cristiano (che, a proposito deU’Aquinatc, più in qua, ho messo
in luce anch’io) ; ma quando, a chiarimento della cooperazione stessa,
11 Nardi osserva che « il dio del filosofo medievale ha creato il mondo,
e lo pervade tutto operando in esso non dal di fuori ma ponendosi nella
intimità della sostanza creata », io osservo che questo è neoplatonismo
{anzi stoicismo) e non cristianesimo; e basta vedere che cosa diventi
nell'Ethica di Spinoza questa presenza di Dio nell’intelletto umano
per convincersi che codesto misticismo non è spiritualismo cristiano,
ma ben piuttosto naturalismo greco].
46 I. I PROBLEMI DELLA SCOLASTICA
distingue la realtà extra nos e la realtà intra nos ; la natura
e lo spirito, come ora si direbbe ; il vestigio di Dio e l’im-
magine di Dio, dice Bonaventura. A questi due aspetti
dell’universo corrispondono due funzioni principali del-
l’animo, l’animalità (o sensibilità) e lo spirito; e ciascuno
dei due aspetti si sdoppia in due gradi distinti, secondo
che Dio vi si considera come principio o come fine, per
speculimi o in speculo; o altrimenti, secondo che la con-
siderazione stessa si mescola all'altra o si mantiene nella
sua purezza. Ci sono poi i doni dello spirito santo, onde
l'uomo sale con la niente a considerare, al di là dell’uni-
verso, Dio stesso; e quindi una terza specie di conside-
razione, doppia anch'essa. E però tutto il processo si
dispiega per sei gradi paralleli ai sei giorni della creazione,
e corrispondenti alle sei facoltà assegnate da Bonaventura
all’anima umana: senso e immaginazione; ragione e intel-
letto; intelligenza e apice della mente.
Chi pertanto voglia farsi un’ idea della più alta fun-
zione conferita da frate Bonaventura allo spirito, di qua
dal miracolo della riforma che ne fanno i doni gratuiti,
poiché con questi si esce dal terreno della filosofia; chi
attraverso al concetto di quella funzione voglia scorgere
qual grado di coscienza lo spirito cristiano, nell 'Itinerario,
conquisti del proprio valore teogonico, deve seguire l’ana-
lisi della speculazione di Dio attraverso l’immagine
di lui nelle facoltà naturali, ragione e intelletto1.
8. Rientriamo dunque con Bonaventura dentro di noi,
dove risplende 1’immagine di Dio. La mente rientra
in se stessa, perché ama di amore fervidissimo se medesima ;
ma non potrebbe amarsi, se non si conoscesse; né si
conoscerebbe se non si ricordasse di sé, poiché nulla in-
tendiamo che non sia presente alla nostra memoria. Dun-
1 Itili., c. III.
II. LA VERITÀ
4/
que, una triplice potenza spirituale, il cui atto è memo-
ria, intellezione, eiezione.
La memoria non è la conservazione e riproduzione del
passato; ma si estende al passato, al presente e al futuro,
alle cose corporee e alle semplici, alle temporali e alle
eterne. Abbraccia il ricordo e insieme la percezione del
presente (susceptio) e la previsione che dal passato induce
il futuro ; tutta insomma la esperienza, onde si costituisce
il patrimonio conoscitivo dello spirito. Ma con la espe-
rienza comprende quelle condizioni che ne sono il presup-
posto; e che vanno distinte in due classi : una dei sem-
plici, che sono principii delle quantità continue e delle
discrete: come il punto, l’istante e l’unità, senza i quali
è impossibile ritenere (memìnisse) e pensare tutto ciò che ne
è principiato ; l’altra dei principii delle scienze e di-
gnità (come allora latinamente si dicevano gli assiomi
e come tornerà a dirli Meo) che sono appunto qualche
cosa di eterno: dignità e principii innati nel senso appunto
di Leibniz; quia nunquam palesi sic oblivisci eoruni, cluni
ratione utatur, quin ea audita approbet et eis assentiat,
non tanquam de novo percipiat, sed tanquam sibi innata et
familiaria recognoscat. Tale il principio di contraddizione;
tale l’assioma che il tutto è maggiore della parte.
Questa memoria, che all’ ingrosso dunque corrisponde
alla materia e alla forma dell’esperienza, quale 1’ intende
Kant, rende immagine della divinità; perché, considerata
come materia dell’esperienza, ci porge l’effigie dell’eterno,
« il cui presente indivisibile si estende a tutti i tempi » ;
considerata come forma, per quelle nozioni semplici, che
sono i principii delle quantità, ha qualche cosa della pro-
duttività propria di Dio, mostrando di potersi formare
non solo dall’esterno per le rappresentazioni sensibili, ma
anche attingendo a una sorgente superiore, a quelle forme
semplici, che essa ha in sé e che non possono entrare dalle
porte dei sensi o dalle percezioni sensibili; e per i principii
I. I PROBLEMI DELLA SCOLASTICA
0
e assiomi eterni dà prova infine dì avere a sé presente
una luce incommutabile, in cui si affisa nelle verità che
mai non cangiano. In qualche modo pertanto lo spìrito,
come memoria, è eterno, è creativo, è a priori, ed è asso-
luto. Ma soltanto in qualche modo; perché cotesti attri-
buti appartengono in proprio a Dio ; e, procedendo nell’/-
tinerario, si fa chiaro in che senso possano riferirsi al-
l’uomo.
9. Dopo la memoria, c’è. l’operazione intellettiva; dopo
l’esperienza, la logica: termini o concetti, proposi-
zioni e illazioni. L’intelletto definisce i termini. Ma
definire si può a patto di ridurre il concetto inferiore sotto il
superiore, e questo sotto un nuovo concetto superiore, finché
si arrivi a quel concetto supremo e generalissimo, igno-
rando il quale non sarà possibile intendere per definizione
gl’ inferiori. Nessuna cosa particolare infatti si può sapere
pienamente, se non si sa definire l’essere per sé. Né questo
si può conoscere, se non ne sono conosciute le condizioni ;
l’uno, il vero, il bene. L’essere poi, potendosi pensare
scemato o completo, imperfetto o perfetto, in potenza o
in atto, condizionato o incondizionato, transeunte o im-
manente, per altro o per sé, misto a non-essere o puro,
relativo o assoluto, posterius o prius, mutabile o immuta-
bile, semplice o composto; poiché la conoscenza delle pri-
vazioni e dei difetti presuppone necessariamente quella
delle posizioni, il nostro intelletto non riesce ad intendere
alcuno degli esseri creati, se non è aiutato dall’ intendi-
mento di un essere purissimo, attualissimo, completissimo,
assoluto. Il quale è l’essere incondizionato ed eterno, in
cui sono le ragioni di tutti gli enti in quanto enti.
In che modo infatti potrebbe l'intelletto sapere che
un dato essere è un essere difettivo e incompleto, se non
avesse nessuna cognizione dell’essere esente da ogni di-
fetto ? E così dicasi di tutte le condizioni accennate.
II. I.A VERITÀ
49
Quando, insomma, dalla esperienza si passa alla prima
forma di elaborazione che ne fa l'attività logica dell' in-
telletto e si ripensa il pensiero, e si organizza secondo i
rapporti che i concetti hanno tra loro, come avevano
insegnato Aristotele e Porfirio, l'assoluto, l’eterno, l'atto
puro, il perfetto, l’immanente, tutti gli attributi onde si
concepisce il divino, si scorgono come il presupposto im-
plicito d’ogni pensiero; e niente si pensa, senza pensare
Dio. Pensato Dio, tutto s'illumina; non pensando Dio,
tutto s’offusca e si perde nella notte più fitta. Prima il
divino riluceva nello stesso soggetto del pensiero, in
quanto memoria: ora irrompe e s’accampa nell’oggetto del
pensiero, in quanto intelletto.
Ma l'intelletto procede dai termini alle proposizioni :
e allora insegnava Aristotele sorge la questione della verità.
Ricordate il principio del De interpretatione ? « Nella sintesi
e nella dieresi c’è il falso e il vero. E così i nomi e i verbi
per se stessi sono come il concetto senza sintesi e senza
dieresi, per es., ‘ uomo ’ e 4 bianco ', se non s’aggiunge
altro ; ché ancora non è né falso né vero ». Pensare vero
o falso non si può dunque senza giudicare, mettere in
rapporto, positivo o negativo, un predicato con un sog-
getto. Kant dirà senz’altro: pensare è giudicare. Bonaven-
tura dice : l’intelletto giudica, quando ha la certezza della
verità del giudizio; certezza che è sapere: sapere cioè che
l’intelletto non può ingannarsi nel giudizio suo. Scit enim,
quod veritas illa non potest aliter se habere ; scit igitnr,
illam veritatem esse incommutabilem. Parole d’oro, che tanti
non sono neppur oggi in grado di ripetere. Ogni giudizio
è un doppio giudizio; ogni atto di coscienza è insieme
atto di autocoscienza; e perciò il pensiero non è mai
fatto, ma valore.
Bonaventura non dice nettamente tutto questo; ma
nel suo linguaggio dice altrettanto. Dice che l’atto del
giudicare si addoppia ed afforza, anzi, a dir proprio, si
4. —- Gentile, I pTobUmi della scolastica.
5°
I. I PROBLEMI DELLA SCOLASTICA
integra e realizza nel giudizio della propria verità: della
propria assoluta verità, -— giacché la verità relativa è
una spiritosa invenzione di filosofi che s’argomentavano
in tempi a noi vicini di ricavare dal miserabile provento
di una esperienza fantasticata come l’inverosimile com-
mercio del mondo esterno con un soggetto inesistente,
una verità relativa, e punto incommutabile come questa
di frate Bonaventura: nulla sospettando della condizione
ridicola a cui venivano con questa loro invenzione spiri-
tosa a condannare la verità stessa della loro tesi della
relatività di ogni verità. Pel nostro scolastico, invece, la
verità, anche delle inezie, in quanto giudicate tali o non
tali, era cosa ben salda: era sempre la verità assoluta,
in cui affondava le sue radici ogni giudizio dell' intelletto.
Ed ecco una categoria anche più fondamentale attri-
buita allo spirito. Ma importa essa, con la sua assolutezza,
l’assolutezza dello spirito ? Sed, cimi ipsa mens nostra sit
commutabilis, Ulani sic incommutàbiliter relucentem non
potest videre nisi per aliquam lucem omnino incommutabi-
liter radiantem, quam impossibile est esse creaturam muta-
bilem. Ahimè ! La divina energia della verità con una
mano è messa sugli altari, con l’altra abbattuta ed in-
franta. Questa energia o è nostra, o non vale a produrre
la luce del vero che se n’attende e che ci è indispensabile;
perché, se non è nostra, se non è noi, ci toccherà di acco-
glierne in noi il raggio dall’esterno; e come accoglierlo,
senza giudicarlo con un giudizio, che presupponga già
la luce in noi ? Accogliere la verità senza giudicarla sa-
rebbe subirla, e non essere certi, di quella certezza che
Bonaventura fa consistere appunto nella luce della verità.
Sicché quest’assoluto, in cui ora risorge il divino, già
intrawisto nello spirito in quanto memoria, ora s’in-
tende quale valore abbia per lo scolastico: è un semplice
riflesso — metaforico, s’intende, finché non riesca a qual-
cuno di capire come la luce della verità possa entrare e
II. J.A VERITÀ
51
uscire dalla monade che non ha finestre : un semplice
riflesso, affidato a una parola, del divino estrinseco alla
mente, li la mente nostra resta commutabile per tutte
guise, e per sé quindi incapace di giudicare: mente che
non è intelletto, né niente. E la luce è quella di Giovanni,
quae illuminai omnetn hominem venientem in hunc mun-
dum; il verbo di Giovanni, che era in principio presso
Dio.
La stessa idea Bonaventura ha di un altro aspetto dello
spirito, con uguale acume affisato da lui nella terza opera-
zione intellettuale: l’illazione. Non c/è illazione senza la
coscienza della sua necessità. Anche i termini contingenti,
annodati nel nesso dell’ illazione , rivestono questa
forma della necessità : Si homo currit, homo movetur. E non
solo i contingenti, bensì anche i non esistenti. Insomma, la
necessità non è nella materia del processo logico, ma in
questo processo. E se il processo fosse della mente che è
intelletto, questa necessità, che ha del divino, compete-
rebbe qui appmito allo spirito umano. E ciò importerebbe
la sottrazione dello spirito alla legge della causalità natu-
rale, dove la necessità dell’effetto dipende dall’ ipotesi
della causa, che, contingente essa, fa contingente lo stesso
effetto: dove insomma non sono altro che fatti, il cui
contrario non implica contraddizione. Ciò quindi verrebbe
a significare una prima affermazione dell’apriorità o auto-
nomia assoluta dello spirito. Ma san Bonaventura è lon-
tanissimo da queste conclusioni. Egli dice: Huiusmodi
igituv illationis necessitai non venif ab existentia rei in
materia, quia est contingens, nec ab existentia rei in anima,
quia tunc esset fictio, si non esset in re: venit igitur ab
exemplarùate in arte aeterna, secundum quam res hahenf
aptìtudinem ci habitudinem ad invicem secundum illius
aeternae artis repraesentationem.
Della necessità logica, che non è considerata come ap-
punto la forma o la natura dello spirito, sibbene come
5 2
I. 1 PROBLEMI DELLA SCOLASTICA
un’ idea analoga a ogni altra idea, dev’esserci per Bona-
ventura un fondamento nella cosa, nella realtà. Problema
assurdo, secondo noi, come quello della verità derivante
allo spirito da un’estrinseca origine: perché, come in
questo caso una tal verità non è verità per lo spirito,
per cui pure dovrebb’essere tale, così nell’altro caso la
necessità che fosse necessità della cosa, per l’intelletto
non potrebbe essere se non mera contingenza. Infatti
e si ponga mente qui agli effetti della filosofia platonico-
aristotelica su quest'anima cristiana: — se per Bonaven-
tura non si potesse distinguere una doppia realtà, la base
della necessità logica non potrebbe essere fornita dalle
cose. L’existentia rei in materia, esistenza effettiva o at-
tuale, è contingente, e come tale non può generare il
necessario. Questa è la vera realtà per Aristotele, la so-
stanza concreta, l’individuo, che non è pura forma della
cosa, ma forma calata nella materia, sinolo, unità inse-
parabile di forma e di materia.
Ma allo stesso Aristotele questa dottrina non aveva
impedito di risalire, di forma in forma, fino a una forma
suprema, Dio, pura forma separata e trascendente, né
più né meno di tutte le idee platoniche. E trascendente
tutto era il vouc; noir^ixoc, a cui si adegua la verità
assoluta della scienza, qual’è concepita nell’ Organo ari-
stotelico. Bonaventura, platonizzante come Agostino e i
Vittorini, da cui dipende, e in questo punto, per vero,
platonizzante come tutti i filosofi scolastici e in confor-
mità, a parer mio, del più genuino spirito aristotelico,
distingue, come s’é visto, tra res in materia e un’altra
res, senza la quale l’idea della necessità logica diverrebbe
agli occhi suoi semplice fictio della nostra mente; un’altra
cosa, che è pura forma, l’idea che allora si diceva ante
multiplicitatem o ante rem, esistente nella mente di Dio,
in arte aeterna, come esemplare delle cose materiali, a
quella guisa che il disegno materialmente realizzato da
II. LA VERITÀ
53
ogni artefice preesiste nella fantasia che lo vagheggia
prima che sia tradotto in opera d'arte effettiva e reale.
E nella mente divina la necessità logica consiste nei rap-
porti reciproci delle idee secondo che se le rappresenta la
stessa mente.
È chiaro che, posta di fronte all’ intelletto umano questa
res dell’arte eterna nella stessa posizione della res exìstens
in materia, alla prima non può competere niente più della
pura contingenza della seconda; poiché quelle aptitudines
et habitudines ad invicem non potranno essere altro che
rapporti di fatto intercedenti tra i termini dell’arte eterna.
Il pensiero, visto fuori di se stesso, non è più riconoscibile ;
ma, visto a quel modo, è appunto il pensiero teorizzato
dalla logica aristotelica, in cui i concetti per se stessi,
indipendentemente dal soggetto che li conosce, hanno
questi scambievoli rapporti, di cui si contenta qui Bona-
ventura.
Sicché quest’analisi della necessità razionale non dà mi-
glior frutto delle altre. II mistico scolastico, impigliato
nella rete della filosofia greca, non raggiunge il segreto
della propria intimità; e conchiude, citando sant’Agostino,
che quel lume di chi ragiona secondo verità accenditur ab
illa ventate et ad ipsam pervenire nititur, per cavarne che
dunque l’intelletto nostro è congiunto alla stessa verità
eterna. Il luogo meritamente famoso di Agostino 1, a cui
egli si riferisce, contiene quelle parole bellissime: Noli
foras ire, in u ipsttm redi, in interiore homine habitat
veritas; dove è espresso in tono vittorioso il senso della
nuova conquista cristiana della intimità di Dio, ignota
agli antichi. Ma poi continua platoneggiando e accascian-
dosi nello spirito che prevarrà in tutta l’età di mezzo:
et si tuam naturarti mutabilem inveneris, transcende et te
ipsum. Sed memento, cum te transcendis, ratiocinantem
1 De vera re Hi;., XX XIX, 72.
54
I. I PROBLEMI DELLA SCOLASTICA
ammani te transcendere. Ulne ergo tende, unde ipsum lumen
rationis accenditur.
io. Una ragione, adunque, per l'uomo, perfettamente
al buio; e costretta a mendicare la luce, che pur le è
indispensabile. E cosi una volontà senza capacità di bene.
La volontà è consiglio, giudizio, desiderio. Il
consiglio sceglie il meglio; ma il meglio è quel che più s’ap-
prossima all'ottimo, e presuppone quindi la nozione del
sommo bene. — Il giudizio giudica, decreta secondo una
legge ; e dee quindi possedere questa legge, ed essere certo del
suo valore; ossia non solo della sua rettitudine, ma anche
della sua autorità (quod ipsam ludi care non debet), o ne-
cessità. La legge che l’uomo potesse giudicare, non sa-
rebbe più legge. La mente, intanto, giudica sempre e
riforma se stessa; segno che la legge, per cui si giudica
ma che non si giudica, è superiore alla mente nostra e
qui soltanto impressa. Il giudizio, insomma, suppone una
legge divina. — Il desiderio, infine, è di quel che ci attira
di più. E più ci attira quel che più si ama ; e più si ama
Tesser beato; e beato si è pel sommo bene. Sì che desi-
derare non si può se non il sommo bene, o quel che ha
attinenza con esso, o ne ha le sembianze. Tanta è la
potenza del sommo bene, che niente è possibile sia amato
da una creatura se non pel desiderio di esso; e costei
allora s’inganna ed erra, quando accetta per sommo bene
quel che ne è Teffige e il simulacro.
La volontà, dunque, in tutti i suoi momenti è un’atti-
vità affatto vuota: la sua legge e il suo fine sono fuori
di lei, come il Bene di Platone, e come la retta ragione
(ópOòt; Xóyoi;) di Aristotele, che non può essere se non
una determinazione dell’ intelletto attivo.
ri. Con tutto il suo cristianesimo il mistico non confe-
risce all’uomo della sua filosofia forza di sorta. Egli s'è
II. LA VERITÀ
55
sforzato di mostrare che Dio è così prossimo allo spirito
umano; ma, pur troppo, per quanto vicino, Dio è ancor
fuori delio spirito. Mirimi autem viditur, dice lo stesso
san Bonaventura, cum ostensum sit quod Deus sit ita
propinquus mentibus nostris, quod tam pane,orimi est in se
■ipsis primum principium speculari. Povero Bonaventura !
Se la tua dottrina fosse vera, meraviglia sarebbe, non
che pochissimi giungano a vedere in se stessi il primo
principio, ma che tutti pur veggano in sé qualche cosa;
infatti, checché si vegga, gli occhi dello spirito, la luce
dello spirito, la potenza creatrice, o se si vuole, autonoma
e assoluta dello spirito ci dev'essere; e con la tua dottrina
non c'è. La ragione, per cui, secondo Bonaventura, non
c’è da meravigliarsi, è la solita, frequentissima nei mi-
stici, a tutti nota e per tutti validissima, in verità, fino
a un certo segno. Egli è, a sentir lui, che mens fiumana,
sollicitudinibus di strada, non intrat ad se per memori ani]
phantasmatibus obnubilata, non redi! ad se per intelUgen-
tiam ; concupiscentiis illecta, ad se ipsam nequaquam rever-
titur per desiderium suavitatis et laetitiae spiritualis 1.
Ragione validissima fino a un certo segno: perché, anche
distratta dalle sollecitudini, e offuscata dalle rappresenta-
zioni sensibili, e allettata dalle concupiscenze, la mente
non cesserà perciò di essere mente ; e mente non potrà
essere senza verità, senza necessità, senza legge, senza
bene, priva dei valori per cui è mente.
Rilevare per altro il difetto di questa concezione, che
non vede nell’uomo volgare, dominato, come si dice, dai
sensi e dalla pressura della vita materiale, quella divinità
che gli spetta, sarebbe qui fuor di luogo; ma un tal uomo
è pur lo stesso uomo che, vestito il rozzo saio e ingentili-
tosi nell’amore e sublimatosi nel sacrifizio, sale l’Alvernia
e si fa simile a Cristo; o, più prosaicamente, indossati,
1 Wiì., IV, i.
1. I PROBLEMI DELLA SCOLASTICA
5Ь
come Machiavelli, panni reali e curiali, entra nelle anti-
che corti degli spiriti magni, e, trasferitosi in loro, non
sente più alcuna noia, dimentica ogni affanno, non teme
la povertà, non lo sbigottisce la morte, tutto raccolto e
concentrato nella creazione eterna dello spirito.
La filosofia dì Bonaventura non trova la via per giun-
gere a nessuna forma spirituale veramente autonoma e
attiva. Il problema in lui era cristiano; la soluzione,
identica alla platonica o greca in generale. Il nuovo uomo
doveva farsi Dio; e, al fatto, da sé non si fa nulla, perché
non è nulla.
ir
i. Le medesime cose che il maestro nell ’Itinerarium
mentis in Deum, ripeterà quasi con le stesse parole il
più celebre degli scolari di Bonaventura, Matteo Benti-
venga d’Acquasparta (ricordato da Dante nel poema I),
che fu cardinale e nel 1287 generale, anche lui, dell’or-
dine francescano, nella prima delle sue Quaestiones dispu-
tatele 1 2. Ma il Bentivenga mette in guardia contro il peri-
colo di una interpretazione ontologistica di questa dot-
trina: e insiste, più che il maestro non avesse fatto, sulla
differenza tra gii attributi di Dio e i meri riflessi che lo
spirito ne può scorgere in sé; e scava ancor più l’abisso
tra la mente e la verità, tra l’uomo e Dio, accostandosi,
per tal modo, alla direzione idealistica propria di Tommaso
d’Aquino: pel quale l’essere, come recentemente pel Ro-
smini, non risplende alla mente senza contrarre certa sog-
1 Par., XII, 124.
2 In В о N л v ENTURAK et all. De hum. cognitionis ratione, Üuaracchi
1883, pp. 98 sgg. Una scelta delle sue Quaestiones disputatae, cominciarono
a pubblicare i padri del collegio di Quaracchi nel 1903. Vedi M. Grab-
mann, Die philosophische und theologische Erkenntnislehre des Kardinalis
Matthaeus ab Acquasparta, Wien, 1906.
IT. LA VERITÀ
57
gettiva attinenza verso di questa, e senza perdere perciò
quella purezza della sua verità obbiettiva, per cui tutta-
via ad esso fa ricorso lo spirito bisognoso della luce del
vero.
Ma per Bonaventura e per Tommaso, salvo il divario
delle tendenze, la situazione finale dello spirito di fronte
alla verità è la medesima: intellettualistica nel senso sopra
accennato, della opposizione tra il soggetto e l’oggetto ;
e quindi negatrice della soggettività dell'oggetto, e scet-
tica senza saperlo: e inferiore al motivo fondamentale
del cristianesimo.
2. Tommaso d’Aquino (1225-1274), l’altro grande scola-
stico italiano del Duecento, il luminare dei domenicani, e
certamente il maggiore intelletto speculativo di tutto il
sec. xiii, non vi parla di amore come Bonaventura, e passa
ordinariamente per un intellettualista che è agli antipodi
del misticismo francescano di quello. Ma qualcuno de’ più
valenti tomisti dei nostri tempi ha avuto ragione di chie-
dere che sia presa con molta discrezione e con limitazioni
importanti questa definizione della filosofia dell’Aqui-
nate *: e a me piace osservare che nella teoria centrale
della verità o del valore dello spirito, Bonaventura nella
forma mistica getta, come s’è veduto, un contenuto intel-
lettualista, a cui quella forma rimane estrinseca; laddove
dentro alla costruzione intellettualistica di Tommaso s’an-
nida un nucleo mistico di altissimo valore, che, compresso
e impedito dalla filosofia generale del sistema, non può
svolgersi nelle conseguenze di cui è capace.
Per Tommaso, a Dio non si giunge con l’estasi deìl’a-
more che trascende la ragione, sibbene col ragionamento.
Ma, se domandate a lui: quid est veritas ? egli non vi
1 Vedi principalmente P. Rousselot, L’intellectualisme de S. Thomas,
Paris, Alean, igoS.
I. I PROBLEMI DELLA SCOLASTICA
risponde con 1’ immagine giovannea della luce illuminante
ogni uomo che viene in questo mondo: quella luce, che
dall’uomo interiore di Agostino ci riporta al pensiero
estramondano di Aristotele. Vi offre una definizione, che
è stata tante volte fraintesa: Veritas intellectus est adae-
quatio intellectus et rei, secundum qnod intellectus dicit esse
qnod est, veI non esse quod non est e
Dunque, s’è detto, per Tommaso la misura della cono-
scenza è nella cosa in sé. No, questo ingenuo realismo pos-
siamo trovarlo in qualche empirista recente di quelli che
dommaticamente facevano della sensazione un simbolo o
un segno della cosa esterna. Ma gli scolastici, e sopra tutti
Tommaso, avevano troppo bene studiato il loro Aristotele
per ignorare l’intelligibilità delle qualità, che sono ap-
punto forme, e cioè nient altro che intelligibili. La cosa,
di cui parla Tommaso, è la cosa conosciuta: e il ragguaglio
o conformità, com'egli pur definisce la verità, non è rela-
zione dell' intelletto alla cosa, sì della cosa all' intelletto :
« Posta tra questi due intelletti », egli dice nella questione
De ventate1 2 3, ossia tra l’intelletto creatore e il nostro
intelletto, al primo dei quali segue, al secondo precede,
«la cosa naturale è detta vera secondo la sua adeguazione
all'uno e all’altro di essi ». Vera di verità trascendentale
e di verità per noi: ma la verità per noi è fondata sulla
verità trascendentale, perché il nostro intelletto è un ri-
flesso dell’ intelletto creatore : e quindi la relazione delle
cose al nostro intelletto è affatto secondaria e subordinata
alla relazione essenziale di esse all’ intelletto divino. La
cui esemplarità, per Tommaso come per Bonaventura, è
la norma essenziale delle cose, che dì là traggono la loro
origine. Scientia Dei est causa rerum >.
1 C. geni., i, jy; cfr. Quaesi., I (De verìt.), a. 2; 5. theoi., I, q. XVI,
a. i, 2, e q. XXI, a. 2.
- Quaest., I, (De verit.), a. 2; cfr. a. 4.
3 5. theoi., I, q. XIV, a. 8.
II. LA VF.RITÀ
59
Carattere costitutivo della verità è dunque la confor-
mità dell’essere alle idee ante rem, quali sono nell' intel-
letto creatore ; le quali, per Tommaso, aristotelicamente,
sono le stesse idee post rem, quali si ritrovano nel pensiero
umano. Verità è piuttosto la razionalità del reale, che la
realtà del razionale. Razionalità, la quale, ancorché ori-
ginariamente e sostanzialmente oggettiva e superiore alla
mente umana, non rìsplende all'uomo se non nella sua
mente. E qui pertanto è allogato il criterio della verità,
e qui rimane da cercare la verità delle cose. Ciò che in
Tommaso è chiaro è: i) raffermazione della relazione del
vero all’intelletto ; 2) la tendenza risoluta e audace alla
concezione soggettiva o autonoma dell' intelletto, come
attività che, per quanto modellata sull’operare eterno del-
l’intelletto divino, non possa non esplicarsi dall’ interiore
radice dell’umanità dello spirito, senza smarrire tutto il
proprio valore.
3. Sulle orme di Aristotele, e come tornerà a fare Kant,
Tommaso d’Aquino pone un gran divario tra senso e
intelletto; e al pari di Kant, egli non sa concepire cono-
scenza che non prenda le mosse dal concorso delle due
attività. Il senso ha per oggetto il singolare, determinato
nel tempo e nello spazio ; l’intelletto, l’universale, l’es-
senza, l’idea. Ma come l’individuo non può essere altro
che l’individuazione di un’essenza, l’universale ha luogo
soltanto come forma degli individui: di guisa che la cono-
scenza sensibile non è conoscenza se col senso non cooperi
l’intelletto, e la conoscenza intellettuale non può raggiun-
gere l’universale se non attraverso le specie sensibili.
« Per parlare con proprietà », dice Tommaso, « non cono-
scono né il senso né l'intelletto; ma l'uomo, mediante
l'uno e l’altro ». Nil in intellectu quin prius fuerit in sensu.
La sensazione, in cui ancora non riluce l’universale, è
l’atto oscuro della psiche: affinché si abbia coscienza della
óo
I. 1 PROBLEMI DELLA SCOLASTICA
sensazione, l’individuo dev'esser veduto come universale:
Callia si vede quando si vede come uomo. Il senso deve
svegliare l’intelletto, che nel fantasma scorge il carattere
comune dell’essere naturale da cui proviene; e dissociando
e associando, per analisi e sintesi, sale dall'individuo al-
l’universale.
Nella natura sono incarnate quelle idee, che l’intelletto,
lavorando sulla specie, in cui la natura stessa gli si rap-
presenta attraverso i sensi, disincarna. Questo potere at-
tivo dell’ intelletto, o intelletto agente, presuppone le im-
magini, e un potere intellettuale ricettivo, o intelletto
possibile (quasi possibilità, potenzialità astratta dell’ in-
telletto), per cui queste immagini sono idealmente rice-
vute. In altri termini, data l’immagine, la funzione del-
l’intelletto è duplice: ricettiva dell’universale immanente
nell’ immagine e positiva dell’universale stesso: sicché
prima l’universale è, ma non è saputo; è un fatto, non
un giudizio; poi è coscienza dell’universale. L’intelletto,
osserva Tommaso l, è un occhio luminoso. Huius autem
exemplum omnino simile essel. si oculus, simili cum hoc
qnod est diaphamts et susceptivus colorimi, haberet tantum
de luce qnod posset colores facete visibiles adii ; sicut quae-
dam animali a dicuntur sui oculi luce suffìcienter sibi illu-
minare obiecta, propter qnod de nocte vident magìs, in die
vero minus. L’ intelletto non riceve soltanto, ma proietta
la luce degli universali sugli universali stessi: insomma,
li afferma. L’atto dell’ intelletto agente crea la cognizione
e la ricrea di continuo, tornando incessantemente dalla
potenza all’atto.
Le idee acquisite si conservano allo stato latente, nella
anima, che è quasi locus specierum. Ma la species im-
pressa, come tale, al pari della sensazione kantiana, è
cieca: mera possibilità, quasi germe dell’idea attuale o
1 C. ^evi., II, 7.
tr. LA VERITÀ
6l
species expressa, ver bum mentis o dictio cordis. Con questa
parola interiore, con questa attiva intuizione, s'inizia la
vita vera dello spirito, perché solo allora s’accende il lume
della coscienza. S’inizia e si compie: lì è tutto il lavoro
dello spirito che conosce.
Nella parola interiore Tommaso bensì distingue due
gradi, il secondo dei quali è la concretezza o piena rea-
lizzazione del primo: l’apprensione e il giudizio:
l’apprensione ci dà la cosa, il primo noto, il soggetto, ma
non ci dà il concetto della cosa, ciò che se ne conosce, il
predicato. Con Cuna si ha la definizione incom-
plessa, espressa nel nome, che l’enunciazione o giudizio
spiega, mettendo in luce le determinazioni della cosa. Il
primo grado si può concepire solo come T inizio o l’im-
plicazione del secondo, e questo come lo svolgimento del
primo. Tant’è vero che per Tommaso solo nel secondo
è il valore dell’atto spirituale, in quanto possibilità di
verità e di errore.
4. La verità, s’è detto, è conformità di intelletto e
cosa: identità nella forma. Tale identità per altro non è
relazione di fatto, bensì relazione ideale: una relazione,
la cui radice è nell’ intelletto. La conformità c’è tra l’im-
magine sensibile e l’oggetto che essa rappresenta (questo
era il presupposto della psicologia aristotelica, anzi di
tutta la psicologia greca) : ma questa conformità non è
saputa: perché il senso sente, e, — come eccellentemente
aveva insegnato lo Stagirita, e ha invece dimenticato
tanta parte della psicologia moderna, appunto perché
psicologia, — sente anche di sentire; ma è tutto chiuso
in sé come senso, e non distingue sé che sente la cosa e
questa cosa che ei sente ; non sa nulla di sé, né della cosa ;
giacché per sapere dovrebbe essere non più senso, ma
intelletto, facoltà di giudicare. Questa conformità c'è tra
la cosa e la species impressa in generale; ma, non essen-
I. I PROBLEMI DELLA SCOLASTICA
dovi ancora il verbum mentis, manca alla species impressa
la comparazione, quell’unità di due, che è la verità.
Tanto c lontana dal pensiero tomista 1' ingenua rappre-
sentazione del paragone tra la cosa in noi e la cosa fuor
di noi, non divenuta né anche sensazione: pura cosa in
sé ! Per Tommaso, né anche l’apprensione, come ho accen-
nato, ò salita all’orizzonte della verità (e non parlo del-
l’intelletto possibile, puro momento astratto o ideale
della realtà spirituale). Di fronte al semplice concetto, al-
l’incomplesso della definizione, in cui s’inizia l’atto
dell’ intelletto, questo, dice con una energica frase l’A-
quinate, non è se non una specie di senso delle essenze:
perché ha con l’oggetto un rapporto analogo a quello del
senso e dell’ immaginazione P Ossia anche qui la confor-
mità ci sarà; anzi c’è, e non può non esserci, dato il rap-
porto che la gnoseologia aristotelica e la tomistica vedono
tra pensiero divino, essenza delle cose, e intelletto umano.
Ma questa conformità ancora non è saputa.
Incomplexum, dice Tommaso, non contimi aUquam co)n-
parationem; e l’intelletto, che apprende l’incomplesso,
nondum pertingit ad ultìmam suam perfectionem, poiché
resta ancora in potenza rispetto a quella composizione
o divisione, in cui consisterà poi la comparatio incomplexi
ad remP C’è l’oggetto innanzi a noi; ma, non avendolo
ancora giudicato, noi non lo sappiamo come presente a
noi, esistente in noi e quindi nostro: qualche cosa, per-
tanto, che debba corrispondere all’oggetto reale. Il ter-
mine dell’ intelletto è ancora unico ; e, non essendosi
sdoppiato, non può esser materia di quel paragone, da
cui nasce la verità. Qui davvero il paragone, se si facesse,
cadrebbe tra il noto e l’ignoto; paragone assurdo. L’og-
getto reale, per Tommaso, è appunto questo noto, da
1 Cfr. Sertillanges, Si. Thomas, II1 2, 179.
2 C. geni., I, 59.
II. LA VERITÀ
63
cui si stacca, e a cui deve tornare coi giudizio: il quale
sarà vero quando svolgerà fedelmente il contenuto dello
incomplesso. « Quando 1’ intelletto comincia a giudicare
della cosa che ha già appresa, allora il giudizio suo è
qualcosa che gli appartiene in proprio e che non si trova
fuori di lui. E quando questo giudizio è uguale a quel
che è in realtà, il giudizio è vero 1 ». Dove si fa chiaro
il significato della adacquatio intellectus et rei, secondo che
l’intelletto dice essere quel che è, e non essere quel che
non è: quel che è e quel che non è, non nella realtà estra-
soggettiva, e né anche nella rappresentazione sensibile,
sibbene nell’ incomplesso della definizione. La quale pre-
suppone l’operazione apprensiva dell’ intelletto agente.
5. Per l’Aquinate, adunque, lungi dal cercare la verità
fuori di sé, l’uomo, in quanto intelletto, l’ha in sé; e
non 1’ ha (che è assai più) naturalmente, immediatamente,
come l’anima concepita dagl’ innatisti di tutti i tempi,
ricca di una ricchezza che non ha valore perché non
acquistata dall’anima stessa, o, sto per dire, di una spi-
ritualità che è natura ; ma 1’ ha, perché se l’è creata lui
con l’energia dell’ intelletto agente. La verità pertanto
sarà una pace simigliante a quella che Bonaventura
andava a cercare sull’Alvernia : ma raggiungibile con un
più profondo redire in se ipsum, che non fosse quello
del francescano: con una reditio completa, come dice
Tommaso; con un ritorno allo spirito, e non per trascen-
dere lo spirito stesso, come voleva l’altro, anzi per fer-
marsi, quasi sulla rocca della verità, nello stesso risultato
della propria attività creatrice. La divina pace, a cui lo
spirito tende (almeno in questo momento del tomismo),
consiste nella coerenza interna del pensiero, nello stesso
pensiero in quanto crea se stesso apprendendo e giudicando.
1 C. geni., I, 59.
64
I. I PROBLEMI DELLA SCOLASTICA
Questa pace, che solo Dio può dare, lo spirito, dunque,
1’ ha in se stessa, in quanto se la procura. Questa la pro-
fonda intuizione di Tommaso, schiettamente mistica e
veramente cristiana.
Noi dunque siamo d'accordo col Mercier e col Sertillan-
ges: la verità tomista non è rapporto di noi con le cose,
bensì di noi con noi. Ma questa verità, per Tommaso
stesso, è la verità ? —- Non occorre dichiarare che, posta
senza limitazioni, assolutamente, questa intimità sogget-
tiva del vero non solo scrollerebbe la situazione platonica
dello spirito verso la verità assoluta, che s’è notata in
Bonaventura, e che è propria, a parer nostro, non del
cristianesimo, come ordinariamente si pensa, anzi del
peripatetismo, e del pensiero greco in genere, ma tutta
la metafisica e la dommatica, in cui s’arresta, come tutti
sanno, il tomismo.
E infatti questa verità così magnificamente concepita
da Tommaso, non è la verità, né anche, ripeto, per lui:
e per due ragioni. In primo luogo la verità da lui fondata
nella equazione tra l’appreso e il giudicato, tra il soggetto
e il predicato, è oggettiva solo seaindmn id quod obiicilur
intellectui: ha la stessa oggettività della esperienza kan-
tiana, dietro alla quale sta la cosa in sé: quella cosa in
sé che con la sua ombra basta ad ottenebrare da un capo
all'altro tutto il sapere. Ha la stessa oggettività della
percezione intellettuale rosminiana, non atta a cogliere
più che l’idealità delle cose, in cui non è se non un sentore
del reale: principio di un idealismo che, Gioberti aveva
ragione, è pretto nullismo: poiché tra essere e nulla non
c’è mezzo. L’ idealismo è il concetto della realtà, quando
non pur l’idea è realtà, ma la realtà è idea; ma, quando
la realtà non è punto, o non è tutta idea, l’idealismo
non può essere il possesso, ma soltanto la rinunzia al
reale, il gran rifiuto fatto per viltà.
II. LA VERITÀ
65
L’oggettività tomistica, come proprietà di ciò che è
obiectum intellectui, è soggettività: e questo è il suo pregio;
ma lascia dietro a sé l’essere per sé, non obbiettivo:
lascia le cose, lascia l’intelletto creatore: una verità, un
mondo, con cui volentieri si baratterebbe, potendo, la
nostra verità. Oltre il Dio nostro, che è dentro di noi,
c’è un altro Dio ; e questo è il vero. E quindi noi con tutta
la serietà della nostra attività spirituale non partecipiamo
alle teogonia.
Tale il difetto a parte obice ti della verità tomistica.
Ce n’è un altro, strettamente subordinato al primo, ma
distinto in quanto risponde a una limitazione esplicita
del sistema tomistico. E questo a parte subiecti. Non solo
la verità nostra, come quella di Kant, non è la verità
assoluta; ma per Kant la verità nostra è nostra; e per
Tommaso, in fondo, non è propriamente nostra. Perché
a fondamento di tutti i giudizi dell’ intelletto, che tolgono
la loro materia dal senso e però sono una produzione di
esso intelletto, anch’egli pone, e deve porre con Aristotele,
quei principii, che sono anch’essi giudizi, ma di tale iden-
tità tra i termini da assomigliare all’unità indistinta
degl’ incomplessi còlti nell’apprensione. Per esempio, che
il tutto è maggiore della parte, e simili. Come giudizi, i
principii sono veri ; ma di una verità più certa della verità
di tutti gli altri giudizi, e presupposta dalla verità di
tutti gli altri. Questi principii richiesti a giudicare degli
incomplessi fornitici dall’esperienza, non possono essere
un prodotto degli stessi giudizi occasionati dall'esperienza.
Sono l’antecedente necessario della stessa attività dell’ in-
telletto agente. Donde dunque la loro verità, se la verità
di cui s’è parlato era conseguenza dell’esercizio dell’ in-
telletto ?
Anche Tommaso, come Bonaventura, è costretto qui a
trascendere semet ipsum. L’intelletto per la luce di queste
fondamentali verità, onde poi rilucono tutte le altre,
5. — Gentile. I problemi della, scolastica.
I. I PROBLEMI DELLA SCOLASTICA
,66
dev’essere illuminato, da Dio. E la resistenza fin qui op-
posta dall’Aquinate all’innatismo, qui si spezza: e tutta
l’autonomia spirituale è recisa alle radici: «Come dalla
verità dell’ intelletto divino discendono nella intelligenza
angelica le specie innate delle cose, per cui essa conosce
tutto, cosi dalla verità dell’ intelletto divino, come da
suo esemplare, procede nella intelligenza nostra la verità
dei primi principii, mediante i quali giudichiamo di tutto ».
Ancora : « Dio è causa della scienza umana nel modo più
eccellente; perché egli ha illustrato l’anima stessa della
luce intellettuale, e inoltre, vi ha impresso la notizia dei
primi principii, che sono come i seminarii del sapere » J.
— Sicché anche qui abbiamo una verità, da cui nasce
la verità per noi, e che non è verità per noi, ma verità
che ci è data e che noi accettiamo. Anche qui un « ver
primo che l’uom crede», senza il quale non può nulla
sapere.
E se il credere qui è la nostra passività e non la nostra
attività, e però non propriamente noi, che solo siamo
dove ci affermiamo, poiché lo spirito non è essere, ma
affermarsi dell’essere; se questo è vero anche per Tommaso,
che ci aveva dato un così spirituale concetto della verità
e un così degno concetto del valore dello spirito, anche lui,
trascinato dalla corrente della logica antica, termina col
negare lo spirito, e non vedere altro che ciò in cui lo
spirito si affisa. Anch’egli, come Bonaventura, come tutti
i pensatori contemporanei, segue la bandiera che due
secoli innanzi aveva levato il platonizzante Anseimo
d’Aosta col motto: Credo ut intélligam.
1 Quaest., I (De verit.) art. 4, e XI (De magistro) art. 3. Cfr. Sertil-
l anges, II3, 188.
Ili
DIO E IL MONDO
i. Che per intendere bisogna credere lo disse Anselmo
d’Aosta (1033-1109), arcivescovo di Canterbury 1 : ncque
enim quaero intelligerc ut credam, sed credo ut intelligam.
Nani et hoc credo, quia, nisi credidero, non intelligam. E l’a-
veva detto, come tutti sanno, Agostino: credimus ut
cognoscamus, non cognoscimus ut credamus. Ma, non dob-
biamo forse dirlo anche noi ? O c’è una filosofia che non
prenda le mosse da una fede ?
Questo problema, intorno al quale si sono addensati da
secoli tanti pregiudizi di vuoto razionalismo, impedendo
la libera ed esatta interpretazione, non pur dei sistemi
scolastici, ma di molte filosofie anche recentissime procla-
manti la necessità di un fondamento creduto alla specu-
lazione razionale, merita, qui subito a principio, qualche
chiarimento, affinché si possa vedere nel suo netto con-
torno il concetto medievale dei rapporti tra filosofia e
teologia. E per esprimere più apertamente il mio pensiero,
io mi permetto di allontanarmi ancora un momento dalla
scolastica; e osservare primieramente, che il problema
delle attinenze tra fede e scienza, tra credere e intendere,
tra teologia e filosofia e simili, è uno di quelli che, per
essere stati posti nella storia del pensiero umano, sono
Proslogium, I.
6S
I. I PROBLEMI DELLA SCOLASTICA
anch’essi certamente momento non trascurabile nello svol-
gimento del pensiero; ma che dal progresso di questo
non hanno più ricevuto nuove soluzioni, com’è accaduto
e accadrà a quelli che sono i problemi eterni, i problemi
veri della mente; anzi hanno perduto ogni significato.
Di modo che chi tuttavia stima di poter caratterizzare il
pensiero scolastico per le sue relazioni col domma e con
la teologia cattolica, si mette con un errore di filosofia
in condizione di commetterne parecchi di storia della
filosofia.
Oggi, e da un secolo, noi intendiamo la filosofia come la
realtà assoluta dello spirito, la quale pertanto assorbe in
sé ogni realtà spirituale, ed esclude non solo da sé, ma
dal mondo che è per lei, tutto ciò che non è filosofia.
E quando taluno ripete oggi: esperienza e filosofia, o
fede e scienza, o sentimento e ragione, riaffermando fuori
della ragione (scienza o filosofìa, che voglia dirsi) una forma
diversa di spiritualità, egli può dirsi vittima di un’ illu-
sione per non essere entrato nello spirito della filosofia
moderna, interpretato per la prima volta da Kant, come
scienza della scienza, e, come tale, autoriflessione, o piut-
tosto, autoctisi. Lo spirito è stato sempre questo ripiegarsi
su se stesso, e nel ripiegamento porsi, crearsi quale appa-
risce a se stesso. La filosofia moderna gli ha dato la co-
scienza di questa sua natura immanente, e operante,
com’è naturale, anche nella filosofia anteriore: e s’è costi-
tuita essa stessa, — forma culminante o assoluta dello
spirito, — coscienza di questa forma, o, ripeto, filosofia
della filosofia. La filosofia è lo spirito filosofante: e lo
spirito filosofante è la coscienza o affermazione di se
medesimo; e però sempre di se medesimo, anche quando
pare che affermi altro; che non può essere se non l’altro
affermato dalla filosofia, avente valore per la filosofia,
rientrante nel quadro, per così dire, della filosofia; e però,
esso stesso, filosofia.
III. DIO E IL MONDO
69
Poniamo, ad esempio, la dualità dell'esperienza e del
pensiero a priori o speculativo. Si può sentire anche oggi
ripetere frequentemente che il pensiero deve conformarsi
all'esperienza, e che in questa è la base, in questa la ma-
teria e la legge di quello. Ma, quando poi si va a vedere
che cosa gli empiristi ci danno per esperienza contrapposta
al pensiero, si ha innanzi un pensiero contrapposto a un
altro pensiero; e che cosa infatti potrebbe essere innanzi
al pensiero, se non un pensiero ? Kant stesso, con le sue
preoccupazioni empiriche, cerca fuori delle sue intuizioni
pure la materia dell’esperienza, e non può affermare se
non questa materia formata, ossia un’intuizione; cerca
al di là delle categorie un’esperienza sensibile, e non può
trovarla altrove che nella stessa esperienza investita dalle
categorie, e però già intellettuale. Tutto che tocchi il
pensiero si fa pensiero; tutto che tocchi una forma o
momento dello spirito, si fa spirito in questa forma o mo-
mento. L’esperienza nel suo valore empirico è nel pensiero
e pel pensiero empirico; ma quando, dovendo essere pel
pensiero razionale o puro, entri in questo pensiero, e questo
la pervada della sua razionalità, da esperienza che era, si
eleva e diventa essa pensiero puro; e se questo si volge
indietro a cercare un’esperienza, che gli sia guida o norma,
non trova più nulla: e dee ritrarsi in se stesso; e dentro
di sé, nel circolo solido della propria vita, che è una logica
sola, avere la sua guida e la sua norma. Il quale pensiero
puro o razionale, la filosofìa, che non riceve l’oggetto,
ma lo costruisce e lo crea costruendo e creando se medesimo,
pervade sempre della sua razionalità l’esperienza, ancor-
ché paia talvolta urtarvi contro, e cadere impotente innanzi
ad essa, riconoscendo misteri, dati impenetrabili, noumeni,
inconoscibili, ineffabili, innominabili e simiglianti entità
mitiche. Sempre: poiché cotali entità sono appunto limiti,
che esso stesso, il pensiero razionale, nella razionalità di
certo suo mondo governato dalla logica di un certo si-
?o
I. I PROBLEMI DELLA SCOLASTICA
stema, o, se piace meglio, veduto alla luce di una certa
intuizione, pone: ché un mistero, un noumeno riconosciuto
dalla filosofia, s’ impone per una dottrina, la quale, deri-
vando dalle esigenze stesse del sistema filosofico, è assurdo
che si possa considerare come limitazione estrinseca della
libertà creativa dello spirito nella filosofia, laddove è una
delle conseguenze interne della sua libera attività. Ed è
stato infatti osservato, che nulla è più noto nel kantismo
della pretesa cosa in sé inconoscibile, prodotta dalla ne-
gazione del contenuto totale dell'esperienza e pertanto
essa, anzi che limitare la sfera di attività dello spirito,
è una celebrazione della sua assoluta libertà.
2. In conclusione, l’esperienza, che il filosofo accetta,
è l’esperienza di cui egli si fa quel concetto, che lo induce
ad accettarla: e insomma, quando ei l’accoglie, non è
propriamente l’esperienza, ma il concreto concetto della
esperienza; cioè, poiché concetto, la sua filosofia. E lo
stesso dicasi di quella esperienza religiosa che Anseimo
d’Aosta dice credere, antecedente imprescindibile dell’ in-
telligere, Il suo presupposto filosofico è identico a quello
del nihil in intellectu nisi prius in sensn di tutti gli avver-
sari empirici del pensiero puro e della metafisica; nella
quale anch’essi, loro malgrado e a loro insaputa, preci-
pitano a capo fitto con la implicita o esplicita ricostru-
zione della realtà che è in sensu.
Identico ; perché il concetto della fede rinverga appunto
con quello dell’esperienza sensibile; se si astrae per un
momento dal contenuto particolare della fede e dell’espe-
rienza, che non è davvero ciò che può produrre tra loro
una differenza sostanziale. La fede, come l’esperienza sen-
sibile, è un concetto di relazione, che cioè si pone
a volta a volta rispetto a momenti spirituali diversi, e pro-
priamente superiori. Fede infatti o esperienza sensibile noi
diciamo il dato, l’immediato dello spirito, rispetto al prò-
III. DIO E IT. MONDO
7 1
cesso che pensa il dato stesso, e ne risolve l'immediatezza.
Ma niente è assolutamente dato: l’intuizione empirica
è un dato, nella Critica della ragion pura, rispetto all' in-
telletto ; ma è un prodotto rispetto al molteplice sensibile ;
e questo non è un’escogitazione suggerita daH’atomismo
scientifico e dal monadismo filosofico ond’era nutrito il
pensiero kantiano ? Così, nella psicologia empirica, avete
concetti empirici che son dati rispetto ai nessi concet-
tuali, presuppongono un lavorio di astrazione e genera-
lizzazione: di cui il punto di partenza, la rappresenta-
zione, allo spicologo che si è messo su quella via, non può
non apparire, a sua volta, un punto d’arrivo di integrazioni
psichiche ; e il vero immediato indietreggia sempre e
riesce inafferrabile, finché non costringe gl’ inesperti a
quei salti nel buio, con cui costoro s’illudono di raggiun-
gere fuori dello spirito quel che dentro di questo sfugge
loro sempre di mano.
A intendere agevolmente la natura della esperienza
sensibile conviene in vero non attender troppo all’agget-
tivo: ché i sensi non sono elemento di quella esperienza
elementare, su cui si vuol fissare lo sguardo, anzi concetti
tardivi ed elementi di una teoria postuma a quella ante-
riore esperienza. Esperienza sensibile è quel primo mondo
che lo spirito si trova dentro quando comincia a riflettere,
quando cioè comincia a sentire il bisogno di rendersene
conto: quel mondo, che pare si sia costituito in lui quan-
d’egli era assente a se stesso. Ma questa è soltanto un’ap-
parenza: perché lo spirito non può essere mai assente a
se stesso; e se, empiricamente osservando, par che nella
sua vita ci siano come delle crisi, in cui si desti una più
profonda coscienza, alla cui luce il passato diresti si fosse
già costituito senza l’opera nostra e quasi fuori della
nostra coscienza; in realtà, ogni ritmo vitale, ogni palpito
dello spirito è una di queste crisi, per cui il nostro passato
è travolto nel presente, che solo è attualità di coscienza,
T. I PROBLEMI DELLA SCOLASTICA
che investe tutti i momenti anteriori come proprii og-
getti trasfigurati e veramente ricreati alla nuova luce
II credente che intende il suo credo, o che il suo credo,
che reputa perfino assurdo, intende quasi integrazione
indispensabile del suo mondo intelligibile, ha nel contenuto
della fede l’immediato, il punto di partenza, il problema
della sua filosofia. Rispetto alla quale infatti esso appa-
risce un che di anteriore e indipendente: ma né più né
meno di quel primo intuito della realtà, da cui ogni più
libero e spregiudicato razionalista imprende a filosofare :
né più né meno di quel che lo spirito che si mene formando
e maturando nell’osservazione, negli studi e nella medi-
tazione, scorge confuso nei libri che legge, negli autori
con cui simpatizza, nelle sparse riflessioni che vien racco-
gliendo, e in tutto ciò che diventerà materiale della sua
costruzione avvenire; e che, beninteso, solo in un senso
relativo sarà materiale, perché, a ben considerare, lo
spìrito in esso ha già cominciato a costruire. E come
chiunque, leggendo un libro, non potrà poi non tenerne
conto ne’ suoi pensieri ulteriori, ancorché ne dissenta ra-
dicalmente (ché anche il dissentire è momento di vita e
di progresso, e anello non trascurabile nella catena dei
nostri pensieri), e non potrà dire mai perciò di non averne
davvero imparato nulla ; così il credente che s’inserisce
nella tradizione dommatica della sua Chiesa, lo dica o
non lo dica, non potrà fare a meno di filosofare sulla base
della mentalità costituitasi in lui per aver partecipato a
quella corrente.
In sostanza, il nisi credidero non intelligam può avere
soltanto un significato: io non posso filosofare se non col
mio cervello; non posso propormi se non la soluzione dei
problemi, che siano sorti nella mia mente. Che è, mi pare,
una pretesa, la più ragionevole e discreta che si possa
1 Vedi il mio Sommario di pedagogia, voi. I, parte I.
III. DIO E IL MONDO
73
ammettere, e di cui non si vorrà scandalizzare se non
quell’astratto razionalista, il quale concepisca fantastica-
mente la ragione come strumento che lavori nel vuoto,
sempre allo stesso modo e con lo stesso impulso.
3. L’errore del filosofo medievale è nella insufficiente
coscienza che ha della natura di questo credere, che in
lui stesso è, e non potrebbe non essere, se non intelligere ;
ed ei ritiene invece che, come è di qua di un dato intelligere,
o, diciamo così, del secondo intelligere, sia di qua di ogni
intelligere, illuminazione affatto estraspirituale, e divina
anzi che umana. Ma questo errore si radicava nell’errore
analogo che il filosofo medievale commetteva provandosi
a intendere lo stesso intelletto, che per lui diventava
anch’esso una specie di fede, in quanto atto non propria-
mente umano, ma di Dio, come vedremo quest’altra
volta. E codesto errore non concerne il concetto dei rap-
porti tra filosofia e fede, anzi rientra nell’organismo stesso
della filosofia, e deriva dalla sua intuizione fondamentale,
per cui la realtà (o verità) è non lo spirito stesso che fa
se medesimo, ma l’essere che è già in sé quello che è,
senza divenire, e senza sforzo di divenire.
Quando perciò l’autore del Proslogio (capo 2) si rivolge
a Dio: «Ergo, Domine, qui das fidei intellectum, da mihi
ut, quanlum scis expedire, intelligam quia es sicut credimus,
et hoc, es quod credimus », pareggia in tutto le partite,
tra fede e intelletto: chiedendo a quel Dio che gli ha
largita la fede, anche l’intelletto. Egli non ha il vero
concetto né della libertà del credere, né di quella dell’ in-
tendere; poiché infatti la libertà è una, e il credere non
è se non un momento dell’ intendere. E ciò vuol dire,
che la sua non è scienza della scienza, quale sarà la filo-
sofia moderna: la sua è scienza della realtà che non è
scienza. Ma per quella scienza che è, per quel concetto
che ha potuto conquistare della verità e del valore dello
74
I. I PROBLEMI DELLA SCOLASTICA
spirito, il contenuto della cosiddetta fede sta sullo stesso
piano di quello dell’ intelligenza ; e allo storico spetta di
considerar tutto come contenuto di filosofia, e valutarlo
come tale.
Non è infatti un concetto filosofico quello che sant'An-
selmo, continuando, dice oggetto della sua fede: te (Dio)
esse ali qui d quo nihil maius cogitavi possit ? Ciò di cui
non si può pensare niente di maggiore è il vecchio concetto
della realtà, che era stato tramandato dal platonismo
greco: il mondo perfetto, xóauoq réXeioq, che, sorto col
primo idealismo, l’eleate, come mondo spaziale, si fissò
nella concezione platonico-aristotelica come mondo intel-
ligibile: che è tutto atto e puro atto, rispetto al quale
il mondo della generazione e della corruzione, la natura,
non può aver valore assoluto: è il solo vero mondo della
scienza, secondo l’analitica aristotelica, che conosce sola
legge del pensiero il principio d’identità. Se Anseimo
avesse avuto gli occhi alla natura, che sorge perenne-
mente e tramonta, allo spirito che sale sempre di vetta
in vetta né mai posa come fera in lustra, quell’essere
quieto, perché è tutto, immobile perché non ha fini da
raggiungere, quell’essere perfetto, insomma, fuori dello
spazio e del mondo in cui è movimento e fatica incessante
per montare ai fini e realizzare la propria natura, non
gli sarebbe balenato neppure alla mente ; o non gli sarebbe
riuscito intelligibile. E invece è per lui il fulcro del pen-
siero, il principio di ogni intelligibilità, mercé il quale
potrà esser convinto anche 1’ insipiens biblico, che dixit
in corde suo: Deus non est.
4. Il famoso argomento ontologico va guardato da
questo aspetto perché abbia un senso. Opporgli con Kant
che l’esistenza non è un predicato, ossia un concètto che
si possa trovare nella comprensione del concetto di Dio,
non basta a chi voglia rendersi conto della situazione
IH, DIO i: IL MONDO
75
speculativa dalla quale cotesto argomento sorge. Lo stesso
Anseimo, nello svolgimento che ne fa nel 2° capo del
Proslogio, dice, che aliud est rem esse in intellectu, aliud
intelligere rem esse: ché il pittore, egli chiarisce, quando
vagheggia le figure che dipingerà, le ha bensì nell' intel-
letto, ma non pensa tuttavia come esistente quel che
ancora non ha fatto; e soltanto dopo averlo dipinto, ha
nell’ intelletto e pensa inoltre come esistente ciò che ha
dipinto. Questa differenza tra l’esistenza estraintellet-
tuale e il contenuto dell’ intelletto egli l’ammette. Né
vale di più opporgli, come fa Kant, che 1’esistenza poi
non aggiunga nulla al concetto dell’ id quo maius cogitavi
nequit, come non aggiunge nulla alla situazione di cassa
di un commerciante qualche zero che egli possa aggiun-
gere all’attivo del suo bilancio. Perché anche questa è
in fondo la convinzione dell’autore stesso dell’argomento
ontologico; il quale appunto perciò osserva che, quando
il pittore praecogitat quae facturus est, habet quidem in
■intellectu, sed nondtim intelligit esse quod nondum fedi.
Il facete del pittore, che solo può generare legittima-
mente la posizione deflessi? del fantasma pittorico, se-
condo la primitiva estetica del dottore medievale, quel
facete corrisponde puntualmente ai talleri che Kant vuole
sonanti nella cassa, e non moltiplicati idealmente sulla
carta. Né, d’altra parte, Kant nega la fenomenalità e
l’idealità dei talleri, di cui l’intuizione empirica ci fa
percepire l’esistenza. La questione, dunque, non consiste
nella soggettività o non soggettività, nella idealità o
realtà dell’oggetto costruito dall’ intelletto. Quando Kant
vuole spiegare l’oggettività di quel che vi è di più costante,
di più regolare, di più intelligibile nella realtà conosciuta,
ricerca questa oggettività nelle forme dell’attività cono-
scitiva.
Egli è che Anseimo commette per l’appunto lo stesso er-
rore di Kant, quando, oltre quest’oggetto che si conquista
76
I. I PROBLEMI DELLA SCOLASTICA
con la costruzione dello spirito, ne cerca un altro, che tra-
scende ogni intelligibilità, ed è infatti inattingibile allo
spirito razionale: il dato, il molteplice, quel fantastico
mondo esterno, che irromperebbe nella coscienza attra-
verso la sensazione, per dare con l’esperienza un conte-
nuto alle forme altrimenti vuote del pensiero. Anche Kant
per tal via (che non è certo la via regia aperta dal suo
pensiero rinnovatore) contrappone oggetto a soggetto; e
se richiede un’ intuizione sensibile per gli oggetti sen-
sibili, richiede un' intuizione intellettuale (che solo per
un pregiudizio naturalistico non riesce ad ammettere
analogamente alla prima) per la conoscenza degli oggetti
intelligibili. Ora Anseimo quest’organo dell’intuito intel-
lettuale lo ammette: è la sua esperienza di fede. Poiché
ha creduto, egli ha veduto innanzi a sé Dio, ne ha sentito
la presenza, e cerca soltanto fidei intellectum. La quale
fides, di certo, non è risoluta per la sua filosofia in vero
intellectus. Ma in Kant è forse giustificata la esteriorità
del dato ? È cioè risoluto in filosofia il concetto volgare
della esperienza ? Come s’illude Kant nella Estetica tra-
scendentale, reputando di fondare la conoscenza sul mol-
teplice sensibile, che in fondo alla sintesi dell’ intuizione
è un mero presupposto di fede, così non è da meravi-
gliarsi che il pensatore del sec. xi si sia illuso anche lui,
di avere razionalizzato quel che era per lui il -primum
datum, del suo pensiero. Ni si credidero non ìntelligam.
5. Invero, non ci vuole molto ad accorgersi che il sil-
logismo della prova ontologica, come ogni sillogismo del-
l’analitica aristotelica e medievale, non è un processo dì
pensiero, ma una dilucidazione didascalica, la quale si
limita a spiegare la premessa: esse aliquid quo nihil maius
cogitari potest. Per l’autore questo aliquid non est in intel-
lectu; ma est in re. Che se nel 2° capo del Proslogio egli
si tiene sicuro della forza apologetica della sua dimostra-
TU. DIO E IL MONDO
77
zione, poiché non dubita che convincitur elicmi insipìens
esse vel in intellectu aliquid quo nihil maius cogitari potest,
quia hoc, cuni audit, intelligit, e gli pare lì che basti par-
tire da un Dio pensato per dedurre un Dio reale, poi a
dimostrazione finita, meravigliato e come preoccupato
della estrema facilità della medesima, non può a meno
di chiedere a Dio: Cur itaque dixit insipìens in corde suo,
non est Deus, cum tam in promptu sii rationali menti, te
maxime omnium esse ? — E risponde da sé con quest’altra
curiosissima interrogazione: Cur, nisi quia stultus et insi-
pìens ? Stolto e sciocco, perché disse a parole quel che è
impensabile: perché dire Dio, è dire qualche cosa di cui
non ci può esser nulla di maggiore, ossia quell’essere che,
oltre al resto delle perfezioni, possiede la perfezione del-
l’esistere. In altri termini, lo stolto non concepisce quel
Dio che nega; e non lo concepisce appunto perché non
lo concepisce esistente. Cioè non basta, in fondo che
1’ insipìens lo pensi, come si diceva prima, quale esistente
soltanto nell’ intelletto.
Sicché l’arguto monaco del chiostro di Marmoutier,
che rispose tosto ad Anseimo con un Liber prò insipiente,
non ebbe torto di scappare in quell’osservazione, che è
la satira dell’argomento ontologico: Prius certum mihi
necesse est fiat, re vera esse alicubi maius ipsum, et tum
demum, ex eo quod maius est omnibus, in se ispo quoque
subsistere non erit ambiguum1. Come dire: prima mo-
stratemi Dio, e poi me lo dimostrerete. Proprio così.
O vi contentate di quel che può capire 1’ insipìens, l’uomo
che non ha ricevuto la fede; e voi avrete una premessa,
che non sarà sufficiente alla dimostrazione di Dio: o voi
1 A. Daniels, Quellenbeiträge u. Untersuch, z, Gesch. der Gottesbeweise
im XIIIJahrh. mit besond. Berücks. des Arguments im * Proslogion ’
des hl. Alselm, Münster, 1909 (nei Beitr.z. Gesch. d. Philos, d. Mittelalters),
p. 10.
7<S I. I PROBLEMI DELLA SCOLASTICA
rabberciate la premessa, e allora 1’ insipiens non vi se-
guirà più, e la fede non diventerà intelletto.
6. Onesta critica, in verità, è troppo facile. Quel che
può interessare non è Terrore di Anseimo, ma la causa
del suo errore. A intender la quale, conviene riflettere
che quella petizione di principio a cui si riduce l’argo-
rnento ontologico, è (secondo un’osservazione antichis-
sima) la petizione di principio di ogni sillogismo: quella
petizione di principio, a cui si riduce tutto il pensiero
concepito dal punto di vista platonico: — che è poi
un’osservazione, che non so se sia stata fatta ancora, ma
merita di essere attentamente meditata, se si vuole scor-
gere la radicale trasformazione avvenuta nel pensiero
umano dalla filosofia antica, che io dico greca, alla mo-
derna, che dico cristiana. Chi pronunziò la parola più
profonda per esprimere il concetto greco del pensiero in
rapporto alla realtà, la parola che si può dire la chiave
di volta di tutta la filosofia greca, è Parmenide, T aISolóq re
àpoc Set,vó<; Parmenide J, quando affermò essere lo stesso
pensare essere: tò yàp àuro vostv egtiv ts xaì si va'.2 :
quell’essere appunto, di cui gli Eleati fermarono in eterno
la logica rigorosamente governata dal principio d’identità ;
quell’essere, che non può variare, e però esclude ogni
processo, e quindi anche il pensiero in quanto processo.
Il solo pensiero che seppero concepire i filosofi greci è
infatti pensiero senza processo: pensiero in sé, che è im-
mediatamente tutto il pensiero. Tale il pensiero della
logica aristotelica, dalle categorie agl’ individui, dall’ uno
ai molti, tutto in sé concatenato e fermato, sì che nella
estensione dell’uno si raccolgono i molti, e nella compren-
sione dei singoli molti sia immanente l’uno. Di modo che
1 Platone, Theaet., 133 E.
ì Fr. 5 (Diels).
Ili. DIO 13 IL MONDO
79
per definizione è un pensiero che non ha ragione di muo-
versi o svolgersi; e ogni movimento o svolgimento in
esso è apparente. Il sillogismo è nella sua premessa mag-
giore; il giudizio nel soggetto. La molteplicità e l’aumento
o sviluppo è nelle parole: il pensiero è uno, e sempre
quello, non suscettibile di diminuzione, ma né anche di
aumento. Pensiero analitico, si sa, è pensiero identico,
che per noi moderni, — dopo il Novnm organimi, ma sopra
tutto dopo la Logica trascendentale, per cui pensare è
giudicare, sempre, e giudizio è sintesi, — è una vera
contraddictio in adiecio.
7. Ma, concepito il pensiero a quel modo, non si può
fare colpa ad Anseimo di premettere una maggiore che
contiene la conclusione. Era la logica di quella filosofìa, che
o afferrava tutta la verità d’un tratto, per acquetarvisi
o rigirarvisi dentro con un certo moto solo apparente, o
non la raggiungeva più: di quella filosofia, in altri termini,
che non poteva far altro che credere, comecché tentasse
e facesse ogni suo sforzo per intendere. Il valore storico
dell’argomento ontologico è proprio questo, di un’ener-
gica quanto ingenua affermazione della logica immanente
nella filosofia medievale, del tutto analoga a quella per
cui Platone, per esempio, aveva per primo posto le idee
innate. E se questa affermazione s’infrange nella satira
di Gaunilone, si badi che l’oppositore non ha una filo-
sofia diversa, e una più moderna logica: soltanto che a
lui manca la genialità coraggiosa di chi trae all’espressione
culminante gli errori che serpeggiano nel pensiero comune.
Il principio da cui egli muove è quel dualismo di esse
in intellectu ed esse in re, il quale non ammette altra
logica che quella della verità in sé, che è per l’appunto
la medesima della prova ontologica.
La quale prova ontologica, rimessa a nuovo nell’età
moderna da Cartesio, appena questi ebbe smarrito il filo
8o
I. I PROBLEMI DELLA SCOLASTICA
d’Arianna già trovato col cogito ergo sum, che per la prima
volta colmava il terribile dualismo dell’essere e del pen-
siero, facendo non più, come l’antico di Elea, il pensiero
essere, ma pensiero l’essere; irrigidita nella sua più per-
fetta logicità nel nesso leibniziano del possibile col reale,
per presentarsi in quest’ultima forma ai colpi della critica
kantiana, la quale diè bensì le armi per abbatterla, ma
non le adoperò essa; —- co testa prova ontologica è una
delle più grandi battaglie combattute dal pensiero medie-
vale per la conquista della realtà, del fondamento di
ogni realtà, di Dio. E tutti i maggiori pensatori del xn
e del xiii secolo accorrono a prendervi parte, gli uni per
finire con la certezza della vittoria, gli altri per partirsi
con la coscienza della disfatta e della necessità dì nuove
armi e di nuove battaglie; Riccardo Fishacre, Guglielmo
di Auxerre, Alessandro di Hales, Alberto Magno, Bona-
ventura, Giovanni Peckham, Matteo d’Acquasparta, Tom-
maso d’Aquino, Pietro di Tarantasia, Egidio Romano, En-
rico di Gand, Guglielmo di Occam, Riccardo di Middleton,
Guglielmo di Ware, Giovanni Duns Scoto. Ne discussero
tutti nelle loro somme teologiche o nei commentari a
quelle Sentenze, che Pietro Lombardo (nativo forse di
Lomello, ma maestro di teologia tra il 1140 e il ’59 a
Notre Dame a Parigi e poi vescovo della città), raccogliendo
luoghi teologici dalla Bibbia e dai Padri della Chiesa,
aveva ordinate e disposte ad uso delle scuole di teologia.
Ma la lunga insistenza della discussione, pur nei difen-
sori dell’argomento ontologico, può significare l’insoddi-
sfazione che questo lasciava negli spiriti. A cui nella
polemica, in quel girare da tutte le partì la prova mira-
bile che, supposta la dualità dell’ intelletto e della realtà,
doveva con uno sforzo soggettivo del primo raggiungere
la seconda, non poteva non apparire confusamente la
gravissima difficoltà del tentativo, che pure era lo sforzo
più vigoroso fatto dall'uomo, in quanto uomo, semplice
III. DIO E IL MONDO
Si
intelligenza naturale, per toccare in Dio il proprio valore
o la radice stessa dell’esser proprio. Oui si dovevano
concentrare gli sforzi maggiori per far della fede una
filosofia: questo era, lo vedessero o non lo vedessero
chiaramente cotesti pensatori, il problema capitale della
loro speculazione: perché, creduto Dio, con Dio è dato
tutto, e la scienza non ha nessun problema da risolvere;
e se non si contenta delYasylum ignorantiae spinoziano,
deve, senz’altro, rinunziare a se stessa. Se si deve comin-
ciare dimostrando Dio, o l’argomento ontologico o un
altro argomento urterà sempre nella difficoltà di sant’An-
seimo : può un argomento intellettuale attingere altro
che una realtà intellettuale ? Tutti questi pensatori cer-
cano Dio — e chi non cerca Dio ? e movono da un
concetto del proprio pensiero, per cui Dio che ne è fuori
non si vede come possa raggiungersi. Par loro sempre di
raggiungerlo; ma basta pongano mente alla radicale oppo-
sizione dell’ intelletto e del reale, perché subito Dio si
dilegui, lasciando dietro a sé soltanto un’ idea o un’ombra.
Questa è veramente la più grande battaglia combattuta,
e perduta, dalla filosofia scolastica.
8. Ma convien distinguere due correnti nella filosofia
scolastica: una delle quali risale per una tradizione com-
patta ad Agostino, e attraverso di lui a Platone; una,
più schiettamente aristotelica, a capo della quale sta il
nostro Aquinate. La prima si avvantaggia sulla seconda,
in questa questione fondamentale della dimostrazione della
esistenza di Dio, per la stessa misticità o irrazionalità
prevalente nella sua gnoseologia: misticità o irrazionalità
che ne costituisce per altro un titolo di notevole inferiorità.
La gnoseologia platonica presenta questo capitale di-
vario dall’aristotelica : che per essa la cognizione vera
(delle idee) è innata, non si desume dall’esperienza; lad-
dove per questa la cognizione vera (delle forme) è una
6. —• Gentile. 7 problemi della scolastica.
82 I.I PROBLEMI DELLA SCOLASTICA
formazione, i cui elementi sono forniti dalle percezioni
sensibili. Dal punto di vista scientifico e filosofico la
teoria aristotelica rappresenta un progresso importantis-
simo, mirando a riprendere la tesi empirica degli atomisti
e di Protagora senza rinunziare all’universale del concetto
di Socrate e all’assolutezza dell’ idea platonica. La teoria
della conoscenza di Platone aveva avuto il grandissimo
merito di scoprire l’idea, l’assoluto, che è presupposto
dallo stesso sensibile transeunte ; ma essa per disperazione
aveva rinunziato a spiegare la spiritualità o soggettività
dell’ idea naufragando nel mito della reminiscenza, sug-
gerito senza dubbio a Platone dalle credenze religiose,
del cui misticismo è così profondamente impregnata tutta
la sua filosofia. Ora, supposte le idee innate per un in-
tuito trascendente (si ricordino le contemplazioni iperu-
ranie del Fedro), la verità o oggettività assoluta delle
idee è data dalla loro stessa origine o essenza. Il soggetto
non ci ha nessuna parte; e non può diffidare quindi né
di se medesimo, né dell’oggetto che si trova dentro.
NeH’aristotelismo la posizione del soggetto rispetto all’og-
getto è identica: e la causalità finale di questo agisce su
quello, che è primieramente senso, per moverlo a sentire.
Ma dalla sensazione, che per Aristotele si soggettivizza
tosto come sensazione di se stessa, fino al concetto, c’è
tutto un processo che può parer soggettivo; il quale
corrisponde bensì a un processo reale, e vedremo que-
st’altra volta in che senso, ma non cessa pertanto di
essere costruzione intellettuale.
9. Quindi è che i filosofi platonizzanti, come Bonaven-
tura di Bagnorea, ammettendo di Dio un’ idea innata,
non han bisogno veramente di dimostrarne la legittimità:
l’immediatezza della loro tesi filosofica coincide con l’im-
mediatezza del loro credo. Le dimostrazioni, che essi
pure forniscono dell’esistenza di Dio, mirano piuttosto
UT. DIO K IL MONDO
83
a soddisfare un corrente obbligo di scuola, che ad appagare
un bisogno della loro filosofia. Come dice Bonaventura
nella prima delle sue Quaestiones disputatae de mysterio
Trinitatis, esse sono exercitationes intellectus \ le quali
potranno soltanto rendere più precisa l’idea di Dio, che
ogni uomo possiede. Questi filosofi, com’è ovvio, sono
disposti ad accogliere e difendere la prova di Anseimo.
Bonaventura rimane interamente chiuso dentro la fede
nell’oggettività dell' idea di Dio. All’argomento anselmiano
fa ricorso nel commento alle Sentenze, e lo conferma,
movendo dalla proposizione che Dio è quo nihil maius
cogitari potest secundum communem animi conceptionem 3.
E quando nella citata prima questione De mysterio Tri-
nitatis distingue tre vie per provare l’affermativa della
questione Utrum Deum esse sit verum indubitabile, la
prima di queste vie la fa consistere in ciò che omne verum
omnibus mentibus impressum est verum indubitabile, ossia
nell’ idea innata dell’esistenza di Dio : idea, che abbiamo
veduto nella precedente lezione com'egli nell’ Itinerario
provasse innata. E la seconda, empirica, è una semplice
variante delia prima: omne verum, quod omnis creatura
proclamat, est verum indubitabile', ché il consenso è\un
carattere conseguente della natura delle idee innate. E la
terza, se arieggia, com’è forinolata, l’espressione che la
premessa della prova ontologica assumerà in Descartes,
vuol essere per Bonaventura il principio della prova di
Anseimo. Egli dice: Omne verum in se ipso certissimum
et evidentissimum est veruni indubitabile. Dato questo
principio, non si dubiterà dell’esistenza di Dio, ove si
dimostrerà la minore, che questa esistenza di Dio è ve-
rità in se stessa certissima ed evidentissima. Il che fu
provato, secondo il filosofo di Bagnorea, da Anseimo
1 Henry, Hist. des preuves de l’exist. de Dieu au moyen âge, in Revue
tomiste, mars-avril 1911, p. 147.
2 Daniels, o. c., p. 38.
s4
I. I PROBLEMI DELLA SCOLASTICA
movendo dalla posizione : Deus est quo nihil mants cogitavi
poteste, che, come s’è detto, è per Bonaventura, concepito
comniunis. Sicché, sia che l’argomento ontologico si prenda
in sé, sia che si trascenda e s’inquadri in un principio
superiore, il punto di partenza è l’idea innata, della cui
obbiettiva validità il filosofo non dubita menomamente.
Il pensiero platonizzante si polarizza nella negazione del
pensiero: e la conclusione si fa esplicitamente un dato, lo
stesso principio, che non è principio di niente, poiché
tutto finisce in esso.
io. Sforzi poderosi per restituire al pensiero l’energia
e l’efficacia del suo processo, negando il presupposto delle
verità innate, e ingegnandosi di aprirgli una via alla con-
quista dell’assoluto fanno invece gli aristotelici, che nel
risorgimento della letteratura aristotelica del Dugento
rinnovano il senso delle esigenze scientifiche, di cui lo
Stagirita era stato interprete sommo. Tommaso tra essi
si può dire che abbia tentato tutto quello che si poteva
per far uscire il pensiero da sé e attingere la realtà e
Dio, prescindendo da ogni immediata presupposizione, e
restituendo all’ intelletto la piena libertà del suo operare,
per vedere se non fosse per avventura capace di elevarsi
da sé, con le sole sue forze, con l’elaborazione logica della
sua naturale cognizione, al primo principio di tutte le
cose e di se stesso.
Sulla mente di Tommaso d’Aquino l’argomento onto-
logico non ha presa. Cognizione innata l’idea di Dio ?
Innati sono i principii logici, come quello di contraddi-
zione; e innata si può dire quella cognizione solo in quan-
timi per principia nobis innata de facili perdpere possumus
De uni esse 1. Così, nella esposizione In librum Boethii De
T rinitate.
1 Vedi tutti i luoghi di Tommaso in Daniels, o. c., p. ó4 sgg.
III. DIO E IL MONDO 85
Più esplicito il giudizio che ne dà nel commento al I
delle Sentenze (dist. m, q. I, art. 2): Ratio Anseimi ita
intelligcnda est: quod, postquam ìntelligimus Deutn, non
potest intelligi quod sit Deum et possit cogitari non esse ;
sed tamen ex hoc non sequitur quod aliquis non possit
negare vel cogitare Deum non esse; potest enim cogitari
nihil huius modi esse quo maius cogitari non possit; et
ideo ratio sua [se. Anseimi] procedit ex hac suppositione,
quod supponatur aliquid esse quo maius cogitari non potest.
Per lui, dunque, come per Gaunilone, affinché l’argomento
abbia valore, bisogna prima supporre che sia quel Dio
che si concepisce come l’essere massimo. Quella immediata
comunicazione dell’ intelligibile con l’intelletto, in cui
ha fede Bonaventura, per Tommaso è un presupposto
antiscientifico, indimostrato o indimostrabile.
Nella Summa contra gentiles 1 e nella questione De
veritate nonché nella Summa theologica 1 2 insiste, su una
distinzione, sfuggita ai mantenitori dell’argomento di An-
seimo: tra il notum per se simpliciter e il notum per se
quoad nos. Il notum per se simpliciter o secundum se è
l’oggetto in sé, il xaO’auvò di Aristotele: il rapporto tra
un essere e la sua essenza. L’essere non può non essere
quel che è per essenza. E nell’essenza di Dio è compreso
certamente che egli sia. Che egli sia è perciò un per se
notum: in altri termini, se c’è Dio, non può egli non es-
sere; come, definito l’uomo per animale ragionevole,
e posto un uomo, non potrà egli non essere un ani-
male.
Ma c’è poi l’uomo ? Come si rivela a noi, come si rende
un notum quoad nos la quiddità di Dio, in cui si trove-
rebbe l’essere ? Quia hoc ipsum quod Deus est mente con-
cipere non possumus, remanet ignotum quoad nos. Nella
1 Lib. I, c. II.
2 Pars I, q. II, a. 1.
86
I. I PROBLEMI DELLA SCOLASTICA
Stimma contra gentiles Tommaso asserisce nettissimamente,
con la stessa coscienza che avrà Kant dell' impossibilità
di conoscere per pure costruzioni intellettuali : Non incon-
veniens est, quolibet dato vel in re vel in niteUectu, ali-quid
maius cogitavi posse, nisì ei qui concedii esse aliquid quo
maius cogitavi non possit in rerum natura. -— Quod, ag-
giunge nell’altra Somma, non est datimi a ponentibus
Deum non esse.
L’orgoglio di lui, invece, era questo: di dimostrare Dio
a quelli che ne negano 1’esistenza, di costruire insomma
liberissimamente la filosofìa. Le prove, o vie, corn’ei dice,
per dimostrare che c’è Dio, sono, per Tommaso, cinque;
e tutte cinque muovono, non da principi! a priori, ma
dalla stessa esperienza. Tutte cinque ormeggiano il pro-
cedimento, con cui Aristotele nel vii della Fisica e nel
xn della Metafisica s’era levato anche lui dal movimento
constatato (ei credeva) per esperienza, alla origine tra-
scendente di esso, in un motore immobile.
li. Niente si muove che non sia mosso, aveva detto
l’antico maestro. Il mosso suppone, dunque, un motore,
che muove, a sua volta, in quanto è mosso pur esso.
Ma la serie dei motori mossi non può essere infinita,
perché altrimenti in un tempo finito si avrebbe un movi-
mento infinito. — E anche: poiché vediamo nell'espe-
rienza qualche cosa che move ed è mossa, e qualche cosa
che è mossa e non move, ci dev'essere pure qualche cosa
che move ed è immobile. Questo motore immobile, Dio,
dunque, Aristotele l’aveva dimostrato partendo dalla
constatazione empirica del movimento concepito meccani-
camente, e osservando l’assurdo implicito in questo con-
cetto rigorosamente inteso: che era stata la critica che
già aveva fatta Platone dell’atomismo assoluto, perve-
nendo perciò, nel Timeo, a una costruzione meccanica
del mondo inquadrata in una cornice idealistica. :
III. DIO E IL MONDO
8-
E qui vi prego subito di considerare la difficoltà intrin-
seca che travaglia una tale concezione, e il motivo segreto
che la ispira. Un sistema meccanico assoluto è certamente
assurdo (com’è assurdo, per altro, ogni sistema meccanico
a causa del suo fondamento atomistico). Ma tra un sistema
meccanico e un principio esterno ad esso non si vede in
che modo si possa concepire altro rapporto che il mecca-
nico. Il sistema si potrebbe, tutt’al più, estendere, non
sorpassare.
In realtà, il motore immobile, guardato nel concetto
della funzione che egli adempie neH’aristotelismo, non è
altro che lo stesso movimento puro, distaccato da tutte
le sue forme empiriche, e concepito in sé. E si badi che
per movimento Aristotele intende non solo quello di
traslazione (oopà), ma anche quello del nascere e del
perire (yévscnp e <p0opà), e il variare di qualità (àXXoicoa^)
e il variare di quantità nel crescere e nel decrescere
e Di guisa che movimento per lui è
tutta la vita della natura, onde si succedono tutte le
forme nella materia prima, mera potenzialità della na-
tura. Quindi questo motore immobile è la vita stessa del
mondo separata dalla materia in cui si realizza: quella
vita per cui il mondo non solo vive, ma, individuandosi
nella gerarchia delle sue forme, diventa intelligibile (poiché
non si conoscono se non le forme delle cose, o quel che
le cose sono). È insomma la stessa realtà vivente e intel-
ligibile scissa da quel non-ente che è la materia della
natura: sicché per porre in sé questo Dio, bisogna vera-
mente annullare la natura, e ridurla a mera materia,
che non è più nulla; per trascendere il meccanismo, biso-
gna distruggere il meccanismo. Il che vuol dire che, vo-
lendo mantenerlo, non si può trascenderlo. Se infatti fosse
davvero constatabile empiricamente questo movimento,
che di grado in grado ci deve ricondurre al punto in cui
Dio imprime al mondo il movimento stesso, cotesto mo-
88
I. I PROBLEMI DELLA SCOLASTICA
vimento, oggetto di esperienza, non si potrebbe spiegare,
ragguagliandosi con un movimento di là dall’esperienza,
quale sarebbe Dio. Il movimento della materia non ha
che fare col movimento puro. La vita della natura esclude
la vita divina; e questa quella.
Come dunque Aristotele e dietro a lui Tommaso d’A-
quino credono di passare dalla natura a Dio ? Egli è che
non vedono nella natura se non Dio (la natura per loro è
appunto quello stesso movimento, che è l’essenza divina) ;
e quando han posto la natura, han posto, eo ipso, Dio.
Dio torna da capo ad essere un mero immediato, e non
un dimostrato; né più, né meno che nelTargomento onto-
logico: un per se notunt, malgrado la distinzione tomista.
12. La seconda via di Tommaso è un'altra formula-
zione della prima. Noi constatiamo, egli dice, in questo
mondo sensibile una serie di cause che costituisce un
ordine di cause efficienti, ciascuna effetto delle prece-
denti. (Il concetto di una causa sui pare a Tommaso
inconcepibile). Ma una serie di cause infinita è impossi-
bile; dunque, bisogna ammettere una causa prima, non
più effetto; e dessa è Dio. Ma poiché dire causa, per
Aristotele, e dire motore è il medesimo, poiché ogni effetto
si riduce in natura a movimento, con questa seconda prova
ci troviamo, in realtà, sulla stessa via della prima. E l’una
non può valere più dell’altra.
13. Equivalente all’una e all’altra può dirsi anche la
terza, esposta soltanto nella Somma teologica', la prova
che va dal contingente al necessario. Perché il contin-
gente in tanto postula una serie, che per non essere infi-
nita deve metter capo a un essere necessario, in quanto
esso ha la « sua esistenza, non da se stesso, dalla sua es-
senza, ma da una causa efficiente ». La serie degli esseri,
che si costruisce movendo dal concetto di un essere con-
ni. DIO K IL MONDO
89
tingente, è la serie delle sue cause, che rimonta a una
causa prima: la quale, se è prima, deve essere da sé, ed
essere perciò necessaria.
14. Rovesciate il meccanismo, e avrete il finalismo,
come l’intendono Aristotele e la filosofia scolastica. Movete
dall’effetto, come primo logico, alla causa come conse-
guenza, e Teffetto della causa efficiente diventa causa
finale di questa. La forma che realizza col moto la potenza
della materia è, dal punto di vista meccanico, effetto.
Ma, se si considera che quel movimento è destato dalla
forma, a cui la materia corrispondente aspira e che tende
a attuare, finché sia in privazione, la vera causa è appunto
questa forma generatrice del movimento, per cui la pri-
vazione sarà colmata, la potenza attuata, e la materia
formata. E per verità l’intuizione finale o sostanziale di
Aristotele è questo idealismo teleologico, onde l'idea di
sé asseta, suscita tutte le energie naturali, e la materia
s’impronta di tutte le forme eterne dell’essere, nella
concretezza della sua realtà. Il meccanismo è il mondo
veduto esternamente; il finalismo il mondo intravvisto
nella sua vita interiore. Ma, come il meccanismo postula
una causa motrice ed efficiente estrinseca, la quale riporta
perciò a una causa assoluta, che è causa prima, motore
immobile, essere necessario, la teleologia aristotelica, che
perciò ho detto un meccanismo capovolto, mantiene la
dualità, facendo la forma estrinseca alla materia trava-
gliata dalla privazione e il fine supremo esterno al mondo.
E da questo lato apparisce meglio la disperata situazione
della concezione scolastica dell’uomo (e in generale, della
natura, alla quale, secondo lei, l’uomo per se stesso ap-
partiene) rispetto a Dio.
Si ponga mente : da questo aspetto il mondo della espe-
rienza si presenta come una serie di gradi di perfezione.
Perfezione è l’essere delle cose: ossia le forme che esse
oo
I. I PROBLEMI DELLA SCOLASTICA
realizzano. Ora le cose sono più o meno perfette, ma nes-
suna è perfetta assolutamente; e, d’altra parte, non si
potrebbe parlare di più o meno se non per approssimazione
maggiore o minore deH’assoìuto del genere: bontà, bel-
lezza, unità, ecc. Non ci sarebbe quindi l’imperfetto, se
non ci fosse il perfetto.
È lo stesso argomento adoperato da Cartesio, per solle-
varsi dalla coscienza dell’ io imperfetto, perché dubitante,
alla idea di Dio. Ma, per Cartesio, afferrata questa idea,
non è dimostrata tuttavia l’esistenza di Dio, e però si
ricorre alla prova ontologica. Per Tommaso, come già,
del resto, per Agostino, per lo Pseudo-Dionigi, per An-
seimo stesso nel Monologio, per Avicenna, la via dall’ im-
perfetto al perfetto non è mera analisi di concetti, bensì
vero e proprio itinerario della mente a Dio. Ora, se il
perfetto è il fine, se il fine è causa, che genera i gradi
stessi della perfezione, tutto quel che di divino penetra
e risplende nell’universo, la dimostrazione di Dio per
questa ascensione su su per i gradi della perfezione è la
prova teleologica. E poiché questa teleologia è la stessa
meccanica delle cause motrici guardata dal basso in alto,
è facile intendere che questa prova, non meno delle pre-
cedenti, ci riporta a un Dio che, per esser lui, rende im-
possibile il mondo, e non può far essere o lasciar essere
questo senza rinunziare a se medesimo.
Infatti, se il fine, o valore, è quella limitata perfezione
propria delle cose imperfette, queste tendono a un tal
fine, e l’altro, tutto in sé perfetto, è vano e illusorio; se
questo, invece, è il vero fine, il primo non è fine, non vale,
e le cose non sono attualità di forme, non porgono nessuna
sembianza del divino, e tutta la natura, fuori della grazia
di Dio, miseranda o terribile valle di lagrime, non s’in-
tende più. La filosofia medievale, come Aristotele e come
Platone, non vede che il perfetto non si accresce anzi si
scema sottratto al suo limite; che, per esempio, la vita
III. DIO E IL MONDO' QI
immortale non ha davvero maggior pregio della mors
immortalis, di cui ci parla Lucrezio. Fatto il perfetto di
pura perfezione, si spogliava di ogni perfezione il mondo,
e si spezzava perciò la scala per montare sopra di esso,
a Dio.
15. La quinta via non è se non l’esplicazione della
teleologia della quarta: è quella prova fisico-teleologica,
che Kant disse degna di esser menzionata con rispetto
come « la più antica, la più chiara e la più adatta alla
■comune ragione umana » ; quella che « ravviva lo studio
della natura, come da esso ella medesima ha la sua esi-
stenza, e ne riceve sempre nuova forza »; quella che
« porta fini e scopi dove la nostra osservazione da sé
non li avrebbe scoperti, e amplia le nostre conoscenze
della natura al filo conduttore di una particolare unità,
il cui principio è fuori della natura », mentre « queste
conoscenze reagiscono sulla loro causa, e accrescono la
fede in un sommo Creatore fino a un’ irresistibile con-
vinzione » v Essa infatti è quella prova, a cui lo stesso
Kant s’ispirerà nella terza Critica per gettare il celebre
ponte tra il mondo della natura e quello dello spirito.
Tommaso d’Aquino la espone così2 : « La quinta via si
desume dal governo delle cose. Giacché noi vediamo che
le cose prive di cognizione, ossia i corpi della natura,
agiscono per un fine; il che si scorge da ciò, che sempre
o per lo più agiscono a un modo, per conseguire il meglio.
Donde è chiaro che non a caso, ma con intenzione per-
vengono al fine. Ma quelle cose che son prive di cogni-
zione, non tendono a un fine se non indirizzate da un
che conosce e ha intelligenza, come la saetta dall’arciere.
Ergo est aliquid intelligens, a quo omnes res naturales
ordinantur ad finem ; et hoc dicimus Deum ».
1 Crìtica della ragion pura, traci, ital., II2, p. 48S.
'■S. theol., I, q. 11, a. 3.
()2 I. I PROBLEMI DELLA SCOLASTICA
In questa prova veramente si concentrano, riassumono
e potenziano tutte le dimostrazioni precedenti: poiché il
fine era l’interpretazione più profonda della causa del
movimento, e cioè del movimento stesso: e poiché non
è possibile intendere altrimenti la causalità finale che
come attività dello spirito la quale s’indirizzi al fine
propostosi. Ma appunto perciò in questo supremo sforzo
fatto da Tommaso per seguire Fammonimento di Paolo
da lui ricordato 1 : Invisibilia Dei, per ea quae jacta sunt,
intellecta conspiciuntur, si aggroppano le difficoltà della sua
filosofìa; e non pure si scava l’abisso tra Dio e mondo,
ma si rovescia altresì ed atterra il concetto dell’uno e
quello dell’altro.
Qui Dio è al mondo quel che l’arciere alla saetta indi-
rizzata al segno. Prima che l’arciere la scocchi, la saetta
è: è con la sola potenza, non attuata, d’essere scoccata:
ma è quella appunto che può essere scoccata: già qualche
cosa di attuale, reale e determinato. E l’arciere è anch’egli
prima di saettare. Ciascuno è sé, e soltanto sé; e il loro
mutuo rapporto non è essenziale a nessun dì essi. Quindi
l’abisso che dicevo. Dio, che già come fine era fuori della
materia, e di ogni materia formata rispetto alla forma o
fine superiore, e quindi esteriore a tutta quanta la natura
rispetto ai momenti ulteriori della sua vita, in quanto
fine di se stesso, in quanto spirito che realizza se stesso
—■ che è appunto il concetto più profondo dello spirito,
lampeggiato al genio possente di Aristotele, dove definì
Dio vóyjoK vo-qatoìq (pensiero del pensiero) — questo
Dio non ha più ragione di realizzare il mondo, di governare
la natura di quel governo che è dirizzare al proprio essere,
al proprio atto: onde si raccoglie e rinchiude in sé, e sì
sequestra affatto dal mondo. Dove pertanto gl’ invisibilia
Dei non possono non restare eternamente invisibili, a 1
1 S. th., I, il, 2.
III. DIO E IL MONDO
93
senso c all’ intelletto, perché realmente assenti. Ma peggio
è che l’arciere, così concepito resta un arciere in partìbus,
senza una sola freccia da scagliare; e la freccia, senza
l’arciere, destinata a esser consumata dalla ruggine.
Il Dio solitario non ha più che farsi senza un mondo,
un mondo suo, da governare; e il mondo senza Dio s’an-
nichila in una privazione spaventevole del proprio essere.
16. Questo il costrutto intimo della filosofia intorno a
cui s’affaticarono i nostri avi qui a Santa Maria Novella,
a San Domenico a Napoli, a Santa Caterina a Pisa, per
le silenziose celle dei chiostri e per le affollate aule delle
scuole: un oscillare affannoso tra un Dio senza mondo, e
un mondo senza Dio, come tra una fede senza intelligenza
e un’ intelligenza senza fede. Chi piegava a destra e chi
a sinistra: ma l’anima di tutti, ancorché non punta da
dubbi consapevoli, era lacerata dagli opposti motivi della
speculazione; e le somme aggiungevansi alle somme, i
commenti ai commenti. Perciò lo spirito semplice, seb-
bene colto più che ordinariamente non si creda, di Jaco-
pone, gettava il grido pieno di trepidazione accorata:
Mal vedemmo Parisci
Ch’àne destrutto Ascisi;
Con la lor lettoria
Messo l’ò en mala via V
E si stringeva alla fede, che non cerca e non discute,
lieto e sicuro della mistica unione con Dio ottenuta me-
diante l’amore:
En quello cielo Empirò
Sì alto è quel che trova
Che non ne può dar prova
Né con lengua narrare;
1 Laude, XXXI.
94
1. I PROBLEMI DELLA SCOLASTICA
E molto più m'amiro
Como sì se renova
En fermezza sì nova
Che non può figurare ;
E già non può errare
Cadere en tenebria.
Ea notte è fatta dìa,
Defetto grand’è amore 1.
17. Tommaso d’Aquino, il maestro più solenne e più
seguito, che a Dio filosoficamente non presumeva di
salire se non dalla esperienza, e che poteva perciò, in
quanto filosofo, rinunziare a Dio, ma non al mondo, egli
che nella Somma contro i gentili (11, 4) dice: prima est
consideratio de crcaturis et ultima de Deo; quando si pro-
pone la questione più importante del rapporto di Dio col
mondo, vi dà netta una soluzione che, a rigore, è la nega-
zione di Dio, e il crollo di quel mondo, che era concepito
derivante da Dio tutto il proprio essere. Tutte le sue
prove dell’esistenza di Dio, come s’è veduto, si fondano
sulla finità della serie dei movimenti delle cause, e in
generale degli atti, e sulla necessità conseguente di un
primo atto: atto divino, creatore ex nihtto o (come san
Tommaso preferisce) post nihilum. Questo primo atto o
atto creativo, posto a capo della serie degli atti che av-
vengono in tempo, dovrebbe esso stesso avvenire in tempo,
e segnare un vero « cominciamento » del mondo ; e per
esso l’atto eterno entrerebbe nel tempo. Averroè, negando
la creazione, aveva, come già Aristotele, posto il mondo
coeterno a Dio; a Dio, che è forma, coeterna la materia:
la quale, non potendosi pensare sussistente allo stato di
pura materia o pura potenza non tradotta in atto, si
deve concepire ab eterno investita dalla forma, come
mondo. Tommaso d’Aquino riprese sette volte questa
1 Laude, XCI.
III. DIO E IL MONDO
95
questione; ed egli, che, come vedremo in quest’altra
lezione, per un altro problema capitale della filosofia
aristotelica, aveva strenuamente combattuto e vinto l'au-
tore del Gran Commento, — di cui, per altro, oggi è
riconosciuta la grande efficacia esercitata sull’ insigne do-
menicano — in questa questione stette risolutamente con
l’avversario contro i murmurantes del tempo suo, asse-
rendo: dicendum quod nvundum non semfter fuisse, sola
fide tenetur, et demonstrative probari non potest Ardita
posizione, che molti de’ numerosi seguaci hanno zelante-
mente rigettata, molti han cercato abbuiare con accorte
distinzioni; e qualcuno1 2, di recente, desideroso di vedere
in Tommaso non pur il più grande filosofo cattolico, ma
anche uno dei più liberi pensatori e dei più vicini al pen-
siero moderno, ha cercato d’interpretare in modo affatto
conforme al pensiero di Kant.
Secondo Kant, come ognuno ricorda, se Dio si può
definire il fondamento trascendentale della possibilità
della serie sensibile in generale, niente impedisce la con-
tingenza illimitata di questa serie e il regresso infinito
delle sue condizioni empiriche. Di guisa che non si do-
vrebbe parlare propriamente di eternità del mondo, sib-
bene soltanto d’indeterminazione della sua durata, di
rifiuto a considerare questa durata come un tutto o pro-
cesso chiuso entro termini fissi, anziché come un circolo,
dove non c’è ragione di supporre un principio né un fine.
Ma è, o mi pare evidente, che il carattere ciclico delle
cause, o degli atti, che costituiscono il mondo, non per-
metterebbe mai l’inserzione deìl’atto puro o causa prima:
perché non vi sarebbe mai luogo a un primo. E allora,
dove se ne andrebbe Dio ? Il raccostamento delle vedute
kantiane al tomismo è del tutto sbagliato; perché il
1 S. ih., 1, q. XLVI, a. 2.
2 Sertillanges, I, 282 sgg. e il suo opuscolo La preuve de l’existence
de Dieu et l’éternité du monde, Paris, 1897.
C)6 r. i PROBLEMI DELLA SCOLASTICA
trascendentale di Kant è in un mondo incommensurabile
con quello empirico delle contingenze. Laddove per Tom-
maso d’Aquino la forma pura sta sullo stesso piano,
benché al limite, delle forme conosciute attraverso l’espe-
rienza, che son forme ideali.
Vero è che, data la logica aristotelica del rapporto tra
materia e forma, non era possibile raggiungere speculati-
vamente, nel tempo o fuori del tempo, un Dio non creante,
una forma che dovesse generare dal proprio seno il mondo.
Quindi la creazione, che può concepire Tommaso, è eterna.
Eterno perciò il mondo: che è come dire un mondo, al
quale è essenziale l’essere, e la dipendenza da Dio è vo-
luta, non pensata. La contingenza diventa necessità, e
Dio, motore estrinseco del mondo, vien meno. E 1’ inten-
dimento dell'opera del creatore non lascia più intendere
il creatore.
Sì che la vera conclusione di Tommaso, da ultimo, è
non il credo ut intelligam; ma: non credo ut ìntelligam, o
non intelligo ut credam. E però quando Virgilio, ombra
silenziosa e quasi inavvertita, ha seguito Dante per la
« selva antica » del paradiso terrestre, e con lui risalito il
corso del Lete, e con lui ammirata, « con vista carca di
stupor non meno », la mistica processione rappresentante
il trionfo della Chiesa; quando Dante è al cospetto della
sapienza che è impartita dalle tre sante virtù, —
Sopra candido vel cinta d’oliva
Donna m’apparve, sotto verde manto,
Vestita di color di fiamma viva, —
di Beatrice, 1’ « alta virtù », la potenza rivelatrice della
verità superiore e datrice deirultima salute: allora Dante
si volge a sinistra a cercar di Virgilio:
Ma Virgilio n’avea lasciati scemi
Di sé, Virgilio, dolcissimo padre,
Virgilio, a cui per mia salute die’ mi.
IV
IV INTELLETTO UMANO
i. Vi sono due modi d'intendere la conoscenza, poiché
la conoscenza ha due lati, e come due centri, intorno a
cui si polarizza. È oggetto ed è soggetto: e noi diciamo
conoscenza quella che si conosce e quella con cui si cono-
sce. Così la conoscenza sensibile, così la conoscenza intel-
lettuale o razionale; così l'intuizione, così il giudizio;
così sempre che si celebri un atto di coscienza, e qualche
cosa si pone innanzi a un principio conoscitivo, a un sog-
getto. La coscienza appunto è quest’attività distintrice
dell’ uno, o sintetica a priori, come si dice kantianamente:
la quale fa sì che un soggetto non si ponga senza porre
di contro a sé un oggetto, né si trovi posto un oggetto,
che non presupponga il suo soggetto. LTn termine non può
stare senza l’altro; e son sempre due, stretti da un vin-
colo indissolubile.
Da questa duplicità di aspetti nasce la possibilità di
guardare nella conoscenza or l’oggetto conosciuto, ora
il soggetto conoscente; ora la verità, la scienza o conte-
nuto della scienza, nella sua logica e assoluta necessità
interna, ora la mente che con la verità si mette in rela-
zione e la conosce, e par che possa anche non entrare
in questa relazione, o entrarvi solo parzialmente. Questa
duplice apparenza è confortata da due esperienze, che si
presentano come inoppugnabili: l’errore, che è afferma-
7. — Gkxtii.e, I problemi della scola ubica.
t)8 1. I PROBLEMI DELLA SCOLASTICA
zione del non-essere dell’oggetto, e 1' ignoranza, che è
affermazione del non-essere del soggetto. Concetti tutt’al-
tro che chiari, ma che si ritiene comunemente innegabili
senza cancellare o, che è lo stesso, senza rendere affatto
inintelligibile la libertà del rapporto, in cui la mente entra
con la verità mediante la conoscenza. O come si spieghe-
rebbe altrimenti il valore che si attribuisce alla conoscenza
vera ? Questo valore è la legge che obbliga la nostra mente
a correggere gli errori ; questo valore sforza ogni spirito a
liberarsi dall’ ignoranza, e a conquistare la verità. La
mente perciò dev’esser capace di conoscere l’oggetto, ma
non essere necessariamente, per la sua stessa natura,
conoscenza dell’oggetto. Lo scolaro deve salire all’altezza
del maestro; ma fate che siano entrambi sullo stesso piano,
e la scuola diventa inconcepibile. Lo spirito si sviluppa
nella progressiva conoscenza del vero; ma fate che questo
vero sia lo stesso spirito, o comunque immanente alla
natura stessa dello spirito ; e ne renderete incomprensibile
lo sviluppo, attestatoci incontestabilmente dalla espe-
rienza.
Questo sviluppo inteso come movimento del soggetto
verso la verità importa dunque una netta, rigorosa, asso-
luta distinzione tra chi conosce e quello che egli conosce;
per guisa che il valore stia tutto in un termine, e manchi
del tutto all’altro. Il quale potrà partecipare del valore,
conformandosi a.1 primo, e sarà pertanto non più se stesso,
puramente e assolutamente, ma se stesso con qualche
cosa di quel primo termine così nettamente distinto e
diverso da lui. àia è evidente che il soggetto senza valore
è soggetto irreale ; perché se valore è l’oggetto conosciuto
o la conoscenza dell’oggetto, il soggetto si può concepire
destituito di valore solo in quanto si vuota di ogni cono-
scenza, e si fa soggetto che non conosce: come dire, sog-
getto che non è soggetto; poiché soggetto è termine di
di questa relazione detta conoscenza, la quale, cadendo
IV. l' intelletto umano
99
essa, fa cadere necessariamente i suoi termini. E in fine,
quella distinzione che si è detta, la quale contrappone
l’oggetto al soggetto, conduce all’annullamento del sog-
getto. In altri termini, se la conoscenza dovesse essere
conoscenza perfetta, come ordinariamente s’intende, cioè
tutta positiva, senza macula di errore e di ignoranza, la
conoscenza non per anco così perfetta, e che è la cono-
scenza umana, storica, non sarebbe conoscenza. Conse-
guenza manifestamente assurda, perché essa stessa atto
di conoscenza: atto di conoscenza che negherebbe la pos-
sibilità d’ogni atto di conoscenza.
Questa la tendenza implicita nel platonismo: filosofia
creata appunto dal senso profondo della opposizione del-
l’oggetto al soggetto della cognizione ideológicamente con-
cepita.
Quindi la conoscenza vagheggiata da esso platonismo,
dico la conoscenza vera, la sola che si possa dire vera-
mente conoscenza, non è propriamente la conoscenza
considerata come attività del soggetto, ma come l’oggetto
o il fine di quest’attività: la conoscenza oggettiva, a cui
la nostra deve al possibile accostarsi, conformarsi, ade-
guarsi. È, per così dire, una logica senza psicologia.
E diede luogo infatti, come ho osservato altra volta,
alla logica aristotelica, che è appunto una logica inconci-
liabile o incommensurabile con la psicologia intesa come
vita soggettiva della scienza.
2. L’altro modo, che dicevo, d’intendere la conoscenza
non balenò mai alla mente dei filosofi greci, e né anche
ad Aristotele, che lo ebbe quasi innanzi agli occhi, ma
non lo guardò, non lo vide, preoccupato com’era degl’ in-
convenienti derivanti dall’ idealismo del maestro. Quest’al-
tro modo si fonda, invece, sull’ intuizione della conoscenza,
non dal lato dell’ oggetto, che ne è il contenuto, ma dal
lato del soggetto, che ne è la forma; e non vede più nel
IOO
I. I PROBLEMI DELLA SCOLASTICA
conoscere un movimento del soggetto verso l’oggetto, anzi
di questo verso di quello. Non è più il pensiero che si
espande nell’essere, quasi fosse altro dall’essere, e però
non-essere; ma è l’essere che si concentra tutto nel pen-
siero, il quale diventa allora il potenziamento e la rea-
lizzazione dell’essere stesso.
Ouest’aìtra situazione della conoscenza, che si può dire
kantiana, perché in Kant pervenne alla coscienza critica
della rivoluzione che esigeva nella logica del mondo, ha
questo di proprio: che s’accorge dell’astrattezza della
conoscenza che è oggetto, e soggetto solo in quanto og-
getto, o più semplicemente dell’oggetto in quanto tale.
Nella nuova intuizione c’è questo di nuovo: che nel
pensato si vede il pensato del pensante, o, più semplice-
mente e rigorosamente, la determinatezza del pensiero
attuale.
Kant questo lo disse in una forma piena di contraddi-
zioni. Disse che l’appercezione originaria, 1’ « Io penso »
è la forma di ogni conoscenza. Ciò che importava che
soltanto nell’appercezione dell' « Io penso » bisognava
cercare quei giudizi, in cui egli pur giustamente fece con-
sistere tutto il pensiero; e che pertanto non fosse più da
parlare di giudizi che non fossero atti dell’ Io: forme
dell’ « Io penso ». Invece, tutta l’Analitica trascendentale
si può dire analisi di un pensiero che è bensì pensato o
pensabile, ma non è punto Io, o atto dell’ Io. Infatti,
per addurre solo un esempio, che significato potrebbe
avere la classificazione dei giudizi e quindi la tavola delle
categorie che Kant espone in questa parte della Critica,
se i giudizi si considerassero come atti del pensiero, invece
die astrattamente, in se stessi, al modo stesso della logica
aristotelica ? Come si può distinguere, poniamo, il giu-
dizio apodittico dal problematico se noi guardiamo, anzi
che alla materia dei due giudizi, all’atto positivo per cui
quella presunta materia si pone nel suo organismo di
IV. L* INTELLETTO UMANO
] O J
pensiero ? La problematicità del giudizio problematico
non è pensata con un atto di pensiero apodittico, al pari
del giudizio apodittico ? La categoria kantiana nasce bensì
come una funzione trascendentale rispetto al giudizio
pensato — che è l’oggetto della logica aristotelica, —
ma si deduce poi dal concetto dei giudizi pensati: i quali
sono fatti, e non atti del pensiero.
Ma, nonostante queste incertezze di esecuzione, il pen-
siero fondamentale di Kant in sostanza è appunto questo
riassorbimento del pensato nel pensante: questo fare del
pensiero non più un atto soggettivo, opposto all’essere
dell’oggetto, bensì l’atto costitutivo di questo essere stesso:
e vedere il pensiero come atto essenziale dell’ Io.
E mi sia consentito anche di ricordare che questo con-
cetto era preparato in tutta la filosofia moderna da Ba-
cone e Cartesio. La nuova logica del primo ha infatti
questo significato speculativo: che il pensiero non è espli-
cazione immanente di principii dati, di cui lo spirito sia
spettatore, ma conquista graduale ed attiva dell’uomo.
E il « penso, dunque sono » del secondo ha il merito gran-
dissimo di vedere, per la prima volta, un essere, e perciò
l’essere, nel pensiero, e nel pensiero in atto. Il monismo
spino zi a no e il monadismo leibniziano mirano
egualmente a questa intrinsecazione dell’oggetto nel sog-
getto. L’empirismo inglese (da Hobbes a Locke e
Berkeley) ò tutto idealismo, che finisce nello scet-
ticismo (Hume) perché inseguito alle spalle dal fantasma
del vecchio oggetto. In questa nuova posizione, non più
abbandonata e sempre più chiaramente precisata negli
ultimi tre secoli del pensiero europeo, la distinzione, es-
senziale e indelebile, dell’oggetto e del soggetto, è con-
servata, ma come distinzione intima all’unità egualmente
essenziale e indelebile del soggetto; e lo sviluppo vien
concepito non più come movimento del soggetto verso
l’oggetto, ma come incremento autonomo e interiore del
102
T. I PROBLEMI DELLA SCOLASTICA
soggetto: la cui vita, distinzione eterna della sua eterna
unità, diventa la fonte inesauribile dei valori sempre nuovi
che per essa si vengono realizzando* Il mondo trova il
suo vero centro, e gravitando intorno ad esso, si libra
nel suo vero essere, voglio dire in quell’essere suo, che
riesce logicamente pensabile.
Oggi tutti sentiamo questa intimità del mondo, che
desta la nostra fede pratica o teoretica, religiosa o filoso-
fica. Sentiamo tutti che non c'è valore che s' imponga dal
di fuori allo spirito, e che il bene è tale in quanto creato
o riconosciuto da ima volontà; e che Dio, come si dice,
non si lascia trovare se non da chi lo cerca, e lo ha per-
ciò in certo modo trovato; e che l’anima insomma, come
disse l’antico, non è vaso da riempire, ma fiamma da
accendere. Dove non è davvero pericolo d’idealismo sog-
gettivo, di scetticismo, di solipsismo e simili impotenze,
perché questa, che io mi compiaccio di chiamare filo-
sofia moderna, non vede il soggetto come puro sog-
getto che deve accostarsi, conformarsi, adeguarsi all’oggetto
esterno, ma tiene invece per fermo che il soggetto sia da
intendere come qualcosa profondamente diverso dal vec-
chio soggetto: atto creatore della realtà.
3. Ora, come dicevo, Aristotele questo pensiero che è
pensato in quanto pensante, atto e non fatto dello spirito,
non lo vide; e non lo poteva vedere, perché in realtà il
pensiero a cui egli aveva l’occhio, era quell’ idea che Pla-
tone, dopo gli sforzi fatti da Socrate per liberare il con-
cetto, o la conoscenza che ha un valore costante e uni-
versale, dal soggettivismo naturalistico di Protagora, era
stato indotto a porre come mera assoluta oggettività.
Se non che di contro a Platone, Aristotele ha il gran
merito d’avere in certo modo fatto scendere l’idea dal
cielo in terra, convertendola nella forma che fa tutt’uno
con la materia (non-ente di Platone) in ciascun individuo
IV. L INTKLLKTTO UMANO
№3
delia natura, che è per Aristotele la vera sostanza; e di
avere quindi reso possibile una teoria della conoscenza,
come sviluppo dell'anima in rapporto alla natura, arric-
chita degl’ intelligibili, una volta sequestrati nel mondo
iper uranio.
Nel De anima di Aristotele noi abbiamo due profonde
dottrine, che se non ci fanno tuttavia penetrare nella
vera natura dello spirito, ci conducono quasi alla soglia
di esso e ce ne fanno lampeggiare meravigliosamente gli
aspetti più caratteristici. La sensazione di Aristotele è,
com’egli dice, la stessa cosa naturale, la stessa sostanza
individuale, smaterializzata (àveu L'attività del
sensibile e la passività del senziente coincidono in un solo
atto guardato da due aspetti diversi, ma immoltiplicabile.
La forma, onde il sensorio viene investito in una data
sensazione, per cui vede, per esempio, un colore, è la stessa
forma della cosa colorata, dispiccatasi dalla propria ma-
teria, per unirsi alla nuova materia, che è la capacità,
la potenza del sensorio.
Il concetto infatti, con cui Aristotele sargomenta di
vincere l’astrattezza dell' idea platonica, è questo del
rapporto tra materia e forma, come rapporto di potenza
e atto. Ogni idea, ogni forma, con cui intendiamo l’essere,
sempre universalizzandolo, fa che la cosa sia quello che
è; ossia la realizza nelbesser suo, di cui, prima, non può
essere se non la potenzialità, il soggetto (u7roxsig£vov)
sul quale si dovrà imprimere il suggello della forma.
Prendete qualunque essere attualmente esistente. Vi pre-
senterà sempre questi due aspetti; sarà qualche cosa, ciò
appunto per cui potrete pensarlo e parlarne, checché ne
pensiate e diciate (forma) ; e sarà un quid per sé impensabile
e ineffabile, ma subbietto eli tutte le qualità in cui la
cosa stessa vi si presenta (materia). Che se voi non racco-
gliete in uno tutte le qualità di cui l’essere è rivestito,
ma ne assumete soltanto quella che ne costituisce la
104
I. I PROBLEMI DELLA SCOLASTICA
differenza specifica, e poi dividete idealmente il subbietto
materiale da questa qualità caratteristica, allora quel-
l’essere non vi apparirà più nella sua inescogitabile astrat-
tezza, perché fornito tuttavia di tutte le sue qualità
generiche; ma queste gii manterranno il carattere di pura
materia aspettante ancora l’atto realizzatore della forma,
che è la natura sua; e, rispetto a questa, l’essere rimarrà
qualcosa ancora meramente potenziale e anteriore alla
realtà effettuale. La natura perciò ad Aristotele potrà
rappresentarsi come una gerarchia di forme, o una serie
di gradi, ciascuno dei quali per sé è atto o materia già
formata, ma semplice potenza rispetto al grado supe-
riore.
E nella natura c’è l’uomo che, come tutti gli altri esseri
della natura, è materia ed è forma. La sua forma specifica
è ragione, o intelletto, come i nostri scolastici tradussero
il vouc aristotelico, àia questa forma presuppone il senso;
e questo presuppone la vita organica o vegetativa; come
questo, a sua volta, presuppone il movimento. E l’uomo
non può esser ragione, senz’essere meccanismo, organismo
e senso: senza assumere in sé tutti i gradi inferiori della
natura e riprodurre in un microcosmo tutta la vita del
macrocosmo.
4. Orbene, le forme delle cose sensibili, essendo for-
me del senso, sono fine del senso: il quale, essendone
in privazione, portato com’ è dalla sua stessa natura a
compiere la propria realtà, è attirato verso di quelle;
e come senso veramente si attua in quanto accoglie in
sé, per la disposizione prossima conferitagli dallo sviluppo
della vita vegetativa, coteste forme. Le quali, diventate
pertanto passioni del senso, non sono lasciate li, quasi
accadimenti fisici che si compiano in se stessi: perché,
secondo Aristotele, il senso non può essere senso della
cosa {immateriale, beninteso) senza essere senso di se
IV. L’ INTELLETTO UMANO
IO5
stesso. Non si vede, egli dice, soltanto il colore, ma si
vede lo stesso vedere il colore, con uno e medesimo atto:
perché, se chi vedesse il vedere fosse altro da chi vede
il colore, il secondo vedere ne presupporrebbe un terzo,
e si andrebbe all’ infinito. La sensazione si realizza come
coscienza di se medesima, o percezione. Ma, se noi sen-
tiamo il nostro sentire, e solo attraverso di esso le qua-
lità delle cose, questo non toglie che la relazione del sen-
tire nostro a noi non sia del tutto conforme a quella
della qualità esterna al nostro senso. Il che vuol dire
che, per intrinsecare che faccia Aristotele — ripetuto
poi da Averroè, come da Tommaso, e in generale dagli
scolastici del sec. XIII — l’oggetto nel soggetto, l’at-
tività che compie tale intrinsecazione, non è del soggetto,
ma dell’oggetto. Come la forma sensibile, investendo il
sensorio, genera la sensazione, di cui il sensorio, quan-
tunque già disposto, senza la causalità dell’opposta for-
ma sensibile, sarebbe affatto incapace; così la percet-
tibilità della forma sensibile genera la percezione della
sensazione. E tutto quello che avviene nel senso non è
processo soggettivo, ma, appunto, oggettivo.
5. Altrettanto accade per l’intelletto, quando si ap-
prendono le forme, non più individuali, ma comuni,
generiche, universali; giacché, in fondo, per Aristotele le
stesse forme individuali sono universali. L’intelletto è
la facoltà dell’universale; e poiché tutta la realtà reca
l’impronta di esso, niente essendovi che non sia forma,
la scienza non può essere se non degli universali. E se
il senso, come potenza dell’ intelletto, è un grado del-
l’intelletto stesso, nel quale trova la propria concretezza;
l’intelletto è intelletto in quanto è investito degli uni-
versali ; perciò non è l’atto della scienza, ma
è la scienza. La scienza, si badi perfetta, in sé in-
T. I PROBLEMI DELLA SCOLASTICA
IOf>
tensive ed extensive, come da Dante e da Galileo 1 s’ im-
magina che possa essere quella di Dio. Sciagurata scienza,
in verità, che toglierebbe a chi la possedesse la vita ; poi-
ché questa non si può concepire se non come un continuo
morire del presente, una continua conquista di esser
nuovo, un pensare il proprio pensiero e perciò uscire da
esso, sovrapponisi, superarlo con slancio continuamente
vittorioso verso forme più alte.
L’ intelletto, dunque, nella dottrina aristotelica è lo
stesso intelligibile, non in quanto potenzialità di essere
inteso, sì nell’atto deìl'essere inteso. La scienza teoretica
in atto, dice Aristitele, è identica con l’oggetto suo.
Della scienza invero, nel senso aristotelico, si può par-
lare in due modi; ora intendendo la scienza di chi sa,
perché ha imparato, ma non intende attualmente; ed
è la scienza che scende nello scienziato dal grado di atto
a quello di potenza, conferendo all’individuo quell’at-
titudine, per cui, occorrendo, egli potrà attuare la scienza
sua, dandone prova; ora intendendo invece la scienza
nell’atto stesso in cui s accende quasi nell’ intelligenza,
dove, come si diceva, scienza e oggetto della scienza,
etuced e-vtttjTÓv, sono inumi et idem. Concetto pro-
fondo ed immortale per un aspetto: perchè sarà sempre
vero che tutta l’individualità empirica dell’ individuo e
tutte quelle determinazioni che empiricamente o prati-
camente fanno del soggetto un soggetto che non è oggetto,
ed è soggetto a cui si contrappongono altri soggetti, sì
dileguano in quel punto in cui l’intelletto intende, e
insomma lo spirito si realizza nella sua teoreticità, iden-
tificandosi e unificandosi col suo oggetto universale ed
eterno: universale ed eterno in quel l’atto, benché la
filosofìa antica non se ne sia accorta, anche quando questo
Dialogo dei massimi sistemi, in Opere, ed. naz., voi. VII, p. 127.
TV. l' intelletto umano
ro7
oggetto sia, a guardarlo in sé, astrattamente, sensibile,
particolare, contingente e temporaneo.
Ma questa unificazione di stvotyp.?; ed ¿ttlctttjtov nella gno-
seologia aristotelica non è veramente l’unificazione di due
termini, non è processo per cui il soggetto si fa oggetto.
In quella concezione non c’ è modo di pensare nulla di
simile. Come s’ è avvertito pel senso (che è poi un intelletto
non consapevole della propria universalità) un vero pro-
cesso soggettivo non c’ è né anche nell’ intelletto. La
scienza, che non sia l’oggetto suo, non è concepibile; e
la scienza dell’uomo in quanto scienza, è lo stesso pen-
siero in sé (l’oggetto) penetrato per suo proprio moto,
come causalità finale, nella mente dell’uomo. E se l’uomo
solo ne è capace, la sua capacità non è nulla di suo e
che egli si sia conquistato; ma è la conseguenza della
evoluzione precedente della natura, realizzatasi sempre,
a grado a grado, per l’intervento di una forma supe-
riore,
6. Egli è che nella filosofia antica, mancando il con-
cetto dello spirito, deve necessariamente mancare non
pure il concetto dell’attività dello spirito, come mo-
mento essenziale di quella parte della realtà — se non
si vuol dire di tutta la realtà — che è pensiero ; ma anche
il concetto dell’ individuo come centro autonomo, a
priori, dell’attività, e cioè del reale, poiché un tale in-
individuo non può essere altro che spirito. Proprio così:
Aristotele stesso, che contro Platone afferma la realtà
dell’ individuo, di quell’ individuo che, legando inscin-
dibilmente l'idea al suo opposto, vuol essere la nega-
zione della trascendenza platonica; Aristotele, essendo ri-
masto immerso anche lui in quel mondo astratto del pen-
siero volgare, che è l’oggetto del pensiero, astratto dal
soggetto pensante, non può, malgrado tutto il suo buon
volere, raggiungere questo individuo. E non può raggiun-
1. 1 PROBLEMI DELLA SCOLASTICA
io.8
gerle per la stessa ragione per cui non può raggiungere
l’intelletto; e, toccando i termini del pensabile dal punto
di vista a cui si collocò il pensiero antico e a cui è sempre
rimasto e rimarrà sempre legato il pensiero volgare, legò
alla filosofìa medievale —- che ò pur sempre la filosofia
di tanti intorno a noi — problemi gravissimi, tormentosi,
insolubili.
La posizione aristotelica — e parlandovi di essa nel
modo che ho fatto, ho creduto di porvi innanzi la situa-
zione fondamentale della scolastica, che fu in gran parte,
non bisogna dimenticarlo, commento di Aristotele - •
si può designare in breve così: la realtà è astratta uni-
versalità, senza particolarità, e quindi senza individuo;
e la filosofia sente il difetto di questa realtà, scoperta
da Platone, e cerea 1’ individuo. Il bisogno dell’ indi-
viduazione del reale è il grande motivo del filosofare
aristotelico, e la ragione più profonda delle simpatie che
i più acuti pensatori cristiani della scolastica ebbero
per la sua dottrina; poiché il cristianesimo fu ravviva-
mento energico del senso dello spirito, e lo spirito
esso solo — è individuo; sì che spogliato della indivi-
dualità svapora nell’universalità dell’essere, coni’ è fan-
tasticato dall’ eleatismo e da ogni sorta di realismo. Nella
speculazione dell' individuo, insufficiente per i prin-
cipii da cui moveva, ma meravigliosamente penetrante,
la scolastica a fin di conquistare il pensiero del reale fa
l’estremo di sua possa per opera del nostro grande Tom-
maso d’ Aquino.
Oggi noi sappiamo che l’individualità non si cerca
nella natura, perché la natura non si può concepire senza
spazio; né lo spazio si può concepire senza quella mol-
teplicità essenziale che è la negazione dell’ individuo. Non
si cerca nella natura, perché la natura, pura natura non spiri-
tualizzata, è meccanismo, e l’individuo dev’essere sé, e
da sé, vera sostanza, autonomia, libertà. Oggi sappiamo
IV. là INTELLETTO UMANO
T09
che il motivo stesso della critica mossa da Aristotele a
Platone, il bisogno di individuare l'universale, conduce
propriamente a rifiutare la natura come forma assoluta
del reale, a porre nello spirito la realtà, di cui sia possi-
bile un concetto assoluto, o un concetto filosofico, di
quella filosofia, che Herbart sapientemente definiva sa-
pere scevro di contraddizioni.
Ma, per la filosofia aristotelica e scolastica, 1’ individuo
era appunto la natura; ed era l’uomo in quanto essere
naturale, e lo spirito in quanto anima di quest’uomo.
L’individuazione era veduta nel momento della estrin-
seca moltiplicazione. Giacché c’ è una moltiplicazione an-
che nello spirito, come c’ è una natura anche nello spirito;
e dell’una e dell’altra lo spiritualista, o meglio l’idea-
lista moderno non ha motivo di adombrarsi. La mol-
tiplicazione esterna è, come tale, prima dell’unità, e
questa unità non si vede donde possa nascere; perché
è infatti la natura staccata dallo spirito, e fissata come
natura: quella varietà sconfinata, quella serie indefinita
di fenomeni (cause ed effetti), che lo spirito si trova
innanzi in quanto tale, e che perciò non può concepire
se non come varietà originaria e serie inesauribile. La
moltiplicazione interna, invece, suppone l’uno che si mol-
tiplica, ed è questo uno che non si può moltiplicare senza
riaffermare sempre la propria unità (salvo che in quella
fantastica psicologia herbartiana o in quell’altra non meno
fantastica degli associazionisti, che è pur sempre gover-
nata dal postulato imprescindibile dell’unità).
Come spirito, noi siamo sempre diversi; ma questa
diversità costituisce appunto la nostra individua per-
sonalità. La biografia di un poeta è molteplicità succes-
siva di stati d’anima, a quasi perciò di anime; la quale
molteplicità è però tutta raccolta, unificata e più o meno
perfettamente fusa nella sua assolutissima individualità:
in quell’atto reale dell’anima del poeta, che è la sua poesia.
I IO
i. I PROBLEMI DELLA SCOLASTICA
7. La moltiplicazione del reale, in cui l’antico, adun-
que, vedeva gl' individui e l’individuo, è la moltiplica-
zione esterna, spaziale, generatrice della molteplicità che
è esclusione dell’unità, e che noi diciamo natura. E lì
infatti si scorge un certo lontano aspetto dell’ indivi-
dualità: ma coglierlo poi col pensiero, concepirlo logica-
mente, questo doveva essere il difficile. E fu la celebre
questione scolastica del principium indivi dilationis, una
delle pietre di paragone della filosofia del sec. XIII: uno
di quei problemi, la cui diversa soluzione divise in due
schiere antagoniste i filosofi di quel periodo, e rimase,
sto per dire, pietra di scandalo, nei secoli successivi, tra
tomisti e scotisti.
Aristotele aveva esplicitamente detto nel libro settimo
della Metafìsica (p. 1020 a 30), che la sostanza è poste-
riore ai due principii da cui risulta, materia e forma.
Ora, per chi consideri l’origine storica della metafisica
aristotelica, ammessa la questione: di questi due prin-
cipii, qual è universale e quale individuante ? — non è
dubbio, che la forma, dallo stesso Aristotele detta tal-
volta zlSoq, come Platone chiamava il suo universale,
dovesse ritenersi per realtà, che spetti quindi alla me-
teria di individuare. Ma né Aristotele s’era apertamente
proposto la questione; né è arbitrario argomentare che
egli non avrebbe dovuto né potuto proporsela. Perché
se è vero che la sua forma è la stessa idea plato-
nica, è anche vero che essa ha rinunziato alla aseità,
a quella pretesa di essere per sé, propria dell’idea: e
nella positiva logica dell’aristotelismo non c’ è forma, che,
per sé universale, s’individui pel suo nesso con la materia,
il nesso è originario, essenziale, eterno: la forma è quasi
in se stessa materia. Di modo che né propriamente la
materia individua la forma, né questa quella: ma il loro
nesso inscindibile è piuttosto il principio dell’ individua-
zione. Per altro, né anche questo Aristotele disse in modo
IV. l' intelletto umano rii
esplicito; e certamente né anche lo vide chiaro. Non
foss’altro lo dimostra il luogo citato della Metafisica, dove
il rapporto tra materia e forma, da cui nasce la sostanza
è fatto posteriore (logicamente, s’intende) alla dualità
dei due termini. Quindi il problema scolastico.
Ora, se si considera che tutte le determinazioni della
realtà sono forma, e che ogni cosa singola è, in quanto
determinata fino a quell'essere hic et mine che lo Scoto
disse haecceitas, che fa che la cosa esista perfetta nell'esser
suo, apparirà evidente che il principio individuante sarà
la forma che realizzerà nel vasto seno indifferente della
materia una cosa facendole contrarre una specie deter-
minata. Ma se, viceversa, si consideri che le determinazioni
come tali sono astratte, riscontrabili in più individui, sì
che l'effettualità loro riesca possibile pel calarsi che esse
fanno nella materia non comunicabile né spazialmente
né temporalmente, il principio dell’ individuazione con-
sisterà allora nella materia. Giovanni Duns Scoto (m.
1308) francescano s’appigliò alla prima soluzione, e il
domenicano Tommaso d’Aquino alla seconda; e la di-
scussione dai maestri passo ai discepoli, e rimase patri-
monio secolare nelle scuole dei frati dei due ordini in
gara.
Erano, se ben si riflette, due opposte intuizioni del
mondo: perché, movendo dal concetto aristotelico che
la sostanza è individuo, se l'individualità è forma o
idea, il mondo, nella molteplicità stessa de’ suoi indi-
vidui, si idealizza; e se è materia, la realtà stessa delle
forme ideali si materializza, si avvince al tempo e allo
spazio, al mondo delia generazione e corruzione, alla na-
tura oggetto della esperienza sensibile. 0 tutto è idea,
0 niente è idea. Che è come dire, nel linguaggio cristiano:
o tutto è Dio, o tutto è mondo. Il mondo, in cui Aristo-
tele avea cercato mediante l’individuo di unificare 1’ idea
di Platone e gli atomi di Democrito, si scindeva in se
I 12
I. I PROBLEMI DELLA SCOLASTICA
stesso, e imponeva al pensatore cristiano, che sentiva
il bisogno di concepire e Dio e il mondo (la realtà plato-
nica e la democritea) in una connessione essenziale, il
problema terribile: come instaurare l’unità ?
8. Giovanni Duns, agostineggiante, indietreggiò a Pla-
tone. Con quella sua sottigliezza, che passò in proverbio,
distinse in ogni cosa individuale tre materie, quasi tre
gradi d’indeterminazione, che vengano approssiman-
dosi alla possibilità della determinazione; la quale avrà
luogo da ultimo per opera della forma concreta. E sono
le famose tre materie prime di Scoto: prime tutte tre,
perché anteriori al composto, come allora dicevasi,
di materia e forma. Materia primo prima, materia che
non esiste in natura, ed è ciò che rimarrebbe di ogni
essere naturale quando si facesse astrazione assoluta da
ogni forma. Materia secando prima, materia dotata degli
attributi della quantità che sono già forme sostanziali,
ma quelle forme prime che ancora non bastano a rea-
lizzare qualche cosa in natura: dove non è nulla che sia
quanto, senza essere, anche quale; sicché sarebbe quel
che rimane mentalmente di ciascun essere naturale se
noi, mantenendo la sua particolarità, onci’ è una data
parte, e quella parte sola, della materia, facciamo astra-
zione da tutte le qualità per cui è poi quel che è. E infine :
materia tertio prima, sostrato della forma finale, del-
1’ haecceitas, onde ogni cosa è realizzata nella sua assoluta
individualità e contingenza. In questa concezione la ma-
teria primo prima, soggetto universale omogeneo di tutte
le sostanze corporee e spirituali, è lo stesso non-ente
di Platone; e la realtà, in fondo, non si riesce a concepire
speculativamente se non nella trascendenza incompati-
bile con l'essere della natura, ossia di quella individualità
che Aristotele mirava a rivendicare.
£Y. L' INTELLETTO UMANO
t 13
9. Così, se Tommaso avesse affermato che il principio
individuante è la materia, senz’altro, non avrebbe com-
messo l’errore di Scoto, ma l’opposto. La sua soluzione
invece è meno semplice, nonché meno logica, ma più
profonda; ed è, a mio parere, una delle dimostrazioni
più splendide del vigore del genio, che fa violenza con
l’energia dell’ intuito alle esigenze di una situazione inso-
stenibile, imposta da quelli che si dicono i tempi, e sono
la forma determinata della nostra mentalità. Dall’ intel-
ligenza più genuina dello spirito delharistotelismo, che a
lui, come ad Alberto Magno, è ispirata dall averroismo,
egli è bensì mosso a cercare il principio d’ individuazione
nella materia opposta a quella forma che in re e in mente
è sempre la disindividuazione dell' individuo. Ma così nei
due opuscoli, consacrati a questo problema, De ente et
essenti a e De principio individuationis, come nelle due
Somme, andò incontro alla obbiezione che la stessa ma-
teria può assumere forme diverse, e dar luogo perciò a
diversi individui. E avvertì: sciendum est quod materia non
qnomodolibet accepta est principi uni individuationis, sed so-
limi materia signata 1 : non la materia indeterminata, bensì
la signata.
E che cos’è questo signum che, determinando la materia,
ne fa l’immediata radice prossima dell’individuo? I tomisti
sì sono divisi nella interpretazione del segno della
materia: altri con Tommaso De Vio, il Gaetano (1468-
1533), intendendolo come la disposizione prossima a ri-
cevere una forma determinata, acquistata dalla materia
nel corso del divenire naturale; altri, i più, con Egidio
Colonna (m. 1316), come quella certa quantità pro-
pria della materia che s'investe d’una data forma per
costituire un individuo, né può costituirne più d’uno, né
può investirsi d’altra forma.
1 De ente, c. II; cfr. S. th., I, 3, 2, e C. g., II, 49.
8. —• Gentili;, 1 problemi della scolastica.
114 I. I PROBLEMI DELLA SCOLASTICA
In ambo i casi, l'interpretazione dei commentatori rac-
costa la materia signata di Tommaso alla materia secundo
prima di Duns; sicché giustamente si è potuto osservare
che questo signuni in fondo è l’impronta d’una forma;
che la materia signata può individuare in quanto già indi-
viduata, e chi individua è la forma. Critica giusta, ma
che ha il torto di mettersi sullo stesso terreno del dualismo
erroneo da cui, come s’ è notato, sorgeva il problema del
principium individuationis, e da cui muove lo scotismo.
Il merito invece di Tommaso, nel suo concetto di materia
signata, è di aver tentato di superare il dualismo, rag-
giungendo quella radice, da cui i due termini di materia
e forma rampollano.
L’uomo, disse Aristotele q genera bucino; e ogni
individuo nasce da un altro individuo simile, che, se in
atto è se stesso, in potenza è l’altro. Essere in potenza
l’altro individuo o essere la potenza di quest’altro indi-
viduo, nel linguaggio aristotelico, equivale ad esserne
la materia: quella materia concreta, reale, da cui natu-
ralmente è possibile davvero che il nuovo individuo si
generi : e però, certamente, rivestita in qualche modo della
forma. Una materia, adunque, che non è né anch'essa
quomodolibet accepta; perché essa è una materia deter-
minata, la sola che nel processo della natura possa generare
quel tale individuo. Ma Aristotele non ebbe 1’ occhio a
questa concretezza essenziale della sua materia (e quindi
della sua forma) ; e l’Aquinate invece aguzzò lo sguardo
sulla materia signata. Contro la quale mal si opporrebbe
che salti e non risolva il problema, non essendo altro
che quella unità di materia e forma, di cui si cerca il
principio: giacché la forma della materia segnata non è
la forma astratta deH’aristotelismo, che è l’atto di una
potenza: non essendo né l’atto del generante nella sua
1 Metaph., VII, 8, p. 1033 b 32,
IV. lJ INTELLETTO UMANO
attuale individualità, né quello del generato, che, rispetto
alla materia segnata, è ancor da nascere.
La forma intrinseca alla materia segnata è Tesser po-
tenza di un dato atto: ossia la materia di quella forma
in cui consisterà Fattualità dell’ individuo : forma che è
materia, materia che è forma; una materia di qua da
quella che poneva Faristotelismo, e una forma di là dalla
forma che Faristotelismo contrapponeva a quella materia :
un termine medio, che aveva il solo difetto di esser
concepito con quelle stesse astratte categorie di materia
e forma, che facevano nascere e durare il dualismo.
Tommaso d’Aquino, insomma, non conosce né materia
né forma assolutamente indeterninate, ch’egli nel De na-
tura materiae chiama species pkilosophicas o entità astratte
dell’analisi mentale; conosce bensì la potenza che è po-
tenza dell’atto. In questo problema non è dualista, come
Scoto, ma assertore di un monismo dinamico. La sua
materia non riceve di fuori la forma, perché è essenzial-
mente segnata, potenza della sua forma; e in questo
senso è anche forma.
Se avesse tenuto fermo a questo concetto, avrebbe
vinto il platonismo, superato la posizione scolastica, inau-
gurato egli la filosofia moderna. Ma svolgere il germe
d’immanentismo contenuto nel concetto di materia si-
gnata importava non solo l’eternità del mondo, che, in
fatti, come dicemmo l’altra volta, a Tommaso non pareva
filosoficamente attaccabile; ma importava, con la connes-
sione essenziale di materia e forma, un’ intuizione pro-
fondamente diversa dalla aristotelica intorno alla natura
del conoscere. Perché, se non ci fossero assolutamente
forme astratte, l’intelletto, che consiste in queste forme
pure, diventerebbe inconcepibile. Ciò che agli orecchi di
un tomista deve suonare che è impossibile la scienza vera ;
che non è vera né anche l’asserzione che non ci siano
queste forme astratte. L’assurdo degli scettici.
T. T PROBLEMI DELLA SCOLASTICA
I ì 6
io. Tommaso sì preoccupò molto delle conseguenze del
suo ilemorfismo, ossìa di questa sua tendenza a
concepire monisticamente il rapporto della materia con
la forma, come si vede chiaro nelle sue discussioni intorno
all’unità dell’ intelletto : una delle questioni che più ap-
passionarono i filosofi del sec. XIII dopo Averroè.
Aristotele in un celebre luogo del De anima (III,5),
uno dei luoghi più letti, più meditati, più tormentati delle
sue opere, aveva applicato allo stesso intelletto, forma
suprema dell’universo naturale, quella sua logica ana-
tomica, e stavo per dire mortifera, della doppia categoria
di materia e forma: traendo l’ultima e più spietata con-
seguenza del suo pensiero. C’ è un intelletto a questo
mondo, o, come Aristotele dice, in natura ? C' è di certo,
perché noi pur qualche cosa intendiamo. Ebbene, questo
intelletto non potrebbe generarsi — la natura è genera-
zione — né noi intenderemmo mai, se anche dell’ intel-
letto, come di tutto ciò che si genera, non ci fosse la ma-
teria ( la potenza dell’ intendere) e non ci fosse, d’altra
parte, la forma, principio efficiente o causa che rechi
in atto quella inerte potenza, e faccia reale l’intelletto ;
come la luce con l’atto suo suscita i colori che soltanto
in potenza eran tali e che senza la luce non diverrebbero
mai tali effettivamente. Bisogna, dunque, ammettere un
intelletto materiale (o potenziale) passivo, e un intel-
letto attuale, o puro e attivo: l’uno perituro, l’altro,
immortale ed eterno; e separato 1.
1 Etteì S’tocTrsp èv àv:ó.Gy] zfj cpùcrei saxi xl tò ¡¿èv uXy] éxàoxoj
yèvei (xoòxo Bs ò -kolvzix Suvàpisi sxtiva), eTepov Sè tò aix&ov xai
tzoit^itzóv, x£5 ttoleiv -xàvxa, olov yj zéyyq ?:pÒ£ tr,v uXy;v tstuovOev,
àvàyxT) xai èv xf] ò,JXTÌ ùxàp'/et,v xauxa^ xàp Siaqpopàc. xai éaxt.v ó
¡¿èv TOtoÙTop voù? téì Tràvxa yivea0oa, ò Sé xcp 7tàvxa tioieiv, wc
sfyq ziq, olov rò cptoc- xpÓTrov yap xiva xai xò cpcat; ttolsì xà Suvàptst.
Òvxa 7pti>[xaxa evepyeia ypò^axa. xai oòxo; ò vouq ycopiaxòi; xai
àTuaGr^ xai ¿¡¿ty/)*;', xfj oùaia cov èvépyeia. àsi yàp Tiputàrepov xò
TTOtouv xou 7ràayovxo£ xai àpy/; zrjq xò S’aòxó ècrxtv r; xax’
èvépyet.av ÌTZiazryt] xc~> -xpaypLaxi.' rj 8è xaxà Suvafuv XPóvc> -poxépa
IV. l’ intelletto umano
117
Esplicita professione di dualismo schiettamente plato-
nico, in cui Aristotele doveva necessariamente finire, per
non aver inteso l'unità intima, che è in fondo al suo con-
cetto del rapporto di materia e forma: formola solenne
della opposizione tra l’eterno e il transeunte, tra 1’ im-
mortalità e la natura, piantata sul più alto vertice dello
sviluppo del mondo, quale stava innanzi alla mente di
Aristotele. L’ anima umana librantes!, come intelletto, al
di sopra di tutta la natura; e, come tale, adeguata all'es-
senza dell’universo. Quella formola, che raccoglie ed espri-
me il senso segreto di tutta la filosofia aristotelica, radi-
calmente oggettivistica, e, in questo senso, naturalistica
e antispiritualistica, per tutti gli spiriti che nel Medio
Evo e nella Rinascenza rivivranno il pensiero aristote-
lico con un sentore nuovo della realtà dello spirito, della
individualità di questa realtà, della intimità indelebile
di questa individualità, sarà un problema tanto più acuto,
quanto più disperato nel cerchio della filosofia di Ari-
stotele, o della filosofia greca in generale.
Certo, questo dualismo dell’ intelletto passivo e dell' in-
telletto attivo separato contrastava apertamente alla ten-
denza monistica di tutto il filosofare aristotelico, al senso
profondo della sua insistente polemica contro la teoria
platonica delle idee trascendenti. E l’aristotelismo perde-
rebbe tutto il suo significato storico, se non si conside-
rasse governato dal principio dell'unità e dell’ immanenza.
Ma egli è che la sua unità, vivente nella generazione
{-{è'jzaic,) della natura, era più unità postulata che pensata :
giacché il divenire naturale, se si pensa, è il divenire
stesso del pensiero che pensa il processo della natura
facendolo in sé ; e se si appunta oggettivamente nel termine
sv tw évi, ò'/m' Sé où xpóvcjv àXX’ où^ ¿-è ¡asv vosi ótè S’oò vosi.
XCOpLatìsti; Ò èaTÌ 1J.ÓVOV TO\jG’ 07T£p ÉCTTL, y.xl TOÜTO ptóvov àGàvaxov
y.xì xtSlGV. OÙ [iV75¡TOV£ÚOpt£V SÉ, OXl XOUXO ijL£V 0.71x6ÍQ, Ó SÉ TraGTQTtXOi;
voOq ©Gapxóc;, Hai aveu xoùxou oùGév vosi. [De anima, III, 5).
TlS I. I PROBLEMI DELLA SCOLASTICA
del pensiero, come aveva fatto Eraclito e fece Aristotele,
non si pensa effettivamente come divenire, ma sì
arresta nel suo processo, si spezza e si fissa ne' suoi mo-
menti analitici, che nassuna sintesi può fondere più nel
flusso della realtà: e per Aristotele, si dissolve nei due
elementi della potenza {ter sé impotente, e della forma
per sé ideale e irrealizzabile. Nel problema dell’ intelletto
tutte le difficoltà del processo del mondo aristotelica-
mente concepito si riuniscono e si aggroppano, poiché
l’intelletto è l’unità di tutte le forme e la forma per ec-
cellenza: centro a cui convergono tutti i raggi della vita
universale. Il problema era insolubile; ma i termini stessi
oscuri, in cui l’aveva involto Aristotele, picchiarono all’ in-
telligenza dei suoi maggiori commentatori per ottenere
una interpretazione che fosse conforme albumi o all’altra
delle opposte esigenze che cozzavano nel pensiero del
grande filosofo.
li. Le più famose interpretazioni sono quelle appunto
dei due più celebri commentatori: di quelli che rispetti-
vamente nell’antichità ellenistica e nel Medio Evo furon
detti i commentatori per antonomasia: Alessandro d’Afro-
disia (che insegnò filosofia in Atene tra il 198 e il 211 d. C.)
e Averroè (1126-1198).
Alessandro intese b intelletto passivo come ultima perfe-
zione della natura del corpo dell’uomo ; e b intelletto at-
tivo identificò con Dio, che Aristotele aveva definito ap-
punto come atto dell’ intelletto, o intelletto in atto, sot-
tratto a ogni processo di sviluppo (atto puro), e però
chiuso in se stesso e non intendente se non se stesso:
pensiero del pensiero (vÓ7]cjt.<; vo^asex;). Che era, da una
parte, affermare la necessità di concepire lo sviluppo dei-
fi intelletto come processo autonomo della natura e di
porre quasi la radice dell’ intelletto stesso nell’uomo, che
è pur quegli che intende, per chi sta speculando sulla
IV. L IXTEI,LETTO UMANO
IIQ
natura dell’intelletto; ma era anche, d’altra parte,
irrigidire in tutta la sua assurdità l’opposizione tra la
mera potenza e la pura forma, e seppellire la psicologia
aristotelica sotto il grave pondo della più recisa trascen-
denza. L’uomo era elevato fino alla soglia stessa dell’in-
telligenza, per additargliela quindi remota nella divinità
estramondana.
Da Aristotele il dualismo era lasciato dentro la stessa
anima umana, poiché dell’ intelletto attivo si parla come
di forma del passivo. Da Alessandro è trasportato di
là, tra l’anima e Dio, ma reso perciò più pungente dalla
necessità, a cui l’anima vien così condannata, d’attin-
gere fuori di sé la forza di portare a compimento la pro-
pria natura.
12. Avcrroè, come già Temistio {IV secolo d. C.), riaf-
ferma l’unità dell' intelletto attivo e del passivo, ma non
perciò restituisce all’uomo la sua intelligenza: che, accen-
tuando sempre maggiormente la trascendenza, spianta
quella radice che Alessandro aveva messa nell'anima uma-
na, forza il testo aristotelico {/copurrói;} facendo questo
suo unico intelletto, potenza e atto di se medesimo, se-
parato dall’uomo e quindi da tutta la natura. L’anima
umana è, per lui, essenzialmente eguale a quella di tutti
gli altri animali; principio della vita vegetativa e sensi-
tiva, essa si può elevare fino alla fantasia e all’appetito,
ma non ha nessuna potenza d’intendere ; come i corpi
colorati, se si toglie la luce, non si può dire nemmeno che
possano essere colorati, poiché nella luce risiede la
potenzialità stessa dei colori. Donde una conseguenza di
grande momento. Come la luce si divide secondo la divi-
sione dei corpi, restando pur sempre in sé un’unica luce,
quale torna infatti in ablatione corporum ; così la mol-
teplicità degl’ intelletti umani è un mero riflesso della
molteplicità degl’ individui materiali, e l'intelletto, onde
1 JO
E. I PROBLEMI DELLA SCOLASTICA
s’illumina ogni uomo, è uno; né si può concepite indi-
dividualità spirituale. Di là, runiversale che è spirito
immoto, idea; di qua, il particolare che è materia in mo-
vimento. Dualismo per dualismo, non era più logico
questo di Averroè, che tornava così risoluto a Platone ?
Sulle orme dei neoplatonici, della cui speculazione era
tutto compenetrato il pensiero dei filosofi arabi anteriori,
anche Averroè si adopera a riempire l’abisso tra Dio e
mondo, interponendo come mediatrici quelle forme sepa-
rate che sono le intelligenze motrici delle sfere celesti : sì che
basta che Dio crei l’intelligenza delle stelle fisse, perché
quindi piova di cielo in cielo un influsso intelligente e
motore fino alla luna: donde scende nel mondo sublu-
nare di quella che per Aristotele è solo natura, mondo
della generazione e corruzione, dove la materia è affa-
ticata di moto in moto dal desiderio delle forme supe-
riori, per tutti i gradi della vita, fino al supremo: l’intel-
letto, acquistato sul fondamento di una nuda disposizione
psichica, resa potenza reale d’intendere e atto d’ inten-
dere dalla estrinseca energia dell’ intelletto lunare.
Di contro, per altro, a quel mondo ideale geloso della
propria purezza e sdegnoso di ogni terreno contatto ori-
ginario, il mondo della natura, non men rigidamente con-
cepito, era tratto come è di necessità, ad annullare 1’ oppo-
sizione stessa che voleva essere la legge fondamentale
dell’averroismo. Giacché, se Dio è tutto forma, il mondo
non si spiegherebbe con un principio tutto materiale:
e di fronte all’eterno intelletto divino Averroè metteva
una materia eterna : eterno quindi parimenti e neces-
sario il mondo: eterne tutte le forme della natura, eterno
l’uomo stesso con la sua scienza.
Di modo che l’uomo, come dissi altra volta, abbassato,
anzi negato per un verso, veniva per l’altro innalzato al
grado stesso della necessità divina. Costretto ad attaccarsi
a una realtà superiore per essere uomo, si può dire che ei
IV. L INTELLETTO UMANO
12 J
si vendicasse del proprio destino avvincendo a sé inscin-
dibilmente cotesta medesima realtà, contaminandone in
eterno quella sua schiva purezza. Che era un abolire
affatto la trascendenza, e riproporre schietto il problema
di Aristotele, il problema della unità.
Ma il motivo monistico non pervenne a chiara coscienza
neppur in Averroè, e il suo pensiero s’impose e diffuse
per l'opposto motivo che egli aveva pur così vigorosa-
mente sviluppato, e per cui rinvergava esattamente con
le tendenze dualistiche del pensiero medievale, così ri-
soluto di separare la verità dall’uomo, e, in generale,
l'eterno dalla storia. Affascinante tuttavia, come ogni fi-
losofìa che con nuovo vigore d’originalità torni alle ge-
niali ispirazioni creatrici del platonismo, visione tutta
piena d’ideale, esso, d’altra parte, si presentava nell’aspet-
to pauroso di una filosofia sconsolata, con quella sua ne-
gazione del valore intrinseco deli’ individualità e la ri-
nunzia conseguente a una vita oltremondana, dove pel
commentatore arabo non era più concepibile altro intelletto
che unico, universale. Filosofia sconsolata e insieme, per
questo stesso suo aspetto, seducente. Sconsolata pel cri-
stiano vivente della fede nel regno di Dio da restaurarsi
per lui dopo questa vita terrena, della fede nella volontà
di Dio da instaurarsi nella sua volontà: propenso bensì
a sequestrare al di là del mondo la verità e la beatitudine,
ma a patto d’andarvi anch’egli, individualmente, quando
che fosse, a cogliervi il frutto della sua milizia terrena.
Seducente a quanti la filosofia si compiacessero amara-
mente di porre in contrasto con la fede, e la ragione con
le aspirazioni del cuore: vuoi per mistici motivi, che nello
scetticismo della ragione avessero il trionfo dei mezzi
sovrannaturali di coscienza e di salute ; vuoi per motivi
razionalistici, che nella speculazione cercassero e si argo-
mentassero di trovare gli argomenti negativi dei donimi
che la Chiesa insegnava. Poiché anche il Medio Evo, come
122
í. I PROBLEMI DELLA SCOLASTICA
ogni altro tempo, ebbe i suoi liberi pensatori, i suoi spiriti
negativi; i quali deH’averroismo si fecero qualcosa come
la filosofia dello Spencer o dello Haeckel per i massoni dei
nostri giorni.
13. Le dispute pullularono nel sec. XIII intorno alla
tesi averroistiea dell’unico intelletto; perché solo chi non
rifletta oggi a quella separazione, che T intelletto medie-
vale vedeva tra sé e sé, tra quel che ciascuno di noi è per sé,
e quello che dev’essere il suo valore e la sua vita e tutto
Tesser suo, può lasciarsi sfuggire da qual senso di amore
incoercibile il pensatore dell’età di mezzo fosse sospinto
verso il trascendente, dove era la realtà di tutto, e la sua
stessa realtà; e quale interesse vitale dovesse suscitare il
solo sospetto che, come Averroè insegnava, non fosse
nostra la nostra intelligenza immortale.
Tommaso d’Aquino combattè strenuamente quella fiera
filosofia, in cui il platonismo toccava l’apice della coe-
renza, distruggendo col valore della natura e dell’uomo
ogni conforto e speranza consolatrice. La combattè nel
Commento alle Sentenze, nella Somma contro i gentili,
nella prima parte della Somma teologica; ma, quando nel
1269 tornò per l’ultima volta a Parigi, e trovò in voga
questo indirizzo arabo per opera principalmente di quel
Sigieri, che Dante, tomista imparziale, doveva collocargli
accanto e farsi presentare da lui stesso nel cielo del Sole,
pose mano a uno speciale opuscolo De imitate intellectus
contra Averroistas.
Non credo che T indirizzasse proprio contro Sigieri, il
quale scrisse intorno a questa materia nove Quaestiones
de anima intellectiva, di recente messe in istampa; e a lui
pertanto non si potrebbero riferire certe allusioni dello
opuscolo tomista: Si quis autem, gloriabundns de falsi
nominis scientia, velit contra haec... aliquid dicere, non
loquatnr in angulis, nec coram piieris, qui nesciunt de
IV. iJ INTELLETTO UMANO
1 2
causis arduis indicare; sed contra hoc seri pium scribat, si
audet x. Tommaso evidentemente parla contro tutta una
scuola, la quale pare avesse molti adepti, dispregiatori
della scolastica latina e propugnatori di certo puro peri-
patetismo greco rifiorente nel movimento di rinascenza
ellenica promosso dal nuovo contatto della cultura occi-
dentale con quella bizantina, avvenuto con la presa di
Costantinopoli nel 1204 per parte dei crociati. Perciò egli
si sforza di opporre all’autorità di Averroè, qui tam fuit
Peripateticus, quam Peripateticae philosophiae depravator 2,
quanti più nomi può mettere insieme di interpreti e di
filosofi greci. Né, conforme all’ istituto generale della sua
filosofia, si ferma a dimostrare le difficoltà opposte alla
tesiaverroistica dalle credenze cristiane; giacché, del resto,
gli par che sia a tutti troppo chiaro che, subtracta ab
hominibus diversitate intellectus, qui solus inter partes ani-
mae incorruptibilis et immortalis apparet, sequitur post mor-
tem nihil de animabus hominum remanere nisi unitatem
intellectus; et sic tollitur retributio praemiorum et poena-
rum 3. Ma contro ai razionalisti avversari preferisce so-
stenere che la posizione da lui combattuta è contraria
non meno ai principii della filosofìa che agl’ insegnamenti
della fede.
La filosofia, s’intende, è quella di Aristotele; ma nel
modo che propende ad intenderla Tommaso. E come nel
principio d’individuazione stringeva insieme indissolu-
bilmente forma e materia in un concetto più profondo della
materia, in cui veniva intrinsecata in qualche modo la
virtù fattiva e idealizzatrice della forma; così qui non
solo restituisce all’anima umana sensitiva la potenza ne-
gatale da Averroè, o intelletto passivo, ma lo stesso in-
telletto agente, facendone un intelletto proprio dell’indi-
1 Opuscula selecta (ediz. Lethielleux), IV', 471.
2 Op. di., p. 452.
3 Op. cit., p. 435.
I. I PROBLEMI DELLA SCOLASTICA
I 24
vicino. Egli vede infatti che la luce intellettuale che ri-
splende nella mente umana non può essere con la mente
in un rapporto simile a quello della luce con la parete:
la quale riceve codesta luce e non agisce ; laddove la mente
nostra intende, rivelando un'energia sua. L’ intel-
letto che si può comunicare, dice profondamente 1’ Aqui-
nate, è species ■intelligibilis, ma non potenza intellettiva.
Ora è manifesto che con la specie intelligibile c’ è qualche
cosa che s’intende, ma soltanto con la potenza intellettiva
c’ è uno che può intendere. L'averroista spiega 1’ aliquid,
ma non spiega 1' aliquis.
Paries, in quo est color, cuius species sensibilis in actu est in
visu, videtur, non videt; animal autem habens potentiam vi si vani,
in qua est talis species, videt. Talis autem est praedicta copu-
latio intellectus possibilis ad hominem, in quo sunt phantasmata
quorum species sunt in intellectu possibili, qualis est copulatio
parietis, in quo est color, ad visum, in quo est species sui coloris.
Sicut igitur paries non videt, sed videtur eius color; ita seque-
retur quod homo non intelligeret, sed quod eius phantasmata in-
telligerentur ab intellectu possibili 1.
Che è la critica più profonda che possa farsi dell'averroi-
srao e del platonismo di tutti i tempi; critica, in cui Tom-
maso supera di gran tratto la concezione dualistica, che
forma la base del suo sistema, affermando, con intuizione
stupenda, che avrà bisogno di secoli per essere giustifi-
cata sistematicamente e diventar fondamento d’un mondo
nuovo, l’intimità e la libertà assoluta del soggetto.
Del soggetto che conosce, e del soggetto che vuole.
Perché, se, giusta la posizione averroistica, non è possibile,
al dire di Tommaso, che hic homo intelligat, non è possi-
bile né anche che un uomo determinato voglia; onde si
vengono a distruggere tutti i principii della filosofìa mo-
rale. Subtrahitur enim quidquid est in nobis. Giacché niente
op. rii., p. 454.
IV. l' intelletto umano
è in noi, se non per la volontà; e intelletto e volontà, come
aveva insegnato Aristotele, vanno insieme; e universale
è anche Voggetto della volontà, la quale non ama o odia
(come l’appetito) individui particolari. Di guisa che, se
l’intelletto è estrinseco aH’uomo e non si unisce ad esso
come forma, ma come motore, e però non fa uno con
esso, non ci sarà neppur volontà neH'uomo, e nessuno
sarà padrone de’ propri atti ; né, in conseguenza, ci sarà
ragione mai di lode o di biasimo. Quod est divelle re prin-
cipia moralis philosophiae] qualcosa di assurdo, o contra-
rio alla vita umana (che non sarebbe più luogo a consigli,
né a leggi). E insomma che l’anima umana sia per propria
potenza intellettiva deve tenersi non già solo, come vor-
rebbero gli averroisti, perché ci è rivelato dalla fede, ma
perché negarlo è contrastare alla stessa evidenza (niti
contra manifeste apparentia I),
Dottrina mirabile pel suo tempo, in cui tutto il pen-
siero gravitava verso l'oggetto del pensiero, e mal gli
poteva riuscire di scorgere la libertà, l’intrinseca e propria
natura dello spirito. Dottrina, che da Tommaso era rag-
giunta per libera e affatto spregiudicata genialità spe-
culativa; poiché se essa giovava a rinsaldare i principii
della morale e a render concepibile, col suo immanen-
tismo, l’atto del conoscere, diventava, d’altra parte, estre-
mamente pericolosa a quella trascendenza, cui pareva a
prima vista soccorrere. Ché la libertà conoscitiva e pra-
tica, la soggettività individuale dell’uomo premeva a Tom-
maso restituire, in ultima istanza, ai fini oltremondani,
dove la conoscenza schietta del vero si sarebbe adempiuta
e la moralità avrebbe posato nel raggiungimento del bene
a cui è diretta.
Ma codesto soggetto ristaurato dal tomismo, unità in-
tima di anima naturale e d’intelletto, era compatibile a
1 Op. cit., p. 457.
120
I. I PROBLEMI DELLA SCOLASTICA
sua volta, con la fede nell' immortalità ? Avvinto 1’ in-
telletto attivo al passivo, e tutto innestato neH’anima e
con questa incorporato come forma (secondo la defini-
zione aristotelica) di un organismo, o corpo naturale
avente la vita in potenza, la logica non trascinava alla
conclusione, che già Alessandro d'Afrodisia aveva accet-
tata attribuendo all'uomo 1' intelletto passivo, e che Pom-
ponazzi al principio del sec. XVI rinnoverà ? Se l'anima
tutta fa uno col corpo, con il dissolvimento di questo non
coinciderà il dissolvimento di quella ? Lo stesso tortu-
rante problema si rinnoverà nel sec. XIX nella filosofìa
del Rosmini.
14. Xel Duecento quel problema fu l’assillo di molti
pensatori. I quali perciò esitavano tra la psicologia ari-
stotelica e la platonica dell’ indirizzo agostiniano. La quale,
a sua volta, tripartiva l'anima, facendone quasi tre anime,
una sopra l'altra e la terza, la suprema, al governo di
tutte, superiore per natura e sola immortale, anzi eterna.
In un trattato falsamente attribuito ad Ugo di San Vit-
tore (1096-1141) è ripetuta questa tripartizione, e affer-
mato che anima rationale suum tenet sine carne. A questa
dottrina molto affine ali averroistica inclinò il celebre fran-
cescano capo degli spirituali Pier Giovanni Olivi, che
lesse a Firenze nel Convento di Santa Croce nel 1287 e
'88, e professò appunto quell’errore che Dante accenna
nel Purgatorio, e che era stato condannato nel 1311 come
eresia dal Concilio di Vienna nel Delfìnato :
quello error, che crede
Che un'anima sm r’altra in noi s’accenda.
(Purg., vi, 5-6).
Dante, che ricorda anche l'errore di Averroè nello stesso
Purga torio :
IV. L' INTELLETTO UMANO
I
quest’è tal punto
Che p i ù savio di te fé già errante ;
Sì che per sua dottrina fé disgiunto
Da l’anima il possibile intelletto
Perché da lui non vide organo assunto;
(xxv, 62-66}.
Dante rifiutò, come Tommaso, la tesi agostiniana, e stette
per l’unità sostanziale dell’anima e dell’anima col corpo;
Sì tosto come al feto
L’artìcular del cerebro è perfetto,
Lo Motor primo a lui si volge lieto
Sovra tanta arte di natura, e spira
Spìrito novo, di virtù repleto,
Che ciò che trova attivo quivi tira
In sua sustanzia, e fassi un’alma sola
Che vive e sente, e sé in sé rigira.
(68-75)-
Onde pur dedusse :
Quando per dilettanze o ver per doglie
Che alcuna virtù nostra comprenda,
L’anima bene ad essa si raccoglie,
Par ch’a nulla potenza più intenda.
(Purgiv, 1-4).
E Tommaso d’Aquino nella sua Somma maggiore aveva
insegnato che una operatio animae, cum fuerit intensa,
impedit aliam. Quod nullo modo contingeret, nisi prin-
cipium actionum esset per essentiam unum b L'anima è
una, malgrado le sue diverse potenze, che s’includono
l’inferiore nella superiore, come (già l’aveva insegnato
Aristotele) il triangolo nel quadrato, il quadrato nel pen-
tagono, e così via: in ordine di perfezione crescente, che è
S. th., I, q. 76, a. 3.
128
I. I PROBLEMI DELLA SCOLASTICA
integrazione sempre maggiore governata dalla finalità. Sic
anima intellectiva continet in sua virtute quidquid habet
anima sensitiva brutorum, nutritiva plantarum.
15. Come 1’ intelletto è la perfezione del senso, così
tutta ramina è la perfezione e l’atto del corpo. L’anima
non intende senza sentire; ma non sente nemmeno senza
nutrirsi, senza il corpo. Sentire non est operatio animae
tantum. Come concepir dunque l’anima divisa dal corpo ?
E Tommaso rigetta, senz’altro, la dottrina platonica della
preesistenza delle anime, cioè della loro sostanzialità
astratta. Animae prius convenit esse unitam corpori quam
separatam 1, E 1’anima non è creata prima del corpo.
Ma, nata col corpo, individuata nel corpo, ella acquista,
come ogni forma, certa affinità o proporzione alla sua ma-
teria: una coaptatio, o comrnensuratio; per cui quell’a-
nima è l’anima di quel corpo, restandogli pertanto legata
da una relazione essenziale. E tutte le anime tra loro
sono diverse (individuali) per differenze che non proce-
dono ex diversitate principiorum essentialium ipsinm ani-
mae, e neppure secundum diversam rationem ipsius ani-
mae; bensì secondo la diversa commensurazione delle
anime ai rispettivi corpi ; e queste differenze pertanto
possono permanere anche pereuntibus corporibus3. C’ è
quasi un corpo fisico e corruttibile e un corpo ideale ed
immortale; quello individualizza l’anima, che per sé, pura
forma, non potrebbe concepirsi se non come universale.
Ma l’individualità è pure un processo interiore dell’anima,
una sua formazione e conformazione di natura spiri-
tuale, che, generatasi dentro il dominio dell’anima, si
sottrae alle vicissitudini del mondo materiale, e parte-
cipa della incorruttibilità propria di quello spirituale.
1 C. g., Il, 183.
2 e. g., ii, 81.
IV. L INTELLETTO UMANO
I -9
L’anima, incorporandosi, spiritualizza il corpo, e lo rac-
coglie nel seno della sua ideale natura, per cui potrà
sempre conservare eternizzato un residuo della sua caduca
corporeità di una volta.
Mirabile concetto anche questo, in cui credo che anche
la speculazione medievale abbia fatto il massimo suo
sforzo. Che il vero corpo dell’anima non sia quello che
muore, ma quello che non muore, quello che l’anima cioè,
come esperienza intima, raccoglie e idealizza nel processo
interiore, questo lo pensiamo anche noi come Tommaso.
Non è possibile che il corpo dell’anima, voglio dire di
ciascun’anima, sia altro. Ma Tommaso ammette due
corpi: uno che muore del tutto, in questo mondo, e l’altro
immortale, d’una immortalità che non è punto morte,
in un altro mondo. In sostanza, se la radice dell’ indivi-
dualità è nella corporeità dell’anima, quella che si porta
dalla vita dell’esperienza l'anima immortale, l’intelletto,
nella dottrina di Tommaso, non è vera individualità;
non è l’individualità di quel corpo caduco, in cui sen-
tiamo ad ora ad ora la nostra debolezza, il nostro dolore,
la malattia, la morte ; ma l'individualità dell’ immagine
di questo corpo. Simile alla fotografìa, a cui il nostro
cuore ritorna per consolarsi in pietose illusioni quando il
caro capo di chi è caduto intorno a noi non risorge : alla foto-
grafìa, che resta sì oltre la morte, ma senza la vita, senza
il palpito in cui vibrava la nostra gioia. Il mondo che
si spiritualizza resta un mondo sì d’ individui; ma non
li abbracciate questi individui, come Dante tenterà alla
parvenza del suo Casella: le braccia vi torneranno vuote
al petto. La vita è eternata, ma spenta: gl’ individui sono
sottratti al tempo, ma sono ombre.
16. La realtà, la realtà vera, la realtà in cui soltanto
noi possiamo credere, per cui solo possiamo lavorare e
combattere, e, in una parola, vivere; la realtà che è eterna,
9. — (¡UNTILE, I problemi, della, sfoltisi ira.
13°
i. 1 PROBLEMI DELLA SCOLASTICA
e che è nostra, che ha 1’ universalità dell’ intelletto ari-
stotelico e l'individualità di quell' Io, in cui si concentra
il mondo, questa realtà al filosofo scolastico che la cer-
cava, con gli occhi antichi, in quel che è pensato e non
nell'atto del pensare, in cui veramente tutto si appunta
e si manifesta, doveva sfuggire fatalmente. E sfuggita
essa, non ne poteva rimanere innanzi alle menti se non
un'ombra vana, capace bensì di vivere nella fantasia del
poeta, come nella costruzione faticosa del teologo, nella
fredda immobilità della contemplazione estetica e della
curiosità indagatrice; ma incapace di suscitare l’ardore
della fede, che s'infiamma soltanto per la celebrazione
della vita nella sua pienezza, nella comunione intima
dello spirito con la realtà, quando, pensando e operando,
si respira l’aria delle cose immortali, poiché ogni ritmo
di vita spirituale crea nel mondo una realtà nuova non
destinata a morire.
N O T A B I B L 1 O G R A F 1 C A
Maggior copia di particolari su taluni punti della prima lezione
si trovano nella mia Storia della filosofia italiana (in corso di pubbli-
cazione presso il Maliardi di Milano) lib. I, capp. I e IV [e una nuova
rappresentazione della Filosofa dì Dante ho data posteriormente
nel voi. Dante e l'Italia nel VI centenario della morte del Poeta
pubbl. dalla Kond. M. liesso, Roma, 1921, pp. 135-62. Sulla dot-
trina politica dantesca cfr. pure una mia conferenza La profezia
di D. (1918) nei Frammenti di estetica e di letteratura, Lanciano,
Carabba, 1921, pp. 251-96]. Ma l’analisi dell 'Itinerarium mentis
in Deum della seconda lezione approfondisce quella più rapida
fattane nella detta Storia (I, III). Per la quarta lezione cfr. anche
op. cit., lib. I, cap. II. Ma anche l’interpretazione del tomismo
è stata qui rielaborata.
Intorno all’opposizione, a cui più volte mi riferisco e che ho
dichiarata più di proposito nella seconda lezione (pp. 40 sgg.), tra
lo spirito greco e il cristiano o moderno, si può anche riscontrare la
mia prolusione sul Concetto della storia della filosofa (1907) [rist.
nel voi. La Riforma della dialettica hegeliana 2, Messina, Princi-
pato, 1923], la commemorazione qui appresso ristampata di
B. Telesio (1911) e tra i miei scritti posteriori il r° voi. del Sistema
dì Logica 3, pp. 18-41 e 133-150].
I concetti gnoseologici accennati sul principio della quarta
lezione sono chiariti ne’ miei scritti posteriori: L’atto del pensare
come atto puro, nell ’Annuario della Bibl. Filos, di Palermo, voi. 1
(1912) [poi nella cit. Riforma] e Sommario di pedagogia generale
(Bari, Laterza, 1912, 2a edizione rgao). [Ora la Teoria generale
dello spirito come atto puro 3, Bari, Laterza, 1920, e il Sistema di
Logica].
[Nuova luce di studi particolari e di riscontri istruttivi sulla
filosofia di Dante, dimostrando quanto largamente, anche al di
fuori e anche in contrasto con gli scritti di Tommaso d’Aquino,
debba estendersi la ricerca delle fonti dantesche, fino a contestare
hl~
I. f PROBLEMI I) I.LLA SCOLAST ICA
l’esattezza della tradizionale e volgala definizione di Dante come
tomista, ha posteriormente a queste mie lettere recata il prof.
Bruno Nardi in vari suoi saggi molto pregevoli : Sigieri di Bra-
bante nella D. C. e le fonti della filosofia di Dante (estr. dalla Riv. di
filos, neos col., io ir-12) ; Inforno al tomismo di D. e alla quistione
di Sigieri [Giorn. Dant., XXII, 1914, pp. 182-197); Postilla alla
qaist. di Sigieri (A\ Giorn. Dant., I, 1917); Un frammento di cosmo-
logia dantesca {Cult, filos... 1917); Dante e Pietro d’Abano (N. Giorn.
Dant., IV, 1920); ¡ut. alle dottrine filos, dì Pietro d'Abano (Ad Riv.
stor., V, 1921); e Due capitoli dì filos, dantesca, nella Misceli. Dant.
pubbl. dal Giorn. stor. lett. it. (SuppL, 19-21, 1921)}.
BERNARDINO TELESIO
CON APPENDICE BIBLIOGRAFICA
Introduzione
Dietro al chiarore del Rinascimento, sullo sfondo dello
orizzonte, s’addensa ancora la nebbia medievale; e la luce
nascente s’imporpora dei riflessi fumiganti di quella
nebbia, che il sole alto, splendente nel mezzo del cielo,
spazzerà, quando agli albori antelucani sarà successo il
gran giorno dell’età moderna. In quella prima ora le
vecchie idee sono morte; ma, pur morte, rimangono nel
pensiero umano, e l’impediscono e Lopprimono con la
gravezza di ciò che, estraneo alla vita, ne attraversa il
cammino. Le idee nuove, quelle che sono anche oggi la
sostanza del nostro spirito, vengono annunziate, anzi
affermate con la vivacità impetuosa e fremente, con
l’entusiasmo gioioso della giovinezza, che ha per sé l’avve-
nire, e non sente il passato che si lascia alle spalle. Ma la
loro affermazione per noi è piuttosto un annunzio: manca
lo sviluppo logico, in cui è la vita concreta delle idee,
e manca l’integrazione, che il lembo della verità intrav-
vista raccolga nella coscienza coerente del tutto, dove
ogni parte ha il suo valore organico. E lo sviluppo e l’in-
tegrazione mancano, perché il nuovo è commisto col
vecchio e ravvolto nella vecchia scorza; e si va innanzi,
come infatti è dei giovani, senza sapere distintamente
che cosa si lascia e che cosa si cerca, e quale il cammino:
portati dall’ istinto della vita, che perverrà più tardi alla
netta coscienza del nuovo in quanto negazione del vec-
I :;<> II. BERNARDINO Tilt, ESTO
chio. Perciò tutti i pensatori di questa età hanno due
facce, e ci presentano contraddizioni, che paiono spian-
tare i principii stessi del loro filosofare; e chi guarda
a una sola faccia, non riesce più a rendersi conto dell’altra.
E chi ne fa gii iniziatori, a dirittura, del pensiero moderno,
e chi li respinge indietro, alla scolastica dei tempi di mezzo:
laddove il significato storico è in questa posizione, che
occupano, tra una filosofia che hanno solo virtualmente
superata e una filosofia che del pari solo virtualmente
affermano. Trascurare cotesto residuo esanime, che re-
siste nei loro sistemi alle intuizioni innovatrici, in tutti
questi filosofi, dal Ticino, anzi dal Valla, al Bruno e al
Campanella, non è possibile: vien meno tutto il signifi-
cato di queste medesime intuizioni, che fanno di essi
i precursori dei più grandi filosofi moderni ; e non si spie-
gano più atteggiamenti essenziali e parti vitali del loro
pensiero; ma, sopra tutto, diviene un mistero perché il
germe dì verità, che essi si recano in mano, rimanga sol-
tanto un germe, di cui la vita s’arresti appena cominciata.
li
il pensiero medievale
L’uomo del Medio Evo si era travagliato in una con-
traddizione, che si può dire organica, perché ne dipendeva
la vita stessa del pensiero. Una contraddizione, i cui
termini, se si vuol considerare il processo generale della
storia ne’ suoi grandi tratti, si possono designare come
la filosofia greca e la fede cristiana: due termini, che il
pensiero tentò per tutte le vie, lungo più di un millennio,
di conciliare; ma erano assolutamente inconciliabili per
lui, sul terreno in cui si era posto. Poiché, a dirla in breve,
la filosofia sua, che avrebbe dovuto operare la concilia-
II. BERNARDINO TELI.STO
137
zione, era tuttavia la filosofia greca, cioè uno dei due
termini stessi antagonisti.
La filosofia greca è il pensiero che si vede fuori di sé:
e si vede perciò o come natura, nella sua immediatezza
sensibile, o come idea, che non è atto del pensiero che
pensa, ma cosa in cui il pensiero si affisa, e che presup-
pone come verità eterna e ragione eterna di tutte le cose
e della sua stessa cognizione parallela alla vicenda delle
cose: in entrambi i casi, realtà che è in se stessa quella
che è, indipendentemente dalla relazione in cui il pen-
siero entra con essa quando la conosce. Visione la più
dolorosa che l’anima umana possa avere del proprio
essere nel mondo: perché l'anima umana vive di verità,
cioè della fede che sia da pensare quello che essa pensa ;
e in quella visione, che è poi la visione eterna della prima
riflessione, da cui si dovrà sempre pigliare le mosse, la
verità, quel che è veramente, non è nell’anima umana.
La cui condizione permanente e a dir vero tragica da
quell’ardente e sensibilissimo amatore dell’essere eterno
o dell’ ideale del mondo, che fu Platone, venne raffigurata
nel mito di Eros: mito pregno, nella sua classica serenità,
di pathos che direi cosmico : perché l'aspirazione fervente
al divino, che è l’Amore di Platone, e che nella sua forma
più alta è la filosofia, non è solo lo sforzo supremo in cui
si concentra l’anima umana, ma culmina in questa e
affatica tutto l’universo, tormentato dal desiderio di
qualche cosa che, essendo il suo vero essere, è fuori di
esso. Mito, che, con tutto il suo pathos, può essere in-
tanto sereno, perché l’occhio dell’ idealista greco è at-
tratto dalla bellezza dell’ ideale lontano, e vi si affisa, e
gli sfugge la miseria infinita dell’amante senza speranza.
In questa visione, quando, per opera principalmente
dello stesso Platone, la verità della natura sensibile e mor-
tale si rifrange nelle forme ideali, ond’essa si rivela al
pensiero ne’ suoi vari aspetti, e diventa sistema di idee,
138
II. BERNARDINO TELESKÍ
tutta la scienza, nel suo proprio assetto, quale possesso
adeguato della verità, non apparisce come il perenne
lavoro della mente e la celebrazione dell’ufficio supremo
del mondo, ma quasi un che di remoto dalla realtà, astratto
ideale, di cui la cognizione umana è sempre copia imper-
fetta. La scienza, di cui la logica deduttiva di Aristotele
descrive sapientemente il congegno, non è la scienza
nostra, la scienza umana, che si fa svolgendosi conti-
nuamente nella storia ; è la scienza che ha principii imme-
diati, in sé contenenti sistematicamente tutti i concetti,
in cui si snoda lo scibile: è pertanto la scienza che scienza
è in quanto è tutta e perfetta a un tratto, senza possi-
bilità di svolgimento storico: quella scienza, per ottenere
la quale tutto questo svolgimento, in cui è pure tutta
la vita e tutto l’essere nostro, non giova: un ideale, al
cui cospetto quel travaglio mentale, che ci par tuttavia
la cosa più seria del mondo, non ha valore di sorta e
Dentro questa visione si chiude tutta la filosofia greca,
e ogni filosofia che, come quella del Medio Evo, accetta la
logica, e la maniera d’intendere la verità, che è propria di
Aristotele. Questa logica si può definire la logica della tra-
scendenza; o altrimenti, la logica dell’intellettualismo. Per
questa logica infatti la verità, termine deU’intelletto, è
trascendente, radicalmente superiore aH’intelletto stesso ;
e questo è ridotto a semplice facoltà passiva, contempla-
trice e non autrice. Che è il concetto dell’intelletto nel
senso deteriore del termine: quasi mente, che importa
bensì la presenza delle cose da conoscere, ma non dell’uomo,
non dello spirito che le conosce ; e che ha appunto questo
di proprio e di diverso rispetto alle cose: che essa non è
cosa da conoscere, anzi l’attività correlativa, che queste
1 Sul carattere antistorico della scienza nel presupposto della logica
aristotelica vedi anche la mia prolusione 11 concetto della storia della
filosofia (1907) nel cit. volume: La riforma della dialettica hegeliana [e
ora il Sistema dì logica].
IT. BERNARDINO TERESIO
139
presuppongono nel loro concetto di « cose da conoscere ».
Mente, insomma, per cui c’è il mondo, ed essa, per cui il
mondo è, non è. E in altri termini l’uomo, questo divino
artefice di quanto è beilo e santo e vero nel mondo, di
quanto ci umilia e ci esalta, ora facendoci piegar le ginoc-
chia innanzi alla potenza terribile del genio, ora subli-
mandoci nel gaudio di quanto trascorre immortale i secoli
e aduna nel consenso d’uno spirito solo i morti coi vivi;
quest’uomo, annichilato. Annichilato, s’intende, ai propri
occhi, nella coscienza che ha del suo essere.
Di un uomo così, ignaro del proprio valore, men che
atomo disperso nell’infinito, Chiesa ed Impero, accampatisi
immediatamente come rappresentanti di Dio, possono
disporre a lor talento, come di cose che non sono persone.
Manca la coscienza, e manca perciò l’individuo: non c’è
la libertà, come coscienza della propria legge. La legge,
come la verità, scende dall’alto.
Ma era questo il principio del cristianesimo? Il cristia-
nesimo voleva essere, al contrario, la redenzione, la riven-
dicazione del valore dell'uomo; voleva sollevare l’uomo a
Dio, facendo scendere Dio nell’uomo, e rendendo questo
partecipe della natura divina. Giacché in Gesù, che è l’uomo
stesso nella sua idealità, quale esso dev’essere concepito,
Dio era uomo: con tutte le miserie umane, soggetto alla
estrema delle miserie, la morte; ed era Dio (quel Dio,
che redimeva) in quanto questo uomo, che eroicamente
affrontava la morte, in questa otteneva il premio della
missione della sua vita tutta spesa umanamente in un’ope-
ra d’amore.
Sicché l’amore risorgeva, non più, come nel mito pla-
tonico, contemplazione desiderosa dell’ irraggiungibile, ma
attività dell’uomo che crea se stesso perennemente: e non
era più la celebrazione estatica di un mondo che è, ma la
celebrazione operosa, dolorosa insieme e letificante, di un
mondo, che è regno di Dio essendo la purificazione della
II. BERNARDINO XERES IO
stessa volontà umana nella fiamma della carità. L'uomo
non era più sapere o intelletto; ma amore o volontà, cioè
creatore esso stesso della sua verità che è il bene: la ve-
rità che si scorge, quando la cerchiamo con la buona vo-
lontà, col cuore puro, mettendo tutto l’essere nostro,
sinceramente, ingenuamente nella ricerca; e che non è più
quindi, un che di esterno a noi, che si presenti e s'imponga
a noi passivi, ma la conquista e il premio del nostro sforzo.
L'uomo non è più spettatore, anzi protagonista. Si desta, e
sente se stesso; sente che senza la sua volontà, senza il
suo conato, senza lui, il mondo che ha valore per lui, la
felicità, la vita, Dio, non si raggiunge. Acquista quindi
davvero la coscienza della sua personalità, e però della sua
responsabilità: vede che da sé tutto dipende; e lui caduto,
tutto cade; lui risorto, tutto risorge. L’uomo trova dunque
se stesso nel cristianesimo.
Se questa intuizione fosse divenuta senz’altro concetto
complessivo ed organico del mondo, se questo senso nuovo
del valore dello spirito umano avesse rinnovato tutta la
concezione della vita, in cui l’uomo afferma la sua creatrice
potenza, se insomma il contenuto della nuova fede fosse
assurto al vigore d’una nuova filosofia, il cristianesimo
avrebbe segnato fin da principio la fine dell'intellettua-
lismo. Ma la fede non è ancora filosofia: è visione immediata
della verità non integrata in sistema di pensiero. E il
cristiano, quando volle pensare il suo Dio, pensò più a
Dio padre che a Dio figlio, e s’impigliò nella rete della
metafisica aristotelica che il principio della realtà, come
motore immobile, il quale è solo pensiero di se stesso,
e non d’altro, faceva estraneo alla realtà, e poi s’affaticava
invano a colmare l’abisso tra Dio e la natura ; tra la causa
del movimento, che non è movimento, e il movimento,
che non ha in sé la propria ragion sufficiente; e quindi
tra il principio del divenire, che non diviene, e la natura
che in sé non ha la cagione del suo perenne generarsi e
IL KERXAROIXO TELESIO I ) I
corrompersi; e poi tra l’anima e il corpo; e poi ancora tra
l’anima che intende, ed è lo stesso intendimento in atto, e
l’anima naturale soltanto capace di raggiungere la mera
possibilità d’intendere, ma incapace per sé d’intendere
mai realmente: e in generale tra la materia, potenza, e
non più che potenza, di tutto, e la forma, che di tutto è
realizzazione ; come dire, tra l’aspirazione alla vita e la
vita. Eterno destino di Tantalo!
Aristotelici o platonici, nominalisti o realisti, averroisti
o tomisti, tutti i cristiani che nel Medio Evo si sforzarono
di concepire la realtà, giunsero a cotesto risultato: al
destino di Tantalo. Tanto più doloroso, tanto pili inquie-
tante, in quanto nella fede novella, che fiammeggiava a
quando a quando nei mistici, era pur compreso il concetto
deH’immanenza di Dio nel mondo, nell’uomo, nello spi-
rito. La teologia, tutta la filosofìa scolastica, anzi tutta la
scienza medievale (che non è tutta filosofia) si costruisce
come scienza di una verità che appena il sentimento si
sveglia (basti per tutti ricordare Francesco d’Assisi e
Jacopone, il suo poeta), si sente estranea all’anima, lon-
tana, tale da colpire per vano riflesso solo l’intelletto
dell’uomo, speculazione umbratile e di scuola, che non
entra nell’intimo e non afferra e non impegna e non ri-
forma e non fa l’uomo. Scienza vana per chi ravvivava
in sé il sentimento, tutto cristiano, del valore spirituale:
scienza elegante nel suo laborioso artifizio, sottile nella
pellegrinità de' suoi tecnicismi, delicatissima nei pazienti
avvolgimenti didascalici in cui si dispiega, vasta, univer-
sale come un mondo per quanti vi si dedicavano: e, mes-
sovi dentro, talvolta, un intelletto di vasto respiro e di
tempra ferrea, vi si aggiravano e scendevano per meati
lunghissimi, con ricerche, che ora ci spaventano per la
fatica di pensiero e la forza di sacrifizio che attestano,
fino a toccare l’ultimo fondo delle difficoltà, in cui la filo-
sofia antica urta e si arresta. E basti per tutti ricordare
II. BERNARDINO TELESIO
I42
il nostro Tommaso d’Aquino: i cui sforzi possenti per
scuotersi di dosso la plumbea cappa delle conseguenze
ineluttabili dell’antica filosofia, riempiono l’animo dello
studioso moderno di commossa ammirazione e di reve-
renza. Chi vuole intendere la storia del pensiero medievale,
deve figgere lo sguardo in questo contrasto delle maggiori
forze spirituali che vi operavano dentro: il misticismo, che,
affermando immediatamente la presenza di Dio, della
verità, di quanto ha valore, nello spirito umano, nega la
scienza, come cognizione che sia sviluppo e sistema, e
tutte le forme a cui lo sviluppo dello spirito dà luogo
nella scienza e nella vita ; e la filosofìa intellettualistica, che,
presupponendo una realtà fuori dello spirito che la ricer-
ca, si affanna in una costruzione, formalmente ricchissima
e sostanzialmente vuota, di ciò che non può essere verità.
O verità senza scienza, senza vita dello spirito ; o scienza,
la forma più elevata di questa vita, senza verità, sterile.
in
Umanesimo c Rinascimento
Quando il Medio Evo è al tramonto, un uomo di genio
raccoglie in una espressione eloquente il senso di vuoto che
l’anima cristiana provava nella scienza delle scuole: ma un
senso, che non è più schietta conseguenza di disposizione
mistica, la quale, rinunciando alla scienza, possa trovare
il suo appagamento nell’immediatezza della fede; anzi,
piuttosto, un senso nascente da vivo bisogno di sapere,
pensare, intendere. Egli è un dotto, un gran maestro di
dottrina, un amante appassionato della scienza; ma aspira
dal profondo a una scienza che riempia l’anima e appaghi i
bisogni che la nuova fede ha creati dando all’uomo la
coscienza della sua iniziativa, della sua posizione centrale
li. BERNARDINO TELESIO
143
nel mondo: a una scienza insomma che dia la filosofia a
questa fede. Quest'uomo, che si presenta sulla soglia del
Rinascimento con la coscienza di tale nuovo problema,
e che, parlando un linguaggio pieno di malinconica nostal-
gia per un tempo che non è il suo, avvia per una nuova
strada lo spirito umano, svegliando intorno e innanzi a sé
lunga e folta schiera di ricercatori, intenti a indagare con
fede oscura ma salda una scienza nuova, che non essi
potranno trovare, è un grande poeta, che fu anche un
grande scrutatore dell'anima propria raffinata dalFamore
e dalla cultura: Francesco Petrarca, iniziatore dell’Uma-
nesimo v
L’Umanesimo ha un doppio valore storico, negativo e
positivo.
È guerra alla scienza del Medio Evo. Guerra combattuta
bensì con argomenti alquanto estrinseci e con spirito
assolutamente restìo, per lo più, a passare attraverso a
quella scienza per superarla. Combattuta con la satira
della forma letteraria, ispida, irsuta, lutulenta, aspra di
terminologia creata daH'intelletto assottigliantesi nella
astrazione e nella conseguente escogitazione dì entità
fittizie; alla quale si contrappone la purezza trasparente
e composta dell’arte antica propria di uno spirito più
ingenuo, meno affaticato dalla concentrazione di un conte-
nuto speculativo divenuto poi insufficiente alle intuizioni
fondamentali del pensiero. E combattuta con la dimostra-
zione sempre feconda, efficace, insinuante del vuoto, che
c’era sotto il tecnicismo difficile di quella pretesa scienza.
E poiché quando la vita è sullo spegnersi, anche la causa
più piccola basta a portare alla morte, nella civiltà viva
del sec. xv, in quella che progredisce e prepara le forme
ulteriori del pensiero umano, l’Umanesimo, pur coi di-
1 Vedi la mia Storia della filosofia italiana (col titolo: La Filosofa
nella collez. della Storta dei generi letterari del Vallardi, lib. II, cap. I).
li. BERNARDINO TERESIO
T 14
fetti della sua polemica, caccia di nido la scolastica.
Restano le scuole dei frati; come restano anche oggi.
Si continua a filosofare all’antica; ma è una filosofia
morta, allora come ora: non c’è più un Tommaso d’Aquino,
né un Duna Scoto. Comincia l’èra dei commentatori, che
fossilizzano per conto loro lo spirito, che è vita sempre
nuova. E la vita è negli umanisti.
Quindi il lato positivo del loro valore storico. L’Umane-
simo è filologia; ma filologia seria, che rivive il mondo
umano che vuol conoscere: lo rivive nella fantasia e nel
pensiero, ma con una fantasia e con un pensiero, che
s’estraniano dal mondo circostante e si chiudono in se
stessi. Gli umanisti perciò, rifacendosi antichi nel mondo
degli studi in cui si ritirano, possono acconciarsi alle
forme della vita esteriore, a cui non attribuiscono nessun
valore. Tutta la vita reale e storica non tocca l’animo
loro: è qualcosa di indifferente, che si può quindi accettare
qual è, senza critica di sorta. L’uomo, ora per la prima
volta, si spezza in due, con una scissura, che, quando sarà
passato questo periodo necessario di liberazione dal Medio
Evo, non si instaurerà a un tratto; e in Italia, che fu la
patria degli umanisti, ossia dei primi maestri, dei primi
risvegliatoli, dell’Europa moderna, resterà tristo legato
di quell’epoca gloriosa, piaga secolare del nostro carattere
spirituale, e forse il simbolo più significativo della nostra
decadenza 1.
L’umanista è il primo letterato dell’età moderna :
il letterato, il cui mondo vero è quello degli studi, e quel-
l’altro, in cui pur vive come uomo che ha famiglia e inte-
ressi sociali, non è il suo mondo; il letterato insomma
che non è uomo. Tale il Petrarca, i cui sdegni contro
l’avara Babilonia e il saluto augurale ed ammonitore allo
1 Su questo significato della filologia del nostro Umanesimo nel
sec. XV cfr. la mia Storia cit., lib. II, cap. II.
[£. BERNARDINO TELF.SIO I45
Spirto gentile sono superfetazioni retoriche della sua poesia.
Tale non era stato quell’Alighieri, che a lui restò sempre
incomprensibile, nel poema divino, contemplazione e poe-
sia, ma di uno spirito energico, che guarda al suo tempo,
e s’appassiona per tutte le lotte che gli si agitano intorno,
e fa tuonare da Dio la parola che può essere la salute di
tutti. Letterati saranno tutti i poeti e filosofi dell’Italia
fiorentissima del Rinascimento, che accetteranno tutti la
vita quale la troveranno, poiché la loro vera vita essi se la
faranno dentro, nella fantasia e nella speculazione, nel
nel mondo creato da loro. La stessa religione, fissatasi, al
loro sguardo, nella Chiesa, che non solo associa le anime,
ma le forma e riforma con lamministrazione del divino
commessole, con la sua teologia e con la sua filosofia,
diventa per loro qualcosa d’estrinseco e indifferente, che
il cittadino deve accettare come le leggi dello Stato. In
realtà, essi non partecipano alla religione del paese; ma
ne hanno una per conto loro, poiché veramente il loro Dio
è la loro arte, la loro filosofia, alle quali infatti votano
tutta l’anima e subordinano ogni altro interesse, almeno
nell’intimo del loro spirito.
Non è, propriamente, né indifferentismo religioso, né
tanto meno ateismo. Ma ateismo pare verso la religiosità
ufficiale di cui si ridono, ancorché esteriormente le pro-
fessino ogni riguardo. Quindi i conflitti frequenti e le
prigioni e i roghi, che aspettano i nostri filosofi del sec. xvi.
Il letterato, a ogni modo, stralciandosi dalla vita comune,
in cui si era consolidata, in forma di instituzioni costrittive
della libertà individuale, l’intuizione trascendente e intellet-
tualistica del Medio Evo, ereditata dalla filosofia greca,
ristaurava, come poteva, la libertà dello spirito che si fa
il suo mondo. E si fa un mondo di puro pensiero, poiché
non gli è consentito di scrollare, d’un tratto, quell’altro
della comunità civile; al quale per altro, a suo tempo,
perverrà egualmente, quando il principio suo, il principio
10. — Gentile, 1 problemi della scolastica.
II. BERNARDINO TELESIO
della libertà, diverrà nel sec. xvm coscienza sociale.
E per questa sua ristaurazione, che è perfetta ed assoluta
rispetto al mondo dell’umanista, egli, il malvisto della
Chiesa, il perseguitato nei libri che saranno proibiti,
nell’insegnamento che sarà vietato, nella persona che sarà
gettata nei ceppi, messa alla tortura, e perfino bruciata,
egli è più cristiano dei suoi persecutori. Egli è il conti-
nuatore dello spirito vero del cristianesimo. Ha infranto
e buttato via, con l’impeto della giovinezza, la vecchia
filosofia, la fida, l’eterna alleata della Chiesa medievale,
come della Chiesa d’oggi c di ogni Chiesa avvenire (poiché
un Medio Evo ci sarà sempre). Ma non si è abbandonato,
come si faceva una volta, al misticismo; anzi celebra
la potenza dello spirito ; e poiché una filosofia sua non l’ha
(e non era facile averla, dopo il rifiuto di una filosofia che
era il frutto di un’opera millenaria), ei la ricerca nell’anti-
chità più remota. La ricerca dove, a dir vero, era vano
cercarla; perché quell’antichità aveva generato il Medio
Evo. Ma l’umanista non sa questo, e non può credere che
Platone, Aristotele, quei maestri solenni di sapienza
umana, che gli scrittori antichi a una voce lodano, possano
aver insegnato la dottrina di cui essi vedono la tardiva e
sfigurata immagine nelle scuole del loro tempo. E poiché,
in realtà, noi troviamo soltanto quello che cerchiamo,
gli umanisti, che imparano il greco, e vanno a leggere nei
testi originali e traducono e commentano, col sussidio
dei più genuini commenti greci, gli scritti di Platone
e di Aristotele, scoprono un mondo nuovo; un altro Pla-
tone e un Aristotele nuovo da quelli che erano stati i
maestri della filosofia medievale; non dico di quella filo-
sofia, ansimante nella logica terministica degli occamisti,
che sul cadere del Trecento lacerava le orecchie delicate
nei primi umanisti fiorentini, i quali avviarono pure i lavori
delle nuove traduzioni greche (cotesta è la filosofia della
decadenza medievale) ; ma di quella che è la vera, la essen-
II. KKKXARDINO TE'IJESIO
1 -17
ziale filosofia del l'epoca: la filosofia della trascendenza e
dell’intellettualismo. E non occorre avvertire che, se non
trovano più i maestri di questa filosofia, ciò avviene
perché muovono da una situazione spirituale affatto nuova,
che fa di questo ritorno all’antico, che avviene nel Quattro-
cento, qualcosa di radicalmente diverso non solo dalla
primitiva elìenizzazione del cristianesimo nel periodo
alessandrino, ma anche, e sopra tutto, da quel primo
ritorno alle fonti greche del sapere, che era già avvenuto
nel sec. xiii, nel tempo stesso di Tommaso d’Aquino.
Marsilio Ficino e Pico della Mirandola, in cui culmina
la direzione piatonizzante, sono platonici, eppure profonda-
mente cristiani; e un’aura di mistica religiosità pervade
il loro pensiero, che vede c sente Dio per tutto, e somma-
mente nell’anima umana. E ispirandosi ai Neoplatonici
piuttosto che a Platone, più della trascendenza, che non
possono negare, accentuano l’immanenza del divino nella
realtà naturale e aspirante a ritornare all’Uno da cui
trae la sua origine. E aprono la via a Leone Ebreo e a Gior-
dano Bruno.
Pietro Poniponazzi, il maggiore aristotelico, fiorito al
principio del sec. xvi dal movimento filologico sui testi di
Aristotele del secolo antecedente, scopre un Aristotele,
che non è più quello dei tomisti, né quello degli averroisti :
un Aristotele, che, a poco per volta (secondo apparisce
dai vari gradi attraversati dalla speculazione stessa del
Pomponazzi), perviene alla dimostrazione di questa tesi
gravissima: che la materia si possa sollevare da sé fino
all’intelligenza, senza il sussidio deirintelletto separato;
e che l’anima umana, ultimo risultato perciò del processo
della natura, possa compiere in questo mondo, con le sue
forze, tutta la sua missione, che è principalmente il ben
fare, la virtù; e che tutti poi i fatti della natura debbano
pel filosofo spiegarsi meccanicamente, per le loro cause:
un Aristotele, insomma, per cui quel che rimane di tra-
i48
ir. BERNARDINO T ERESIO
scendente (e rimane tutto quello che nell’Aristotele ori-
ginale e nell’Aristotele medievale, ossia nella scolastica,
era tale) non serve più alla ricostruzione e spiegazione
della realtà che è la sola realtà del filosofo.
Sicché la filologia del sec. xv riesce, ricalcando gli antichi
modelli con lo spirito nuovo dell’Umanesimo, a cavarne
due intuizioni generali, in cui la filosofia greca riapparisce
trasfigurata e come ricreata dal soffio del cristianesimo,
inteso come affermazione dell’autonomia e del valore
assoluto della natura e dell’uomo. La nuova filosofia
infatti dicesi platonica e aristotelica; ed è cristiana, ancor-
ché mal veduta e condannata dai rappresentanti ufficiali
del cristianesimo.
Guardatela in Machiavelli, contemporaneo di Pompo-
nazzi e suo coerede della tradizione filologica del sec. xv.
Tutto il suo realismo politico, quella concezione dello
spirito, della storia, dello Stato, fondata sulla visione
della realtà effettuale e illuminata dalla lezione degli
antichi, non è, come il positivismo guicciardiniano, un
empirismo, ma una vera e propria speculazione (Machia-
velli è un idealista). La quale dello studio degli antichi si
giova solo per liberare l'uomo dalle contingenze storiche,
quali sono per lei tutte le forme e istituzioni medievali
sorrette dalla autorità di una tradizione irrazionale ; a
fine di studiarlo per quel che esso è, nelle sue forze e nelle
sue reali attinenze col resto del mondo, vero ed unico
autore della sua storia: una specie di naturalismo del
mondo umano.
Guardate, dico, questa nuova filosofìa nel Machiavelli.
Machiavellismo dopo un secolo, nel Campanella, sarà
sinonimo di « achitofellismo », negazione di ogni fede reli-
giosa. E l’achitofellismo, più o meno apertamente e corag-
giosamente, è la conclusione definitiva e il succo delle
dottrine di tutti i pensatori del Cinquecento: anzi, di
tutto lo spirito italiano del secolo, a cui l'interpretazione
II. BERNARDINO TELKSIO
I49
aristotelica si ispira e si conforma. Giacché averroisti e
alessandristi, per diverse vie, tendono tutti alla stessa
mèta: che è la spiegazione naturale di quel che una volta
pareva superiore affatto alla natura. E gli artisti, si chia-
mino Ariosto o Folengo, non conoscono altro mondo,
oltre quello naturale ed umano.
Ma negavano perciò Dio? Se Dio è quel Dio, che stando
fuori della natura e dell'uomo, ci rende impossibile conce-
pire una natura divina e un uomo divino, Dio essi lo
negavano, perché tenevano ad affermare il valore assoluto
della natura e dell’uomo. Ma quel Dio, che era sceso in
terra, e si era fatto uomo, e aveva redento la natura, era
la radice della religione, che essi primi, dopo il lungo tra-
vaglio medievale, ristauravano nella coscienza della uma-
nità.
Essi, infatti, per la prima volta, rivendicavano in libertà,
dalle presunzioni mistiche o intellettualistiche, causa per
opposte ragioni di oppressione aduggiatrice, il senso pro-
fondo proprio del cristianesimo, della divinità della vita
che crea eternamente se stessa, dell’essere che nella propria
logica ha eternamente la ragione del proprio trasformarsi
e perpetuarsi trasformandosi.
Quando l’Umanesimo venne per tal modo, in chi prima
e in chi dopo, alla maturità della Rinascenza, lo spirito
umano potè mettere quasi l’anelito potente di una nuova
vita : e da filologia farsi filosofìa. Quando il nuovo Platone
e il nuovo Aristotele ridiedero all'uomo il concetto dello
immanente suo valore, e l’ebbero #allenato alla libertà
dell’esser suo, e dell’essere naturale a cui il suo essere
appartiene, lo stesso Platone e lo stesso Aristotele (questi
sopra tutto, che era stato il vero signore delle scuole e il
maestro di ogni umana sapienza) dovevano necessaria-
mente perdere il loro prestigio di rivelatori privilegiati
delle verità naturali.
IL B ORNAR DINO TI.LKSIO
I50
L’umanista è ancora un platonico o un aristotelico:
cerca la scienza ; e non sa né anche come deve cercarla ;
e interroga gli antichi, che la tradizione e la fama consacra
nella generale estimazione come i filosofi. Ma il filosofo
della Rinascenza da questi antichi, meglio conosciuti e
studiati con lo spirito nuovo delLUmanesimo, ha appreso
che la natura si spiega con la natura, la storia con la storia ;
e che bisogna cercare quindi nel gran libro della natura
e della realtà effettuale dei fatti umani che cosa è la natura
e che cosa è Tuomo. Gli antichi maestri rimandavano i
nuovi scolari all’osservazione diretta di quel che essi
avevano osservato e inteso come era possibile a loro,
senza nessun sentore della imprescindibile presenza del
soggetto umano nel mondo dell’uomo. La libertà, che gli
scolari appresero da loro, quali essi li videro coi loro occhi
nuovi, la libertà essi raffermarono ben presto contro
l’autorità dei maestri, che faceva della verità qualche cosa
di dato e di estrinseco alla mente come il Dio nascosto della
teologia, come la realtà dell’ intellettualismo. E però gli
umanisti, divenuti filosofi, come parvero, e in un certo senso
furono, atei e achitofellisti, furono antiaristotelici e, in
generale, ribelli all’autorità degli antichi. Tutti colpiti da
un fantasma affatto nuovo, non intravvisto mai dagli
antichi scrittori: quello della Verità. La quale si leva su
dai libri e dai tripodi, in cui i vecchi pensatori e sacerdoti
l’avevano collocata quasi paralitica impotente: e si sgran-
chisce, e procede col tempo, e vive di questo suo cammino
pei secoli, anzi per le menti delle generazioni, che si succe-
dono, e mai indarno : .quasi fiamma che passi da una mano
all’altra e mai non si spenga, anzi accenda sempre nuovi
incendi, sempre più vasti.
Veritas filiti temporis / Gli uomini, che per lo innanzi
avevano concepito la verità quasi vivente per sé e non
risultante dal loro lavoro, l’avevan sempre relegata dietro
a sé, al principio della vita, nel paradiso terrestre, nell’età
11. BERNARDINO T ERESIO I5T
dell'oro, nel vangelo rinnovatore e iniziatore di un’era
nuova già fin da principio perfetta, o, per lo meno,
se verità accessibile a mente umana, nell’insegna-
mento degli antichi, venuti crescendo perciò sempre
più nella venerazione dell’universale e illuminandosi della
aureola della saggezza, onde agli occhi dei fanciulli si
ricinge sempre la canizie dei vegliardi. -— Sì, è vero, si
comincia a dire sulla fine del sec. xvi : la sapienza cresce
cogli anni; ma i vecchi siam noi, non quelli che furono
prima di noi, — Così dice Bruno; e così ripeteranno Baco-
ne e Cartesio, Pascal e Malebranche, e poi con voce ognora
più alta tutti i filosofi moderni r. I quali affermeranno con
coscienza sempre più salda la legge del progresso del sapere
e della verità: il valore serio, divino della storia, come
sviluppo, che è incremento continuo della realtà. Sicché i
vegliardi di una volta si trasfigurano in fanciulli; e i già
fanciulli, usciti di minorità, e abbandonato alla scuola dei
pedanti (come allora cominciarono a dirsi) il culto
degli antichi, acquistano il giusto orgoglio degli uomini
fatti, e la coscienza della propria capacità dì concorrere
al progresso della scienza.
Che anzi questa uscita di minorità, nella sua primitiva e
ovvia forma di reazione al lungo servaggio passato, scoppia
come ribellione, e si ricompone tardi e lentamente a equo
giudizio storico delle benemerenze incontestabili degli
antichi. Così, se una volta, come notava nel sec. xn Gio-
vanni di Salisbury, Aristotele era stato il filosofo per anto-
nomasia 2, e nessuno si scandalezzava della fanatica iper-
bole di Averroè che nello Stagirita vedeva « la norma della
natura e quasi un modello, ond’essa avesse cercato di
esprìmere il tipo delbumana perfezione 3 »; nel Cinque-
1 Cfr. la mia nota Veritas fiha temporis, ora nel voi. G. Urano e il
pensiero del Rinascimento, Firenze, Vallecchi, 1920.
2 Metal,, libr. II, c. 16 e Policr., VII, 16.
3 Renan, Averroes \ pp. 55-6.
II. BERNARDINO TERESIO
in-
celilo continua bensì, almeno nelle grandi edizioni di tutti
i suoi scritti voltati in latino e commentati in uso delle
tante scuole dove rimaneva sempre il solo testo di studio,
continua egli a godere il titolo pomposo di princeps philo-
sophorum', e la Chiesa cattolica a lui, come a patrono
invincibile della sua dottrina, valido alla repressione di
ogni libero tentativo di riscossa, si tiene sempre strettis-
sima; talché ancora nel 1615 Federico Cesi badava ad
avvertire il suo grande Galileo che a Roma « li contrari
ad Aristotele sono odiatissimi 1 ». Ma lungo tutto il secolo
è una polemica incessante prima contro gli aristotelici, e
poi contro Aristotele, preparatrice del rinnovamento
baconiano.
Ricorderò Mario Nizzoli (1488-1566), il quale nel suo
Ant-ìbarbarus philosophicus (1553) non dubita di affermare
che chi si mette sulle orme di Aristotele, non potrà mai
nec recte philosophari nec perfecte veritatem invenire. Racco-
manda sì la lettura delle opere aristoteliche : ma cimi dili-
genti consideratione atque indicio. Ne pregia alcune; ma
nella maggior parte della Fisica, in non pochi punti della
Metafisica e in tutta la Logica trova dottrine false, o inu-
tili, e perfìn ridicole. Ad Aristotele, secondo il Nizzoli, si
può applicare il proverbio: Ubi bene, nihil melius: ubi male,
nihil peius 1 2 3. Insomma, in tutte le sue critiche contro
Aristotele uno studioso inglese di Bacone 3 può notare
quell’impazienza e quell’asprezza, che son solite negli
scritti del Cancelliere inglese. E basti vedere le due avver-
tenze, che il Nizzoli, alla fine del suo libro, propone a chi
voglia rettamente filosofare, di mandare a mente. La se-
conda delle quali, nello stesso latino delVAntibarbaro,
suona: Quamdiu in scholis philosophorum regnabit Aristo-
1 Opere di G. Galilei, ed naz., XII, 130.
2 Antìbarb., ed. Leibniz, Francoforte, 1674, pp. 2, 5, ó.
3 II Fowler nell’Introd. alla sua edizione del Nov. Ovganum,
Oxford, 1889, p. 8r.
H. BERNARDINO XELESIO
153
teles iste dialecticus et meta physicus, tamdiii in eis et falsi-
tatem et barbariem, si... non linguae et oris, at certe pectoris
et cordis regnaturam.
Ricorderò il francese Pietro Ramo (nato nel 1515 e
morto nel ’72, la notte di San Bartolomeo) : il quale con
le sue Animadversiones in dialecticam Aristotelis (1545)
avrebbe, secondo il Bruno 1, mostrato molto eloquente-
mente di esser poco savio ; ma creò ad ogni modo una nuova
scuola di logica, esercitando una grande azione anche fuori
della Francia, al suo tempo. Costui, secondo un suo bio-
grafo, si laureò dottore d’arti a Parigi con una tesi: Quae-
cumque ab Aristotele dicta essent, commentitia esse: bugia
ogni detto di Aristotele ! Tanta la virulenza della sua
polemica contro la logica dell’antico, che il Ramo dice
non hostem Immani indicii, sed tortorem carnificemque,
da muovere a sdegno i più spregiudicati tra i moderni.
IV
Vita e scritti di B. Tdesio
I pensatori, adunque, intorno alla metà del sec. xvi
cominciano a proporsi con intera libertà di spirito i problemi
filosofici: libertà da preoccupazioni trascendenti e da pre-
giudizi di tradizione. E tra questi pensatori ecco sorgere e
grandeggiare, come il rappresentante più cospicuo della
tendenza nuova, il primo che costruisca tutta una filosofia
dal nuovo punto di vista conquistato dal Rinascimento,
l’annunziatore del nuovo giorno, Bernardino Telesio.
Egli incarna il tipo del filosofo letterato, continuatore
della tradizione filologica dell’Umanesimo: del filosofo, il
il cui mondo vero è quello del pensiero, e l’altro non lo
1 Bruno, Opere italiane, ed. Gentile, I, 196.
Il, KERXARDIXO TELKSIO
154
tocca; che si chiude nella sua filosofìa e si estrania alla
realtà storica, che egli più non vede, e che diventa pertanto
inafferrabile alla sua filosofia, cui pure, come a scienza
del tutto, nulla dovrebbe sfuggire.
La vita del Telesio q quando si astragga dalla storia dello
svolgimento del suo pensiero, si racconta in poche parole,
perché è appunto la vita di un uomo, che vive tutto chiuso
in se stesso; e se vi giunge il rumore fioco del mondo che
si agita attorno al filosofo, è, tutt’al più, il saluto benevolo
degli amici, facili a chi, non contrastando altrui nessun
bene mondano, non si toglie per sé se non quello, che par-
tecipato non si scema; o è il consenso o il dissenso degli
studiosi, che con lui si sequestrano dalla vita comune; o è
il malinconico ricordo della famiglia e degli affetti e interessi
domestici, che, trascurati, diventano fonte perenne di af-
fanni e impedimenti dolorosi al pensiero dominante del
filosofo assediato sempre dalla immagine raggiante di
quella donna bellissima, che Bernardino amava di ripro-
durre sul frontespizio dei suoi libri: tutta nuda, nel verde
piano, lungi dalle città dei mortali, le braccia aperte e
aspettanti, illuminati il petto e la fronte dal sole; e intorno
il motto appassionato: pò va poi oiXa, «sola a me cara»:
la divina Verità, di cui Giordano Bruno canterà che nuda
de loto iaculatur corpore lucem1 2;
e per la quale egli, il Telesio, nella tarda età, raccogliendo
nella sua opera maggiore il frutto di una lunga vita a lei
consacrata, si scusava delFaudacia del suo dissentire da
Aristotele, interprete sommo, anche a suo giudizio, della
natura, ammonendo i proni aristotelici del suo tempo, che
1 Per la vita del T., quando non siano citate altre fonti, mi attengo
all’Orazione del D’Aquino e alla monografìa del Bartelli (vedi Bibliogra-
fìa, II, n. 29), a cui si deve la scoperta di molti documenti inediti e un
acuto esame dei ragguagli biografici antichi.
2 G. Bruno, De immenso, in Opera lai. conscr,, ed. Fiorentino, I, il, 290.
11. BERNARDINO
*55
I i.l. bSIU
si ricordassero di quel che il maestro aveva detto, o imitas-
sero quel che aveva fatto. « Giacché Aristotele stesso vuole,
che in filosofia innanzi a tutti gli amici si onori la verità,
in grazia della quale ei non teme riprendere anche il suo
maestro ed amico. E mossi dall’amore di lei sola, per certo,
e lei sola venerando, noi, non sapendo acquetarci a quel
che avevano insegnato gli antichi, a lungo abbiamo scru-
tato la natura ; e, se non c'inganniamo, scopertala, l’abbia-
mo voluta svelare ai mortali, stimando non essere da
uomo probo e libero, occultarla al genere umano per invi-
dia o per tema dell'altrui invidia 1 ».
Essa sola ! Fuori di questo mondo, adunque, in cui egli
raccoglie e critica la tradizione antica c scruta da capo la
natura, finché non gli paia di scoprirne il segreto, e questo,
da ultimo, si accinge a comunicare agli altri, è vano cer-
care il Telesio: potrete trovare un’ombra, non la persona
viva. Egli è tutto lì, ne’ suoi libri.
Nei quali c’è bensì un punto, che fermò già Bacone 1 2 3,
ma che è sfuggito, credo, a tutti i biografi, anche al sagace
e diligentissimo Bartelli, che mi piace nominare subito a
titolo di onore, e a sdebitarmi qui della riconoscenza che
gli debbono gli studiosi del Telesio: un punto, che è come
uno spiraglio aperto in cotesto mondo intellettuale ; e
attraverso di esso trasparisce vagamente qualche cosa della
vita privata dell’uomo. A proposito di certa indagine speri-
mentale intorno all’azione del calore in ragione della sua
quantità — indagine che il Telesio, per conto suo, ritiene
impossibile — egli esce in queste parole: «Così vi riu-
scissero altri, dotati d’ingegno più perspicace e in grado di
studiare la natura con tutta tranquillità, sì da diventare,
non pure onniscienti, ma onnipotenti. A noi, per confes-
1 De rer. natura, III, i; cfr. proemio alla edizione 1565 del De ver.
princ., in principio e in fine.
3 Bacone, De principiis atque originibus secundum fabulas Cupidinis
et Coeli, in Philosophical Works, ed. Ellis e Spedding, III, 108.
11. B E R N A R DINO T E L E SIO
*5<>
sarlo ingenuamente, d’ingegno più grosso, e a cui filosofare
non è stato possibile se non negli ultimi anni della vita
(extremum vitae spatium), e tutt’altro che liberi da noie
e da affanni, anzi gittati nelle maggiori angustie e nei
dispiaceri più gravi dalla scelleratezza e inaudita crudeltà
di coloro, dai quali avremmo dovuto più essere amati,
onorati e favoriti, è abbastanza se possiamo scorgere qual
calore e quanto conferisca una data disposizione a una
data mole materiale » L E accenni simili, in verità, a preoc-
cupazioni e cure personali, e infine al dolore acerbo, onde
nel 1576 fu colpito il cuore del filosofo già declinante a
vecchiaia pel truce assassinio del suo giovinetto Prospero,
il primogenito, si ripetono nelle prefazioni sue e d’un fido
scolaro a’ suoi libri : ma suonano appunto come lamenti di
un destino maligno, che turbò quella vita serena, che Ber-
nardino avrebbe voluto vivere, raccolto nella meditazione
delle sue idee.
Bernardino fu il primo dei sette figli di Giovanni e di
Francesca Garofalo. Dei quali il secondo, Valerio, fu barone
di Castelfranco e Cerisano, e non solo mantenne, ma
1 De rer. nat., I, 17. Lo stesso luogo trovavasi nell’edizione 1570, al
lib. II, c. 19. Cfr. Proemio all’ed. 1565: « Nisi vel laborem aliam indagandi
viam pertaesi homines forent, vel veluti praestigiis capti, vel, quod
de multis suspicari etiam licet, non sapientiae gratia, se se ipsos osten-
tandi venditandique philosophati, contenti igitur Aristotelis vel Pla-
tonis verba sententiasque proferre, et Aristotelis praesertim nominis
fulgore mortalium oculorum aciem perstringere, non igitur ratione ulla,
nec, quod magis etiam oportebat, sensu ullo propria dogmata firmantes
at sola Aristotelis auctoritate; iamdiu defecissent ab homine reor omnes,
et novam hanc, sensum sequuti, indagassent viam, quae sese omnibus
manifestasset, et multo quam nobis promptius acutiore praeditis
ingenio, et quibus ab ineunte aetate in magno ocio philosophiae vacare
licuit; nam nobis, crassiore tardioreque, ut ingenue fateamur, datis
ingenio, non nisi inclinata iam aetate id facere permis-
sum est, neque extremum hoc, nec diuturnum vitae tempus libere
nulloque impedimento, sed plurimis molestissimisque implicitis occu-
pationibus, in maximas angustias inaudito illorum scelere coniectis, a
quibus summe amari nos colique et foveri oportebat maxime ». Cfr. un
altro accenno dello stesso Proemio nel luogo riferito nella nota 3 di
P- 158-
TI. BERNARDINO TELESIO
'57
accrebbe le avite ricchezze; e certo pensò più a far danari,
che a farsi amare, se nel 1567 i vassalli lo denunziavano al
governo viceregio per luterano; e non essendo riusciti per
questa via a toglierselo di dosso, dodici anni dopo, cre-
sciuto il malcontento, lo ammazzavano. Paolo e Tom-
maso furono invece ecclesiastici modesti e caritatevoli:
Tommaso, vescovo di Cosenza dal 1565 al ’69, profuse
il suo a beneficio dei poveri; e aiutò il fratello Bernardino,
lontano il più del tempo da Cosenza e distratto, com’era
naturale, negli studi, a precipitare anche lui in povertà.
Bernardino, nato nel 1509, in una casa di Via Padolisi,
di fronte al monastero delle Vergini, dove il ricercatore dei
ricordi patrii può scorgerne tuttavia qualche rudere; si
allontanò fanciullo da Cosenza, seguendo lo zio Antonio,
umanista dottissimo in latinità e maestro assai valente di
lettere. E con lui era a Milano nel 1518. Da lui dovette
apprendere non solo il latino, che egli, pur contorcendolo
al faticoso periodo della più tarda scolastica, maneggia
con sicura padronanza del materiale linguistico-più puro;
ma anche il greco, poiché egli stesso afferma di avere stu-
diato la filosofia aristotelica più sui testi originali che sulle
traduzioni latine, il cui gergo gli riusciva incomprensibile V
Con lo zio chiamato a insegnare nel ginnasio romano,
passava a Roma forse sulla fine del J2i, certo prima del ’23.
E vi era nel celebre sacco di quattro anni dopo; anzi fu
fatto prigione, e potè esser liberato dopo due mesi a inter-
cessione del concittadino Bernardino Martirano, segre-
tario di Filiberto cl’Orange 1 2. Onde, poco stante, avendo lo
1 Cfr. il proemio all’ed. 1565 del De rer, princ., dove dice che a lui
solo fu dato « Graecorum monumenta evolvere, Latina non satis perci-
pienti ignotis referta vocibus». E il D’Aquino, Oraz,2, p. 21, dice che
il Telesio la lingua greca « la parlava, e scriveva così bene che parea
nato in Atene al tempo di Platone o di Tucidide ».
2 Su I Martirano vedi la monografia di F. Pometti (Roma, 1897, nelle
Meni, della R. Acc. Lincei), e cfr. la recensione del Croce in Giorn.
stor. d. lett. ita!., XXXI (1898), pp. 116-22.
1 -,S li. BERXARDIXO I ! ESlti
zìo avuto un insegnamento a Venezia, egli si recò a Padova,
per continuare lì e compiere la sua istruzione; e parecchi
anni vi stette, attendendo presso quello studio, allora tra
i più celebri e frequentati di Europa e centro principale
delFaristotelismo, alla matematica, all’ottica (in cui si
dice che facesse osservazioni nuove importanti) e sopra
tutto alla filosofia.
Quando sia venuto via da Padova ignoriamo. E le con-
getture desunte dalla cronologia dei papi, che, secondo il
suo antico biografo, il cosentino Giovanni Paolo d’Aquino,
ebbero in grande stima il filosofo, e che sarebbero poi stati
tutti quelli che pontificarono dalla giovinezza alla morte
di Telesio, sono prive di ogni ragionevole fondamento.
Ma lo stesso D'Aquino, che lesse il suo elogio nell’Accade-
mia Cosentina, poco dopo la morte del filosofo, di cui fu
amico e potè conoscere minutamente i casi, ci racconta
che Bernardino, « per poter meglio investigare i secreti
della natura, per molti anni sì disgiunse dalla frequenza
degli uomini, e sé liberò da ogni altro pensiero, e lasciò la
patria, i parenti, gli amici, e si raccolse in un monastero di
frati di san Benedetto e ivi abitò 1 »: molto probabil-
mente nella Granchi di Seminara 1 2 3. 11 che dovette acca-
dere poco dopo il ritorno da Padova, e qualche anno
prima del ’qo. Perché durante questi molti anni di racco-
glimento e di studi sappiamo da lui stesso non aver egli
scritto mai nulla 3 ; e solo ripigliò la penna quando si
credette arrivato in porto, e in possesso della verità già
faticosamente ma invano cercata nei libri di Aristotele, e
1 DAquino, Orazione2, p. iu.
2 Bartelli, Note, pp. 26-27.
3 « Quod igitur nunquam in animum induxeram prius, nihil a me
monumentis dignum investigari posse credens, cogitationes ipse meas
litteris mandare constitui, nefas putans veritatem, quae inventa visa
fuerat, abdi caelarique (sic); multo igitur labore iam inde a pueritia
intermissum scribendi munus repetitum est, et integrum naturale nego-
tium conscriptum»: Telesio, De rer. prine,, ed. 1565, proemio.
ir. BERNARDINO TELESIO
159
poi lungamente indagata nella stessa natura al lume di
nuovi principii balenatigli a un tratto alla mente. E sap-
piamo che. a scrivere cominciò, quando aveva lasciato
Seminara, a Napoli, ospite dei Carata, duchi di Nocera.
E doveva aver cominciato prima del '47, se il vescovo di
Fano, Ippolito Capilupi, potè dare al re Francesco I la lieta
novella che il giogo di Aristotele presto sarebbe stato
scosso, e che un italiano « aveva cominciato a scrivere »
contro la sua dottrina. Di che si sarebbe rallegrato il Re,
e avrebbe detto al Capilupi: « Io prometto che, se costui
fa quel che dice, io sono per dargli diecimila fiorini in
entrata » c
Lasciata dunque Padova con la scontentezza nell’animo
verso Fantica scienza che, durante gli stessi studi univer-
sitari, gli dovè apparire, quale sempre la giudicò negli
scritti, oscurissima, il suo pensiero si maturò intorno al
1540, nella solitudine del chiostro. Passato a Napoli, nella
conversazione degli studiosi ebbe occasione e stimolo a
dar corpo e sistema alle proprie idee: e allora abbozzò i
nove libri delia sua maggiore opera De rerum natura e alcuni
opuscoli su questioni varie di filosofia naturale: poiché
gli uni e gli altri diceva di aver pronti da un pezzo nel
1565, quando pubblicò il primo saggio del De rerum
natura 1 2.
Nel ’55 la fama della nuova filosofia batteva l’ale fuori
del Napoletano; poiché un altro Capilupi quell’anno rivol-
geva al filosofo novatore questa preghiera:
1 D’Aquino, p. II. Cfr. Bartelli, p. 31.
2 Che il De rer. nat. sia stato scritto in casa dei Caraia è detto da
Bernardino nella dedica dell’opera a Ferrante Carafa, ed, 1586: «Com-
mentarios de rerum natura, quos, ut probe nosti, excellentissime Prin-
ceps, magnis laboribus diuturnis confeceram vigiliis, edendos tandem
visum cum esset, sub tuis omnino auspiciis emittendas esse doctrinas;
nam et domi trae conscripti fuerant... ». Cfr. le osservazioni del Bar-
telli, p. 29 ,e il proemio all’ed. 15C5 (nella ia ed. di questo scritto, p. 108).
IT. BERNARDINO TELESIO
16o
Telesio, voi che col veloce ingegno,
Trascorso avete in sì pochi anni il mondo,
Misurando la terra e ’1 ciel profondo,
Già siete giunto di saver al segno ;
Mostratemi il cammin, se ne son degno,
Da seguir voi col bel lume giocondo,
Che trai* mi pò dal tenebroso fondo
D’alta ignoranza, onde ho me stesso a sdegno b
Allusione evidente all’atteggiamento risoluto, che già il
Telesio doveva avere assunto, di assertore di una nuova
filosofìa; la quale, per la stessa avversione che incontrava
naturalmente nei tenaci prosecutori della dottrina ari-
stotelica, doveva, come suole accadere, divenire più presto
famosa che conosciuta. Celebre, pel racconto che ne fa
lo stesso Telesio, il viaggio da lui intrapreso nel 1563 2,
per sottoporre la sua filosofia a uno dei più illustri peri-
patetici del tempo, ora quasi unicamente ricordato per
quest’aneddoto telesiano: Vincenzo Maggio 3, di Brescia ;
nella cui lealtà spregiudicata il novatore combattuto da
tutte le parti, e quel che è più, tormentato dal segreto
sospetto non forse egli s’ingannasse ad attribuire tanti
1 Lelio Capilupi, A Bernardino Telesio, son. nel libro V delle Rime
di diversi illustri signori napoletani e di altri ingegni, Venezia, 1555, p. 424:
rist, dal Daniele in Antonii Thylesii Consentirti qui saec. XVI ciarlìit
Carmina et epistolae, Neapoli, mdcccvtii, p, 3O e da Luigi Telesio in
D’Aquino, Orazione^, p. 61.
2 Per questa data cfr. Bartelli, p. 33. Il 20 settembre 1563 il Quattro-
mani alle notizie comunicategli dal Telesio rispondeva da Roma: «Io
non fo troppo schiamazzo, che l’opera di V. S. sia riuscita secondo il
desiderio dell'animo suo; perchè io sempre ebbi per fermo, che non
potea esser di meno, e quella cosa che agli altri è nuova a me è vecchia
di mille anni: pure me ne rallegro oltre modo, perché questi filosofi
romani s'immaginavano, che il Maggio non sarebbe mai concorsa con
lei, e raffermavano securamente; ora sono rimasti tanto arrossiti, che
non ardiscono di comparere tra gli uomini » (S. Oltattromani, Lettere
diverse eco., Napoli, 1714, p. 66).
3 Non « Giovanni » come per errore disse il Fiorentino (B. Telesio,
L 83), e ripetemmo il Bartelli {p. 33) ed io (ia edizione, p. 47) inavver-
titamente. Cfr. G. Bertoni, Il consulente di B. Telesio, nel Giorn. crit.
della filos. Hai., Ili (1922), fase. 30.
U. BERNARDINO TELESIO
rOi
spropositi a quell’Aristotele, a cui i maggiori intelletti
per tanti secoli s’erano inchinati, credette di far sicuro
affidamento. E a Brescia le sue speranze non vennero
deluse: la conversazione di quel brav’uomo gli restituì la
fede che gli era necessaria. Il Maggio lo tenne seco parecchi
giorni: lo ascoltò tranquillamente, pesò gli argomenti.
Contro i principii non trovò che oppugnare, e le deduzioni
riconobbe impeccabili. Argomenti da difendere in modo
soddisfacente Aristotele non seppe addurne; e confessò,
egli, il peripatetico illustre, per cui era certo un punto d’ono-
re salvare la reputazione del maestro, confessò che vera-
mente questi aveva errato a porre quei suoi corpi primi,
senza osservare la natura c argomentando dalle sue pre-
messe; e confermò anche che queste premesse erano in-
volte in difficoltà inestricabili e senza fine, rilevate dai
seguaci stessi; né gli parve inopportuno metterle sotto
occhio al Telesio. << Uomo nobilissimo », esclama questi
nel racconto che due anni dopo fece di quella visita al
Maggio: «nobilissimo, sì, di nascita, ma assai più di animo,
cultore e ammiratore soltanto della verità » c T>a lui fu,
1 « At neque adhuc mihi confisus cui, ut dictum est, extremum
modo vitae tempus philosophari licuit, et nequaquam in magno ocio
magnaque animi tranquillitate, neque in publicis inclitisque Italiae
Academiis a praestante aliquo viro edoceri, sed in magnis plerunque
solitudinibus, molestissimis oppresso impedimentis, Graecorum mo-
numenta evolvere, Latina non satis percipienti, ignotis referta vocibus.
Facile igitur suspicari vererique potenti, et revera suspicanti interdum ve-
rentique deceptum me (neque enim fieri posse, ut tot praesfantissimi viri,
tot nationes, atque adeo humanum genus universum tot iam saecula
Aristotelem coluerit in tot errantem tantisque) Madium Brixianum
adire et consulere visum est, quem et in philosophia excellere vide-
bamus, et cuius mihi iamdiu animi ingenuitas innotuerat; ut, si a prae-
stantissimo viro cogitationes meae non improbatae forent, nequaquam
supprimerentur illae; sin minus, errores intuitus meos, quod reliquum
vitae esset, et ipse Aristoteles suspicerem venerarerque. Brixiam itaque
ad Madium profectus, et itineris mei exposita ratione, nequaquam ille,
quod multi fecerant, et quod facturum et illum minitati fuerant, inau-
ditum reiecit; at summa diligentia plures dies, quibus apud illum fui
et summa cum animi tranquillitate et audiit et perpendit omnia.
Principia nihil improbavit, et quod non e principiis flueret, videre nihil
11. — CiEirriCE, I problemi rlrlfa scotaxlica'.
lbT
11. R K li N A li I> 1N O TELKSTO
dunque, incoraggiato a pubblicare la parte fondamentale
dell’ardita dottrina, che da così lunghi anni andava rivol-
gendo nell’animo e timidamente comunicando agli amici.
Allora bensì egli sentiva le imperfezioni che erano tut-
tavia nella sua opera, da cui quasi un avverso destino
gli pareva lo avesse a lungo distratto. E continuò negli
anni seguenti a correggere e rifare. Tornò anche sopra i
primi due libri, quando li ristampò nel ’70 accompagnan-
doli con tre opuscoli De his quae in aere filini et de terra e-
motibus, De colorimi generai ione e De mari. Finché da
ultimo si apprestava a rifonder il suo vasto trattato, che
gli riuscì di dare in luce intero solo nella vecchiaia avan-
zata. Con l’incontentabilità propria di chi giunge con
fatica, per una via aspra e non più tentata, alla scoperta
di un pensiero nuovo, e si sforza di dargli la forma classica,
onde si avvantaggia la scienza ricevuta, con quella incon-
tentabilità inquieta, che uno scolaro del Telesio attestava
di lui ripubblicando, dopo la sua morte, insieme con nuovi
opuscoli di metereologia e psicologia i tre già stampati
dall'autore ma arricchiti di aggiunte e correzioni inedite
di forma e sostanza r, Bernardino Telesio attorno al suo
potuit. Aristotelem in nullis certe satis defendere est visus; damnavit
etiam illum prima constituentem corpora, nequaquam res ipsas intui-
tum, tot illum taliaque posuisse affirmans, at proprias sequutum po-
sitiones, neque igitur talia esse illa, qualia Aristoteli ponuntur, et ipsius
positiones ab innumeris, iisque inexplicabilibus excipi difficultatibus,
quas, a suis descriptas, ostendi nobis curavit. Vir videlicet genere qui-
dem nobilissimus, at multo animo magis, et nihil nisi ipsam colens
suspiciensque veritatem, nihil, quem ipse interpretabatur, cui igitur
veluti luramento obscrictus videri poterat, veritas Aristotelem, quin,
ubi parum placeret, oppugnaret illum, et damnaret etiam defendi
impotentem »; B. Telesii, De rer. nat., Romae, 1565, proemio.
1 Antonio Persio in Telesii varii de naturalibus rebus libelli (Vene-
zia, 1590), aggiungendo al De mari tre capitoli inediti: «Tria haec,
quae sequuntur capita de maris aestu, a Telesio quidem et ipsa
elucubrata sunt, sed tamen ab eodem in prima huiusce libelli editione
consulto praetermissa; idque ea, ut puto, de causa, quod in hac con-
templatione nondum sibi plane satisfaceret. Erat enim tum in alienis,
tum maxime in propriis sententiis iudicandis sane quam difficilis atque
morosus. Itaque nihil edere ille solebat, quod non longa adhibita di-
II. BERNARDINO TELES IO
lñ3
libro maggiore lavorò insistentemente, instancabilmente
quasi mezzo secolo.
Vi lavorò tra affanni continui, col desiderio tormentoso,
sempre inappagato, di un po' di tranquillità, sotto bassi Ho
di cure e dolori domestici, che non gli diedero mai tregua.
Un raggio di luce nell’animo suo scende nel 1553, quando
il filosofo solitario, il meditabondo indagatore della natura,
si fa una famiglia. Sposa Diana Sersale, una vedova, già
madre di due figli. Ma Diana morì otto anni dopo, lasciando
altri quattro figli di Bernardino. Quegli anni ei si fermò
abitualmente a Cosenza. Qui nel ’54, era sindaco dei nobili.
Oui è fama adoperasse di buon grado la sua autorità a
comporre i litigi dei concittadini, a pacificare gli animi,
amato com'era da tutti e tenuto in somma venerazione.
Qui molta parte dovè prendere ai lavori dell’Accademia
Cosentina ; la quale, seguendo lo svolgimento generale
della cultura contemporanea, dalla filologia, si volse allora,
per opera principalmente del Telesio, alle quistioni filo-
sofiche o naturali ; e finì col chiamarsi telesiaiia. Sulle in-
felici vicende economiche di Bernardino, interrotte, pare,
per qualche anno dall’aiuto che al marito speculativo
potè porgere la Diana, ma fattesi più gravi subito dopo la
morte di costei, diventando motivo di sempre maggiori
dispiaceri al filosofo, perseguitato dai creditori, non giova
fermarsi. Nel ’64 Pio IV gli offre a sollievo l’arcivescovado
di Cosenza; ma egli prega il Papa che voglia conferirlo
piuttosto al fratello Tommaso: «per attendere a’ studi»,
scussione lente prius ac fastidiose probasset. Nos tamen, ne ea quidem
intercidere aequum putantes, quae ipse rudia atque imperfecta reli-
querat, pauca haec de manuscripto exemplari diligenter excepta, prius-
quam ea sibi aliquis vindicaret et ut sua rmnditaret, in calce huiusce
libelli excudenda curavimus ». E già nel 1573 il Martelli, traducendo
i primi due libri del De ver. nat., secondo l’edizione di tre anni prima
avvertiva che «in alcuni luoghi... l’Autore li ha egli stesso ultimamente
ricorretti e in questo modo acconci » CPalermo, Mss. Palatini, III,
p. II).
II. BERNARDINO TELENIO
I<>4
dice l'antico biografo 1. Ben più accetto poteva riuscirgli
l’invito di Gregorio XIII (papa dal ’72 all’85) a spiegare
in Roma pubblicamente il suo libro; come l’altro simile
venutogli poscia da Napoli Ma vero e proprio inse-
gnamento non tenne, contento, come Socrate, alle conver-
sazioni cogli amici, ai quali apparve miracolo di dialettica
irresistibile e fu veramente maestro pieno di fascino ; con-
tento alle dispute con gli avversari renitenti alla nuova dot-
trina, non già per partito preso, come gli ammiratori del
Telesio solevano dire, ma perché fissi oramai in una forma
mentale, su cui quella dottrina non poteva avere più presa :
« Quando egli ragionava delle scienze e delle dottrine »,
ricorda il D’Aquino, « parea che gli ascoltanti fossero stati
tutti adombrati ; così stavano taciti e sospesi ad ascoltarlo ».
E il Ouattromani, che fu dei cosentini che risentirono più
l’efficacia di quella parola, e un anno dopo la morte del
Telesio pubblicò un lucido compendio della sua filosofia,
scrivendo al Telesio stesso nel 1563 : « Da che mi allonta-
nai da lei, quei spiriti, che in me erano generati dalla sua
presenza, e che mi rendeano pronto e ardito, sono tutti
spenti, e con loro anco annullato, e venuto meno ogni
giudicio e ogni sapere ». D’altra parte, un motto pitto-
resco 3 rappresenta al vivo la situazione degli aristotelici
sconcertati dalle critiche telesiane; ai quali il Cardinal
Farnese una volta avrebbe detto : « Ora che non ci è il
Telesio, tutti oppugnate le sue ragioni: ma, come egli è
presente, ciascheduno tace e si arresta ».
Alle opposizioni e malignazioni degli aristotelici di
Napoli, dove, morta Diana, il Telesio tornava spesso ospite
dei Carafa, gli fu scudo il colto e gentile duca Ferrante,
che l’onorava come padre. La gloria cominciava a dargli
1 D’Aquino, Oraz. 1 2, p. io.
2 Gir. Fiorentino, B. Telesio, I, 103.
X Riferito dal D’Aquino, Oraz.2, p. 11, e dal Quattromani, Lettere
di-, p. 66.
II. BERKARDI XO ’J » I I SUI
il suo conforto e la forza. I due libri ristampati a Napoli
nel ’70, con due degli opuscoli, erano a Firenze voltati in
volgare da Francesco Martelli, che li dedicava nel ’73 al
Cardinal dei Medici L Antonio Persio bandiva la dottrina
nell’Italia superiore, a Bologna, a Venezia, dove nel ’75
la difendeva in una solenne disputa pubblica 2; e a Padova,
dove diffondeva tra i dotti gli scritti telesiani. A solleci-
tazione di lui, uno dei filosofi più rinomati, Francesco
Patrizzi, nel ’72, comunicava al Telesio alcune osserva-
zioni su vari punti di quei due libri 3. E Bernardino ne
era spronato a rifarsi sempre di nuovo sulla sua opera;
che finalmente si risolveva a pubblicare tutta a Napoli
nel 1586.
L’anno dopo si ritraeva a Cosenza a finirvi la sua vita
di pensiero, di lavoro e di dolore. Della morte del suo
povero Prospero non s’era più saputo dar pace. E irre-
quieto tornava poco dopo a Napoli; poiché al 1588, —
anno che il Tasso da marzo a novembre trascorse a Napoli,
— credo sia da attribuire l’aneddoto raccontato dal Manso
nella vita del poeta: 4 «Fu Bernardino Telesio uomo di
acuto ingegno e di profonda dottrina e di socratici costumi ;
ma non di meno sentì acerbamente la morte di un figliuolo,
che gli fu ucciso senza colpa. Torquato, per votemelo
consolare, gli addimandò se quando il figliuolo non era
al mondo, egli si doleva che non vi fosse. Il Telesio rispose
che no. — Dunque, soggiunse il Tasso, perché vi dolete
ora che non vi sia? », Volle, commenta il Manso, « volle
contro il filosofo dispregiatore degli antichi valersi degli
1 Vedi un brano della ded. in Nicodhmo, Addizioni copiose delia
Bill. nap. del doti. N. Toppi, Napoli 1682, p, 53; riportato quindi dal
Fiorentino, I, 106 n. [La traduzione dei primi due libri del De rer.
natura fu pubblicata da F. Palermo nel 1868, come ha avvertito il
Troilo nell’Intr. al Quattromani (Bibl. II, 1). Cfr. Bibl. I, 2].
3 Vedi Fiorentino, O. c., pp. 359-60.
3 Vedi Fiorentino, II, App., pp. 375 ss.
4 Manso, Vita di T. Tasso, nelle Opere di T. T., Pisa 1832, voi.
XXXIII, p. 264.
II. BERNARDINO TELESIO
l()6
argomenti dei sofisti ». Povero filosofo, che s'illudeva di
non aver più posto nel cuore per nessuno, dacché la Sapien-
za, accendendolo della sua bellezza divina — come ei
canta negli esametri per Giovanna Castriota — l'aveva
tenuto tutto, fin dai primi anni, neH’amore di lei ! La vita,
che la sua filosofia escludeva, stritolava intanto il suo cuore
di padre.
Pure fin all'ultimo cercò il suo ristoro in quell’amore; e
il D’Aquino c’informa di opere, che egli avrebbe scritte
« intorno agli ottanta anni »; che esso D'Aquino, poco dopo
la morte del Telesio, vedeva in Cosenza « nelle mani di
diverse persone »; e incitava i concittadini, che purtroppo
non raccolsero l’esortazione, a non lasciar perire quelle
preziose scritture, dov’era « una maniera e sorte di logica,
che senza dubbiosità e senza sofismi ci insegna a discer-
nere il vero dal falso; e da esse si impara la vera astrologia,
cioè di salire con la mente al cielo, e la teologia, che ci
ammaestra a conoscere, riverire e servire Iddio ! » l.
v
Dottrina telesiana
Il Telesio morì nei primi dell’ottobre 1588 a Cosenza.
E qui fortuna volle si trovasse in quei giorni un gio-
vane domenicano, che studiava con ardore filosofia,
guardando al Telesio come all’astro nuovo che era sorto
all’orizzonte, e del Telesio doveva essere tra poco acer-
1 « Onde tu, generosa Città, che sai quante opere sono rimaste delle
sue da imprimersi e le vedi nelle mani diverse persone disperse, fa,
ti prego, che un tesoro cosi grande, e così occulto, per la tua dovuta
gratitudine risorga... Intorno agli ottanta anni fe’ queste ultime opere.
E se pure non saranno più perfette delle altre, trattarono (sic) di nuove
materie, e non mai udite insino a questo tempo... »: D’Aquìno, Oraz. 2,
PP- 32-33-
II. BERNARDINO TEI.USTO
167
rimo difensore contro gli attacchi dell’aristotelico Marta
di Napoli, e poi lino dei maggiori continuatori: Tom-
maso Campanella. Il quale non aveva fatto in tempo
ad accostarsi al vecchio maestro; e lo vide per la prima
volta nel catafalco, dove pel funerale affisse certi suoi
distici. Questi non ci sono giunti. Abbiamo invece il
duro ma fiero ed energico sonetto, in cui il Campanella
ritrasse il valore storico del Telesio, il « maggiore dei
filosofi », lo « splendore della natura », e accennò la pro-
pria filiazione ideale dalla filosofìa telesiana; un sonetto
che raccoglie attorno al maestro il meglio della sua scuola :
Telesio, il telo della tua faretra
Uccide de’ sofisti in mezzo al campo
Degli ingegni il tiranno senza scampo;
Libertà dolce alla verità impetra.
Cantan le glorie tue con nobil cetra
Il Bombino e ’l Montan nel brezzio campo:
E '1 Cavalcante tuo, possente lampo,
Le rocche del nemico ancora spetra.
Il buon Gaieta la gran donna adorna
Con diafane vesti risplendenti,
Onde a bellezza naturai ritorna;
Della mia squilla per li nuovi accenti,
Nel tempio universal ella soggiorna:
Profetizza il principio e ’1 fin degli enti.
Vincenzo Bombini, Sertorio Quattromani (il Montano),
Giulio Cavalcanti, il buon Gaeta, che avrebbe trattato
l’estetica secondo i principii telesiani, avanzando tutti
gli altri, erano (avverte, in nota, lo stesso Campanella)
accademici cosentini u
1 « Già il Telesio », osservava A. Tassoni in quello stesso tomo di
tempo del Campanella, « ha cominciato a far setta, e i Telesiani s’odo-
no nominar per le scuole aderendovi particolarmente i
Calabresi suoi»: Pensieri diversi, lib. IX, cap. XXXV,
i OS
It. BERNARDINO TELESIO
Egli poi, secondo la stessa nota, « filosofo dei principii
e fini delle cose », avrebbe elevato a più alto segno la
nuova scuola: «Rinnovò», com’egli dice, «la filosofia,
ed aggiunse la metafisica, e politica ecc., e la accoppiò
con la teologia » 3 4. Certo, la metafisica della primalità
campanelliana manca nel Telesio. Ed è pur vero il giu-
dizio di un altro grande ammiratore del nostro Cosentino,
Francesco Bacone, che la filosofia telesiana in sostanza
toglie di mezzo l’uomo e la sua azione sulla natura (artes
mediani cae, quae materia-m vexant) per non guardare altro
che la fabrica mundi, riuscendo una specie di filosofìa
pastorale o arcadica, che contempla il mondo placida-
mente e quasi in ozio 3; filosofia, che Bacone amava
mettere insieme con quella dei pensatori greci anteriori
a Socrate e di taluni moderni, come il tedesco Paracelso,
il danese Severino, l’inglese Gilbert, 1’ italiano Patrizzi
fondatori di nuove sette filosofiche, ideatori di altri si-
stemi astratti intorno alla natura delle cose, senza con-
seguenza per ciò che concerne le sorti umane: di quei
sistemi, che egli sdegnava come facili a disseppellirsi
dalla tradizione dei più antichi filosofi, e magari ad in-
ventarsi di pianta 3; egli, che avrebbe voluto che il filo-
sofo guardasse con un occhio alla natura, e con l’altro
alle umane utilità n Alla filosofia telesiana è estraneo il
grande concetto del regnimi hominis, proprio di Bacone.
Ma questa filosofia pastorale per Bacone era appunto
una metafisica: una di quelle filosofie che a lui pareva
si potessero adombrare nel mito di Cupido, dell’antico
Cupido: il primo degli dei, e anteriore a tutte le cose,
salvo il Caos coevo; senza padre esso, e primo principio
3 Vedi sonetto e nota in Campanella, Poesie, ed. Gentile, pp. 111-12,
e la mia nota ivi pp. 269-71.
2 De princip. atque origin., p. no.
3 Nov. Org., I, 116: De augm., lib. Ill, cap. IV, § 10.
4 De interpret, naturae, in Philos. Works, ed. cit., Ili, 786.
II. BERNARDI NO TELESKÍ
I <>[)
dell’ordine che sorse dal Caos, ossia deH’origine dell'uni-
verso; una filosofia insomma delle cause prime e delle
leggi supreme, oltre le quali non è dato procedere.
Lasciamo stare l’analogia che Bacone, come già il
Patrizzi fi vedeva tra la fisica del vecchio Parmenide e
la nuova dottrina di Telesio: analogia da lui stesso ri-
dotta al suo giusto valore, quando avverte che ai principii
parmenidei il filosofo Cosentino aggiunse del proprio la
materia, perché depravato dai concetti peripatetici - ; che
è come dire che la dottrina telesiana, in conclusione,
non è né parmenidea, né peripatetica, ma telesiana.
E certamente il raffronto con 1’ Eleate non regge per
nessun verso, chi consideri il valore della « doxa » ri-
spetto al pensiero metafìsico di Parmenide q e tenga
conto del carattere schiettamente dualistico della teoria
esposta nella « doxa », e interpreti, d’altra parte, il pen-
siero telesiano in relazione a quello che se ne può dire
propriamente la naturale matrice, la metafisica aristo-
telica, già così distante dalla posizione eleatica.
Certo, senza essere una metafisica, la filosofia telesiana
non avrebbe potuto esercitare l’azione storica che esercitò
in Italia attraverso Campanella, Bruno e tutto il natu-
ralismo meridionale del sec, xvii, e per tutta Europa
attraverso Bacone, che lo ha sempre presente, ora accet-
tando, ora criticando le particolari sue teorie, ma avendolo
sempre in gran conto come « il migliore dei moderni » u
Un riformatore della filosofia, — quale egli fu general-
mente celebrato dai contemporanei e da quelli che dopo
di lui sentirono il bisogno di appoggiarsi a lui per conti-
nuare la guerra del pensiero nuovo contro Laristotelismo,
1 Vedi lett. del Patrizzi al Telesio in Fiorentino, II, 375.
2 De princip. atque origin., p. iio.
3 La « doxa » parmenidea c, come tutti sanno, la pura fenomenologia
del mondo fisico; e la scienza vera per Parmenide è metafisica monistica.
4 Pei rapporti tra Telesio e Bacone vedi Ellis, pref. a Bacone,
Philosophical Works, I, pp. 49-53.
If. BERNARDINO TERESIO
IJO
costretto a rinchiudersi sempre più nelle scuole della tra-
dizione infeconda, — deve, almeno implicitamente, dare
un nuovo orientamento, e cambiare l’aspetto di tutta la
realtà agli occhi dei pensatori. E questo fece Telesio.
È pur vero ch'egli è, come dice Bacone, più valente a
distruggere che a costruire 1 ; ma è anche vero che la sua
critica demolitrice è essa stessa una costruzione.
Ora non possiamo esporre per minuto tutte le critiche,
che egli con lena che mai non si stanca rivolge alla meta-
fisica, alla tìsica, alla psicologia, all’etica e alle minori dot-
trine di Aristotele. Tanto meno possiamo seguire l’ardito
pensatore nelle singole teorie, che le sue nuove osserva-
zioni, e, sopra tutto, ravviamento generale del sua intel-
letto, gli fanno sostituire alle antiche. Ma basta in questo
riguardo notare, che l’ampiezza delia ricerca e la compat-
tezza delle soluzioni adottate in tutti i problemi, a cui si
era estesa la filosofia aristotelica, dimostrano che nel
De rerum natura contro l’aristotelismo si afferma e si
accampa una nuova intuizione del mondo: la quale riceve
infatti tutto il suo significato storico dalla sua posizione
verso Taristotelismo rimesso a nuovo dalla erudizione filo-
logica del Rinascimento, e liberato dagli adattamenti
medievali della scolastica. E questo significato conserva,
nel suo assoluto valore storico, per molti e gravi che sieno
gli errori commessi a sua volta dal Telesio nella sua nuova
costruzione: poiché una filosofia non attinge il momento
suo di vita eterna, e non vive nella storia, se non pel
principio che l’anima.
A cogliere questo principio non vi affidate alla guida dello
stesso autore : non guardate subito al titolo della sua opera;
a questo titolo, che promette di farvi intendere la natura
secondo i suoi principii, quasi Aristotele con le sue teorie
avesse fatto violenza alla natura, imponendole i propri
1 Destruendo quam astruendo melior-, in De prine, atque origin., p. 94.
!1. BERNARDIXO TJiJLKSlO
17 I
ingiustificati preconcetti. Su questo motivo polemico il
Tclesio insiste ; se non che è il motivo che in varia forma si
ripresenta in ogni polemica filosofica. La quale non può
impiantarsi nella fatua pretesa di sostituire le idee nostre
a quelle degli altri, ma la verità all’errore : e l’errore appa-
risce sempre come una costruzione arbitraria della mente
soggettiva, ripugnante all’essenza di quella realtà, a cui
tutti i filosofi mirano; e la verità, invece, come la intui-
zione diretta, la traduzione fedele, la ricostruzione ge-
nuina del reale nella purezza della sua oggettività. E se la
natura rerum, nel senso più profondo, è la realtà stessa da
Telesio non veduta se non come natura, il titolo di questa
opera, chi s’arrestasse all’intenzione dell’autore, accen-
nata nell'aggiunta iurta propria principia, sarebbe un
titolo adatto a tutte le opere filosofiche innovatrici, com-
prese quelle stesse di Aristotele. Ed è, al contrario, un
titolo significativo e caratteristico rispetto all’indirizzo
mentale telesiano, quando si faccia convergere su di esso
la luce intima della sua filosofia.
Non vi arrestate né meno alle proteste metodiche, di non
voler seguire altro che il senso, quasi la filosofia telesiana
dovesse riuscire un puro empirismo. Che tale questa filo-
sofia non è; e se l’intonazione della sua polemica antiari-
stotelica piacque all’orecchio dell’autore del Novum Orga-
num, egli è che anche Bacone, come molti altri pensatori
dopo di lui, s’illuse credendo che il metodo sia un antece-
dente della filosofia, e questa un prodotto di esso: laddove
metodo e filosofia sono una cosa sola, nel senso che la
filosofia è il concreto e il metodo l’astratto: né si ha una
filosofia perché si abbia un metodo, ma proprio l’opposto.
Fin da principio la mente del pensatore ha, sto per dire,
una certa impostazione mentale e quindi intravvede un
certo mondo, che lo preoccupa e gli pone innanzi, urgente,
il suo problema : simile alla macchia, la prima oscura
intuizione creatrice dello artista, che è già il nucleo del-
I y- II. UI.K.XAkiVNO ¡ i-.i.i MU
l'opera d'arte. E in quel germe c’è la filosofia con la sua
logica: la filosofia, che non potrà poi avere altro svolgi-
mento da quello che le vien prescritto dalla sua logica.
Quanto in particolare al Telesio, il motivo più potente,
quella che può dirsi la prima radice del suo filosofare anti-
aristotelico, non consiste in una o più difficoltà che l’espe-
rienza sensibile opponga, secondo lui, ai principii di Aristo-
tele. Né è codesta esperienza la fonte, a cui egli ordinaria-
mente ricorre per lo sviluppo e Elaborazione del suo pen-
siero. La sua natura, è vero, è la natura sensibile, materiale ;
né egli, in quanto filosofo, conosce realtà che si possa
concepire scevra di mole materiale. Tutto ciò che razio-
nalmente gli riesce d’intendere delle funzioni spirituali,
è per lui bensì spirito; ma non neU’accezione moderna di
questa parola, anzi come la materia che più sia stata
attenuata e assottigliata dal calore. E la natura materiale
e sensibile non pare si possa definire altrimenti che come
quella realtà spaziale, che è oggetto del senso, e quindi
come la realtà propria della filosofia che non ammetta
altro organo di conoscenza che il senso.
Ma anche questa determinazione è appena la superficie
della filosofia telesiana e di tutte le altre simili. L’afferma-
zione del senso, quando ha una reale importanza nella
storia della filosofia, può rispondere a un doppio bisogno:
al bisogno ideale dell’empirismo, che nega la metafisica
come scienza dell’assoluto, che d senso non coglie: che è
la tesi, per es., di Kant nella Critica della ragion pura e la
tesi a cui si arrestarono nel sec. xix i seguaci di quel posi-
tivismo filosofico, il cui maggiore sforzo parve rivolto alla
negazione della filosofia. O risponde al bisogno, che fu
proprio di Bacone, e più tardi della logica nuova della
filosofia moderna, nel significato che rimase affatto oscuro
nel Cancelliere inglese, pur grande animatore del pensiero
europeo, della mediazione dell’universale, della concre-
tezza storica del pensiero, che non è quale Platone e
II. BERNARDINO TELESSO
I?3
Aristotele lo immaginavano, un’astratta rete belì’e fatta
di concetti universali, ma vita di essi sempre nuova, ed
eterna come tale, nei particolari: affermazione dell’indi-
vidualità di fronte al generale, della logica reale di contro
a quella speculazione a cui gli antichi trovavano adeguata
soltanto la mente divina; e Platone, in fondo, né anche
quella, se s’intende a rigore il mito delle contemplazioni
sopracelesti del Fedro.
Telesio invece non è un empirista alla maniera dei posi-
tivisti, e molto meno di Ivant. E d’altro lato, in lui non
c’è sentore, checché si contenesse nelle opere logiche non
pervenute fino a noi, di una concezione storica e realistica
del pensiero. È un metafìsico; e un metafisico materialista,
E tanto egli rispetta il senso, quanto lo aveva rispettato
il primo sistematore del materialismo, quel Democrito,
che fu uno dei primi metafisici di grande stile in Grecia,
e che, per la sua distinzione di qualità primarie e qualità
secondarie, può a buon diritto ritenersi il vero padre
dell’idealismo, quale, movendo dalla stessa distinzione,
ripetuta dal Locke, ebbe a concepirlo, con uno sforzo che
mandò a monte per sempre il materialismo, il Berkeley.
E l’organo, con cui il Telesio costruisce la sua metafìsica,
è quello che è servito e servirà sempre a tutti i metafisici,
il pensiero puro; per cui la realtà — non l’apparente,
ma la vera, l’assoluta realtà, a cui ogni forma di realtà si
riduce, da cui tutto ciò che nasce proviene, e a cui tutto
ciò che passa ritorna, laddove essa sta eterna — non è
punto realtà sensibile, bensì realtà pensata.
Realtà pensata sotto tre attributi o forme fondamentali,
il cui giuoco soltanto può farci intendere la totalità delle
infinite variazioni dell’universo sensibile : due nature
agenti, secondo l'espressione telesiana, e una passi-
va: il caldo, che è principio di luce, di movimento, di
vita in tutte le sue forme ; e il suo contrario, il freddo,
principio di tenebre, di inerzia, di morte : l’uno con l’altro
r 71
TT. BERNARDINO TE LE SIO
in eterno contrasto nella m a t e r i a ; che è il terzo
principio, la mole che occupa lo spazio. Forza e materia,
come oggi si direbbe; e la forza duplice, e in lotta seco
stessa a produrre 1’alterna vicenda della natura, che è
nascere e perire continuo; un continuo nascere che è
pur perire; e un perire continuo, che è pur nascere 1.
Forza e materia, che, si badi, nella loro assoluta univer-
salità, sono veri e propri principii nel senso aristo-
telico, e non hanno nulla di sensibile ed empirico, benché
la loro manifestazione avvenga negli oggetti del senso V
Che anzi rintuizione centrale, e come il nocciolo del pen-
siero telesiano, è appunto una negazione, più risoluta e
più energica che non fosse in Aristotele, della empiricità o
realtà immediata di cotesti principii, e quindi neH’afferma-
zione del carattere metafisico e meramente trascendentale
di essi.
Giacché questo, a’ suoi ocelli, è l’errore aristotelico,
generatore di tutti gli altri da lui a uno a uno combattuti :
la separazione di ciò che in natura è uno ed inseparabile:
che male aveva separato prima Platone, e che Aristotele
non era riuscito più a unificare; la forma e la materia delle
cose: ciò che ciascuna di queste è, e per cui si pensa, l’idea,
e quella materia che alla filosofìa antica, come al pensiero
volgare, si rappresenta quale sostrato necessario alla realiz-
zazione dell’idea. Intesa la natura come divenire o genera-
zione continua di forme, questo divenire si schematizza
come movimento, che avviene nella materia, ma è l’attua-
lità della forma. Ora il principio del movimento, la radice
delle forme, che è come dire della realtà, in quanto divenire
naturale, anche per Aristotele ò in qualche cosa che, per
essere principio e non principiato, vera e assoluta causa
1 Vedi i primi capitoli dei De rer. natura.
- Cfr., per es., De rer. nat., III, 2; « Rerum principia, e quibus res
constant, cum antiquioribus fere omnibus tum Aristoteli tria visa sunt,
agentia contraria duo et materia una etc. Cfr. lib. III, cap. I.
II. BERNARDINO TELE SIO
e non più effetto, deve trascendere necessariamente la
natura, che è movimento, ed essere immobile. Cioè for-
ma pura.
La natura, pertanto, benché concepita come unità pe-
renne di materia e di forma, poiché la forma, in fondo, la
riceve da fuori, per sé, senza questa animazione estrinseca,
viene a ridursi quasi ad inerte materia : mera possibilità, o
potenzialità passiva delle forme. Donde quell’assenza di
valore nella natura e nell’uomo, — parte di essa, — che
abbiamo detto essere legata dall'antichità alla filosofia
del Medio Evo, e che lo spirito del cristianesimo doveva
superare. Telesio, il materialista, che cinque anni dopo la
sua morte sarà segnato all’Indice, si mette per questa via
nuova, desiderata dal cristianesimo; benché sulla nuova
via, che è lunga e non facile a percorrersi, si arresti al
materialismo, certamente insufficiente a giustificare il va-
lore nonché dell’uomo, della stessa natura. E la sua novità
può riassumersi in questi termini: la forma che,
per Aristotele, come forma assoluta,
era fuori della materia, per Telesio è
dentro, e una con questa: la natura,
che per Aristotele, come pura natura,
era mera possibilità, realizzata soltanto per
cause estrinseche, per Telesio è la sola
realtà; e però si spiega iuxta propria prin-
cipia. La mira, a cui questi confusamente, come accade
sempre nelle rivoluzioni ideali, quando tutto il mondo
rientra nel caos, donde la mente aspira tosto a ricostruire
il mondo nuovo (e di qui, la incontentabilità del Telesio,
che lavora tutta la vita all’opera sua 1) ; la mira, a cui egli
tende, è la ristaurazione dell’unità, lacerata dal dualismo
aristotelico.
Considerate infatti il nesso dei tre principii da lui stabi-
liti, materia, caldo e freddo. Il caldo, principio del movi-
mento, della vita, del senso, adempie nel suo sistema lo
ri. BERNARDINO TEI.KSiO
stesso ufficio che la forma in Aristotele; e se si consideri
che, data la funzione assegnatagli da Telesio, per cui il
calore, principio di movimento, natura agens, non si può
confondere come entità metafisica, col calore fisico e sen-
sibile, che è sempre una certa mole, un certo corpo calcio,
la differenza, in questo punto, tra Aristotele e Telesio è
più nella parola che nel concetto ; sebbene al secondo la
parola prescelta paia meglio corrispondere alla concretezza
determinata e reale della sua forma. La materia poi, Tele-
sio stesso lo dice, era già un principio aristotelico.
Profondo invece il divario, tra le due filosofie nel modo
di concepire il terzo principio: e questo divario, riverbe-
randosi nel concetto degli altri due, lo trasfigura, e confe-
risce a tutta la intuizione teìesiana un carattere radical-
mente diverso. Il divenire naturale, come ogni divenire,
non si spiega, ammesso pure il sostrato di esso, senza una
dualità di termini contrari e contrariamente agenti su
quel sostrato. Se il divenire è vivere, il vivere non si può
concepire se non come morire oltre che vivere; ovvero
come un continuo rinascere dalla morte, una continuata
vittoria sul potere distruttivo della vita. Generazione è
termine correlativo di corruzione, nel linguaggio aristo-
telico. Se nella superficie del gran mare dell'essere affiora
una forma nuova (e per Aristotele la natura è un continuo
affiorare di nuove forme), una forma vecchia deve scompa-
rire : la nascita è sempre una morte. Ma morte di che?
Della forma no, la quale, per sé, come pura forma, è
fuori della transeunte realtà dell'esperienza, non soggiace
all’alterna vicenda del vivere o del morire, e né anche
della materia, ricettacolo della novella forma. L’una e
l'altra sono eterne. Una risposta, nella posizione aristo-
telica, che stacca materia e forma, e fa il movimento
estrinseco alla materia, è impossibile.
Ma, se vita è morte, mistero questa, mistero quella. In
che consiste quella novità, che è l'entrar del vivente nella
ir. BERNARDINO TELESIO
vita? Donde viene egli? Che cosa è quel suo non-essere, a
cui sottentra il suo essere? I due problemi sono un solo pro-
blema, cioè se l’essere è la forma, che cos’è il non-essere
delle cose? Il non-essere di Aristotele non poteva essere, e
non fu un concetto, ma una parola messa lì, dove il con-
cetto non era possibile, destinata a diventare, come tutte
le parole siffatte, l’enimma e il tormento dei commenta-
tori; la GTÉpr(cri(; o privatici, come tradussero gli scolastici.
La privazione, che egli attribuisce alla materia, quasi un
certo desiderio e sentore o odore della forma assente, non
è materia per sé, poiché designa una relazione; non è
forma, di cui è appunto la mancanza; e non è unità di
materia e forma.
È, ripeto, una parola; ma una parola, che, introdotta nel
sistema, rende, o par che renda importanti servigi al pen-
siero. Infatti, senza di essa, la vicenda delle forme non
sarebbe in nessun modo pensabile : e il vivo sarebbe eterna-
mente vivo; ma di una vita identica alla morte, perché
senza mutamento, che è come dire senza vita.
Il terzo principio aristotelico, osserva Telesio, è mera-
mente negativo: non ens, non agens 1. Cioè, egli osserva
per combatter più efficacemente gli aristotelici coi quali
gli toccava di fare i conti: cioè, Aristotele non l’intese,
non lo poteva intendere così : ma così l’intendono invece i
peripatetici; e la materia, invece, dev’essere da meno
bensì e più ignobile della forma, ma positiva anch’essa,
affinché cooperi con la prima alla generazione naturale;
e anch’essa agente. E però il suo freddo, qual egli lo con-
cepisce, è il contrario, il non-essere del calore; il quale
non-essere, se rispetto al calore non è, in se stesso è: né
più né meno del calore; e però agisce davvero, opponen-
dosi a questo, contrastandogli il passo, limitandolo, e
concorrendo quindi con esso alla vita della natura.
1 De ver. nat., III. 4.
12, — Cikntilk, I problemi della scolastica.
II. BERNARDINO TELESIO
178
Poiché la forma telesiana è il caldo, quel che precede la
forma non è il nulla, la pura privazione, ma il freddo; ciò
che succede, del pari, non è nulla, ma il freddo. Per Telesio
questo precedere e succedere è solo relativo: che la forma,
assolutamente, in quanto caldo, non viene mai meno. Cioè,
se il freddo è negativo, ma reale, quanto il caldo, anche il
caldo è reale in quanto negativo rispetto al freddo: e la
vera realtà insomma non è mai né caldo assoluto né freddo
assoluto; ma caldo che vince il freddo, o freddo che vince
il caldo: ciascuno presupponendo e limitando il suo con-
trario, ed essendo presupposto e limitato da esso. Di guisa
che la realtà è, in fondo, la loro unità nella lotta, e a volta
a volta un momento della risoluzione del loro immanente
contrasto, un effetto unico della loro azione reciproca.
Il che importa che la sostituzione del freddo alla priva-
zione aristotelica è il superamento della trascendenza della
forma, il difetto fondamentale della filosofìa peripatetica,
anzi, nel suo significato generale, di tutta la filosofia greca,
come avvertimmo a principio. Telesio, con la sua coppia di
contrari cooperanti nella materia, libera la natura, che è
la realtà a lui nota, dalla trascendenza, e ne fonda per la
prima volta, dopo lo sviluppo della metafisica teistica,
bau tono ima, o com’egli diceva, la nozione iuxta propria
principia ; poiché ora possiamo intendere il valore speciale
di questo suo motto, che è una bandiera spiegata al vento,
a cui lo spirito moderno guarderà come a segnacolo di
libertà e di gloria.
E la materia? Per Telesio non è più il non-ente platonico
e aristotelico, ma il reale sostrato, e come a dire la realizza-
zione della contrarietà caldo-freddo che in essa si attua.
Le due nature agenti hanno come loro termine correlativo,
e quindi come implicito in se medesime, cotesta natura pas-
siva. Che se il caldo implica il freddo e viceversa, entrambi
implicano insieme la materia. E la realtà, che è atto, non è
II. BERNARDINO TELESIO
¡79
t r e ma u n o : e questo uno, essendo l'unità o sintesi
attuale dei tre principii solo astrattamente distinguibili,
è la materia che è calda e non è calda, perché è fredda e
insieme non è fredda. La materia è quello che è e non è
insieme, la genesi, il d i v e n i r e aristotelico, resti-
tuito alla logica del suo processo immanente.
In conclusione, la filosofia telesiana vuol essere un natura-
lismo monistico; per cui la realtà è l’opposto dello spirito,
la natura, rappresentata come materia ; ma questa materia
è movimento, e in quanto tale assume tutte le forme mon-
dane, dal corpo fìsico al pensiero. Potrebbe parere una
filosofia tornata, nel bel mezzo del sec. xvi, alla ingenue«,
intuizione dei filosofi ionici del vi e v secolo a. C. ; se questa
filosofia ora non risorgesse dal fermento della metafisica
platonizzante deìl’aristotelismo, che ha sdoppiato la realtà
fisica dei più antichi presocratici, e creato l’idea o forma, e
tutto un mondo estramondano, che il filosofo del Rinasci-
mento aspira a distruggere: ed è appunto nella demoli-
zione di questo mondo separato, ignoto ai filosofi ionici,
l’intonazione e il valore nuovo della filosofia del Telesio,
demolitrice più che costruttrice (destruendo quam astruendo
melior). Poiché la vera costruzione, in questo momento,
all’uscire del Medio Evo, quando lo spirito aspirava a
sgombrare il campo innanzi a sé, per istaurare la filosofia
adeguata alla vita nuova del cristianesimo, non poteva
essere se non demolizione.
La filosofia del Cosentino, lungi daH’affacciarsi con
l’ingenuo occhio di un Talete allo spettacolo della natura
che gli è di fronte, sente con la riflessione del moderno se
stesso nel flusso delle cose naturali; e nell’affermazione
energica dei principii propri onde la natura si spiega, e
per cui si rivendica in libertà, prorompe l’istinto dell’uomo
nuovo, ricreato dall’intuizione cristiana e portato a cer-
carsi dentro, come sostanza del proprio essere, la divinità.
TI. BERNARDINO TELESIO
t8o
Guardate a quel ragguaglio e quasi livellamento, che
Telesio fa delle operazioni superiori dello spirito umano
con le inferiori; e di queste con le funzioni psicologiche degli
animali, non distinte altrimenti che per grado, ma identi-
che qualitativamente ; e poi del sentire col fatto fisiologico ;
che non è se non movimento di uno spirito, materia resa
estremamente sottile dal caldo: e poi quella sua estensione
del senso, a tutto il caldo e a tutto il freddo o, come bisogna
intendere, a tutta la materia la quale, anche se fredda,
poiché il freddo è un prevalere sul caldo, è, un po’ almeno,
anche calda; e considerate che, — negata ogni finalità
intesa, a mo’ di Aristotele, come mèta estrinseca del pro-
cesso naturale, rappresentata dalla forma separata, —
dell'anima umana, così naturalisticamente considerata,
ei raccoglie lo sforzo supremo, che è l'attività etica, nella
spontanea tendenza alla conservazione di sé, onde non
solo l’uomo, ma tutte le cose in natura tendono a perse-
verare nel loro proprio essere V Ebbene: quest’autocon-
servazione, in cui si assomma e concentra sostanzial-
mente, nella sua espressione finale, tutta la vita della
natura, è l’umanità dell’uomo, che è moralità, ed è, insie-
me tutto l’operare, anzi l’essere attuale della natura.
Ma l’uomo la sorprende come conato istintivo in se me-
desimo : e se chiude gli occhi alle forme più alte della propria
spiritualità, e si rannicchia dentro questo senso oscuro, che
può attribuire alla natura universale, egli è perché, non
sapendo ancora in che modo nelle forme superiori dello
spiritosi possa vedere la sostanza di tutto, compresa quella
stessa natura che par materia, movimento e nulla più, il
filosofo ha bisogno di affermare di sé solo quel tanto, che
gli consenta tutta una concezione della natura iuxla 'pro-
pria principia.
1 Per la teoria della conoscenza e l’etica telesiane vedi la tesi dello
Heiland cit. nella Bibliografia, II, 24.
li. BERNARDINO TEI.ESIO
1S1
Strano a dirsi: iì filosofo, incapace ancora di spiegarsi lo
spirito, lo redime, lo afferma, negandolo: rimpicciolendosi
e stringendosi da presso a quella natura che cominciava a
liberare dalla trascendenza, per partecipare al benefizio di
quella prima libertà. Strano, ma vero, per chi voglia pene-
trare nel segreto dello spirito del Rinascimento: questo
naturalismo materialistico era la prima affermazione, con
carattere schiettamente cristiano, della libertà dello spirito.
vi
Il limite del naturalismo telesiano
E tutto ciò chiaro e netto nel pensiero di Bernardino
Telesio?
Nella Bibbia si legge che Dio, dopo aver creato l’uni-
verso, vidit cuncta quae fecerat, et erant valde bona. Dopo di
allora, ogni volta, lo spirito creatore prima ha creato, e
poi s’è compiaciuto, come oggi Cosenza si compiace pel
Telesio, dell’opera sua. La coscienza critica, che è la storia,
vien dopo. Accennammo già che Telesio, come Vico, si
travagliò tutta la vita nella sistemazione e formulazione
del suo pensiero : segno che, a simiglianza del Vico, ei non
pervenne mai alla visione lucida e piena di quanto gli si
agitava nella mente. E a quel modo che oggi l’oscuro pen-
siero del grande filosofo napoletano s’intende in tutto il
suo valore, se si libera da talune incocrenze, incertezze e
ambiguità della sua forma nativa, come riesce ormai possi-
bile a noi, che sul suo pensiero torniamo con la riflessione
più matura di tutta la filosofia posteriore ; nella stessa guisa,
leggendo Telesio, scoperta la logica del suo pensiero nella
storia più ampia della filosofia, che lo preparò prima e poi
lo continuò, noi possiamo vedere in lui più addentro che
non vedesse egli stesso : e fare così il giusto conto di talune
II. BERNARDINO TEI.ES IO
l8i
oscillazioni che intorbidano qua e là la sua vista, e che
hanno impedito a’ suoi critici, da Bacone in poi, di scor-
gere l’intima coerenza della sua filosofìa.
Il disegno suo era grandioso, poiché col suo nuovo
intuito doveva ripercorrere tutto l’universo, armeggiando
contro Aristotele, che, in persona de’ suoi pedanti fanatici
e petulanti seguaci, 1’incalzava sempre alle spalle. Qual
meraviglia che qua e là tentenni, e gli tremi il polso?
Qual meraviglia, innanzi tutto, che egli non si fermi a
definire con sufficiente chiarezza la logica del proprio
pensiero, quella logica che nel suo pensiero c’era, e di cui
sì serviva infatti nella polemica contro Aristotele? Il me-
desimo per l’appunto accadde, ripeto, al Vico; e più o
meno è accaduto in ogni tempo a tutti i filosofi. In ciò
il difetto maggiore della filosofia telesiana; talché vi accade
di sorprenderla talvolta irresoluta innanzi a questioni,
la cui soluzione è data irrefutabilmente dal reale prin-
cipio di essa.
Mi si consenta un esempio. Tutte le cose sentono o no?
Per Campanella, che, come ogni continuatore, è più gover-
nato dalla logica del sistema che sviluppa, non c’è dubbio.
Nel De rerum natura di Telesio, invece, ci sono luoghi in
cui, spuntata la questione più determinata, se il caldo e il
freddo sentano, ora si dice che bisogna manifestamente
attribuire il senso ad entrambi, ed ora che bisogna attri-
buirlo almeno a imo dei due 1. Gli faceva intoppo infatti
la difficoltà che il senso è moto dello spirito, ossia
della sostanza più attenuata dal caldo: sì che se il senso
1 Vedi De ver. nat., I, 6: dove, dopo aver ripetutamente asserito che
il senso è necessario al caldo e al freddo, conchiude: « Xec vero, nisi
caloris frigorisque, aut alterius saltem, itaque caeli terraeque,
aut alterius, proprius sit sensus, animalibus, quae ab ipsis consti-
tuta sunt, insit ullus: qui enim, quae nec caelo nec terrae, iis quae
a caelo terraque fiunt, indi queat facultas? » (ed. Spampanato, p. 27).
Ma nell’ed. 1570 (I, 34) aveva sostenuto «sentiendi facultatem naturae
agenti utrique traditam esse, et in ea sola caelo terram convenire : at
exquisitiorem omnino eam calori tributam esse ».
II, BERNARDINO TELESIO iS <
dipende dallo spirito, e però dal caldo, non può competere
al freddo ; che altrimenti il freddo, contrastando il caldo,
verrebbe, producendo la morte, a distruggere, come senso,
il senso. E il Fiorentino, che è l’interprete più autorevole
del Telesio, si caccia nel ginepraio anche lui, e nota a
questo punto : « Che se al freddo si volesse togliere ogni
senso, per rimuovere l’inconveniente anzidetto, come si
guarderebbe egli dal suo avversario? Come ne respin-
gerebbe l’attacco, e come si trincererebbe nella propria
sede? Questa, a parer mio, ò la capitale contraddizione della
fisiologia telesiana » e
Contraddizione, in verità, insolubile, se il freddo e il
caldo non si riconducano all’ufficio di principii metafisici,
che essi hanno nel sistema telesiano: contraddizione, che,
in una forma o in un’altra, sarebbe poi la contraddizione
di tutte le filosofie, che ammettano un divenire o un modo
qual sia di attività, e non mantengano rigorosamente la
logica di una tale concezione del reale. Nel caso del Telesio
essa nasce dal non badare che, se la natura deve spiegarsi
dal contrasto del freddo e del caldo, il freddo e il caldo,
presi ciascuno per sé, sono fuori della natura, principii o
categorie, dal cui incrociamento si genera, anzi nella cui
sintesi insuperabile consiste il reale. Il senso, perciò,
come forma reale della natura, non può essere una pro-
prietà né del caldo, in quanto puro caldo, né del suo con-
trario; sibbene degli enti, delle cose naturali, che, in
quanto calde e fredde insieme, avendo sempre un qualche
grado di calore, e però uno spirito più o meno tenue,
non possono non avere tutte un certo grado proporzio-
nato, anzi equivalente di senso. Che era infatti la solu-
zione del Telesio, quando attribuiva il senso anche al
freddo, che allora intendeva non più come astratta natura
agente, ma come questa natura agente concorrente con
1 Fiorentino, Telesio, I, 269.
II. BERNARDINO TKI.TSTO
184
la contraria nella materia, ossia natura agente concreta
nell'unità di sé e della sua contraria.
Da questa e simili incertezze si scorge di sicuro che il
Telesio non aveva la chiara consapevolezza della natura
metafisica de’ suoi principiò né perciò del reale fonda-
mento, su cui, nel suo pensiero, appoggiavasi quella sua
bonaria satira delle formae stertentes, ossia delle forme che,
secondo Tarisiotelismo, russavano di qua della realtà J.
Non importa: il freddo, come natura agente positiva, ha
questo valore, sostituendosi alla privazione aristotelica.
La natura deve avere nelle sue viscere l'eterna opposizione,
dal cui travaglio si genera la vita in tutte le sue forme.
Questo il naturalismo telesiano; e per questo naturalismo
Bernardino Telesio sta all’avanguardia del Rinascimento,
e può a buon diritto esser detto il migliore di quelli che
per Bacone erano i filosofi moderni; e a ragione possiamo
dire anche noi che accenni all'età moderna.
Accenna, bensì; e resta un uomo del Rinascimento.
La nebbia ondeggia ancora attorno alla luce del suo pen-
siero. La sua natura, quella natura che ha in se stessa le
ragioni di tutta la sua vita, non riempie tutto il quadro
della coscienza di Telesio. Da una parte di essa e dall’altra
c’è qualche cosa, che non è natura, e che Bernardino non
può cancellare: e sono insieme due termini ciascuno dei
quali accenna all’altro, e si congiungono idealmente e
adombrano e offuscano tutto il quadro, così luminoso a
chi non trascorra a’ suoi margini, ma lo fissi nel mezzo.
Fatta comune agli uomini e ai bruti la ragione, anche
questa, pel Telesio, è un prodotto naturale, una funzione
dello spirito caldo. Con questa ragione non soltanto si
coglie il particolare, ma si confrontano insieme i vari parti-
colari, si raccolgono in uno le somiglianze, si formano gli
universali: essa unifica il senso e l’intelletto, che Aristo-
1 Vedi De rer. nat., JJ, 1.
II. BERNARDINO TERESIO 185
tele distingueva nettamente. Ma con questa ragione non
si compie lo sviluppo dell’uomo, e della natura. Il compi-
mento della ragione, anima naturale, è rappresentato dal-
l’anima creata da Dio, e infusa nei singoli uomini, inne-
stata nella totalità del corpo individuale, e principalmente
nello spirito, quasi propria forma; sicché la so-
stanza, che nell’uomo ragiona, non è, al dire del Telesio,
una e semplice, ma composta dell’anima creata e dello
spirito proveniente dal seme *. E in ciò consiste la vera ed
essenzial differenza tra la ragione umana e la belluina.
Come si costituisca l’unità dell’anima umana, posta la sua
anima naturale, che è spirito, e la sua anima creata sopran-
naturale, Telesio non dice, e non può dire; la risposta non
entra nella catena delie sue deduzioni. Se la vita dell’ani-
ma umana si limitasse dentro i termini della natura,
deH’anima creata che aristotelicamente, e tomistica-
mente, viene a informare lo spirito di ogni individuo,
non ci sarebbe motivo mai di parlare. L’anima dell’uomo,
che, come senso e come appetito, per la sua conoscenza e
per la sua finalità, dipende meccanicamente dalle leggi
cieche della natura, potrebbe parer tuttavia autrice di
atti pravi; ma questi, come semplici effetti naturali, non
potrebbero incorrere nel castigo della giustizia divina, a
non voler concepire Iddio come odiatore iniquo delle sue
stesse opere. Ond’è che il governo e il freno dello spirito,
e la responsabilità conseguente dell’uomo, — la sua libertà,
diremmo noi nel nostro linguaggio, postulata dall’obbligo
che l’uomo ha di render conto de’ suoi atti, — ci astringe
ad ammettere l’innesto di un’anima superiore, capace non
pur di resistere all’impeto e alle illecebre dello spirito,
ma di rattenere e reprimere lo spirito corrivo ai perversi
piaceri e alle azioni indegne, e di tendere col suo vigore al
1 Vedi De rey. nat., Vili, 15.
18 6
Tí. r.ERXARDIXO i ! USUI
proprio fattore, per ricongiungersi alle cognate sostanze
e fruire con loro della beatitudine eterna.
Giacché, dice il Telesio, l’uomo, a differenza degli altri
animali, non intende né appetisce soltanto le cose sensibili
e mortali, che hanno attinenza unicamente alla conser-
vazione presente di se stesso, ma intende anche e appetisce
le cose divine e immortali, spettanti alla sua conservazione
eterna. Sicché aH’uomo pare sia da attribuirsi un doppio
appetito, e un doppio intelletto: inerenti, Tuno e l’altro,
principalmente allo spirito: ma l’uno da ricondursi all’ani-
ma creata da Dio, l’altro alla natura dello spirito stesso.
C’è 1’ a p p e t i t o sensitivo, proprio di questo,
e si rivolge alle cose sensibili, che paiono beni, ancorché
non siano veramente tali; e c’è la volontà propria-
mente detta, indirizzata ai beni veri, futuri ed eterni.
I critici hanno osservato che le funzioni di quest’anima
creata, in quanto forma dello spirito, e propriamente dello
intelletto nativo e dell’appetito sensibile, nel Telesio
sfumano per modo da lasciar trasparire che quest’anima
piovuta dal cielo è un « soprappiù » nel sistema telesiano ;
<i una essenza inutile aggiunta all’uomo per un certo
ossequio alla religione», una concessione fatta ai tempi,
alle tradizioni, alla fede ; e che non guasta nulla v
Ma ciò non è esatto. È vero che tutte le funzioni intellet-
tive dell’anima immortale hanno bisogno del concorso
dello spirito, e che per Telesio non è possibile ragione (la
quale, per lui, in sostanza, è senso) che non sia corporea 1 2 :
laddove l’altra anima per se stessa ragiona senza bisogno
di sussidio esterno. Ma tutto ciò si riferisce al sensibile,
oggetto del senso come conoscenza e come appetito.
La funzione specifica dell’intelletto aggiunto e della vo-
1 Fiorentino, P. Pomponazzi, Firenze, 1868, pp. 3S7, 390; cfr.
B. Telesio, I, 319-20; G. S, Felici, Le dottrine fìlos.-relig. di T. Campa-
nella, p. 42.
2 Vedi De ter. nat,, V, 40.
it. BERNARDINO TELESIO
13“
lontà si riferisce invece al soprasensibile, all’eterno, al
divino; e al sensibile soltanto per subordinarlo, reggendo lo
spirito e le sue native energie, ai fini oltremondani. Rispet-
to a questi, lo spirito è cieco, non solo perché non conosce
e non vagheggia termine soprasensibile, ma perché non è
capace di conoscere adeguatamente e giudicare secondo
il suo giusto valore lo stesso sensibile. Non basta che
l’anima creata non abbia oggetto mondano e naturale,
perché la si dichiari una concessione ai tempi e alla fede ;
quasi che il Telesio, filosofando con maggiore libertà,
potesse farne a meno. Ma è vero che essa è un residuo irri-
ducibile del suo pensiero, rispetto al naturalismo, che è la
sua vera, viva filosofia. È vero che essa rimane nell’orga-
nismo del pensiero telesiano un’idea morta, che non può
entrare, e non entra, nel circolo del sistema.
E non è la sola, come s’è già accennato. Quest’anima
creata, che è la facoltà del divino, o il senso della religione,
quella che il Campanella, spirito assai più profondamente
religioso del Telesio, svolgerà nella importante sua teoria
della mente, si collega, com’è ovvio, con l'idea di un
Dio creatore, esterno alla natura, e al meccanismo di essa
studiato dalla filosofia telesiana: di un Dio, che è anzi esso
la ratio cognoscendi dell’anima creata. Giacché senza Dio,
l’abbiamo visto, Telesio non si sarebbe imbattuto in
quest’anima, bastando alla vita terrena e naturale quella
che risulta dal giuoco del caldo e del freddo. Ma chi si
sforzi di sapere o di acquistare la virtù ch’egli dice sa-
pienza, non può, secondo il Telesio, non vedersi sor-
gere innanzi l’idea di Dio.
La sapienza * 1 è virtù dello spirito, ma non dello spirito
solo. È cognizione che lo spirito si procura e deve procu-
rarsi ai fini stessi deH’autoconservazione, di tutti gli esseri
1 De ter. nal., IX, 6; e intorno al concetto della necessità di un
Dio creatore per spiegare l'origine del meccanismo, cfr. De ver. ned.,
I, io.
II. BERNARDINO TELESIO
188
naturali e di se medesimo e del corpo a cui è insito, e senza
di cui non potrebbe stare. Ma è anche cognizione dello
spirito integrato e perfezionato dalla sostanza in lui immes-
sa da Dio; ond’è eccitato e spinto di continuo a cercar di
conoscere anche Dio e gli enti divini o soprannaturali, che
la scienza non vedrebbe mai nella natura iuxta propria
principia; poiché quest’anima aggiunta, secondo le espres-
sioni platonizzanti usate in questo luogo dal nostro filosofo
naturalista, « sapiente per sé non pure delle altre cose, ma
di Dio stesso e degli enti divini, ossia del proprio padre e
fattore e delle sostanze a lei cognate (chi invero potrebbe
dubitarne?), ma quasi cacciata in esilio, in carcere e in
tenebre, e però orbata d’ogni conoscenza e divenuta insi-
piente, aspira ansiosamente a ritornare alla sua natura e
perfezione; e finché non l’abbia riacquistata, non può
non dolersi assai e crucciarsi e dispiacere a se stessa ».
Sicché lo spirito ha la tendenza a sapere, oltre il suo oggetto
naturale, anche quest’oggetto trascendente; la cui cogni-
zione, secondo il Telesio, non conferisce alla conservazione
dello spirito in quanto spirito, né sarebbe mai ricercata
dallo spirito, se questo non fosse mosso dall’anima creata.
Semplice tendenza, di certo, perché la cognizione di Dio
supera di grandissimo tratto le forze proprie dello spirito:
a cui l’anima fa sentire un bisogno superiore, ma non
presta la capacità di appagarlo. Di guisa che lo spirito,
pel concorso di questa sostanza psichica soprannaturale,
ha un nuovo problema senza una nuova soluzione; aspira
a speculare anche Dio; ma con la ragione non può assolu-
tamente : « la quale », dice Telesio, « può giungere a spiega-
re, e spiega infatti il mondo tutto; e intende altresì che
tutte le cose in esso comprese sono state create da un
Essere sapientissimo, potentissimo e ottimo ». Ma questi
medesimi attributi non può penetrarli in tutta la loro
grandezza; ed è lontanissima dal conoscere gli altri. La
ragione, a guardare il fulgore divino, resta abbagliata e
II. BERNARDINO TE LESTO
189
cieca, peggio dell’occhio che s’affisi nel sole. E però la
vera sapienza superiore, la celebrazione di questa virtù
culminante dello spirito umano, non è quella che vuole
intendere con la ragione, ma quella, che, messa da parte
la ragione, si propone di vedere Dio e Tesser suo e i suoi
attributi « nelle sacre e divine lettere e nelle stesse parole
di Dio ». Sapienza che, in questa cima, assomiglia, dice il
Telesio, l’uomo agli enti divini, anzi, quanto è possibile,
a Dio.
A questo ideale, dunque, non è dato alla ragione che
spiega la natura elevarsi da sé. Pure è l’ideale che alla
ragione sarebbe impossibile non proporsi, poiché la sua
spiegazione naturale non è senza residuo; e quando essa
scruta il suo mondo, non può non scorgervi dentro Torma
profonda della sapiente azione creatrice di quel Dio, che
gl’incitamenti dell’anima creata gli faranno cercare nella
rivelazione divina. « Giacché », conchiude il Telesio, « chi,
vedendo la costruzione del mondo e la costituzione degli
individui, ma sopra tutto degli animali, non vede che
Dio è sapientissimo, e che delle virtù, che noi possiamo
pensare in lui, la principale debba essere la sapienza;
ei può ben dirsi non solo empio e selvaggio (ferus), ma a
dirittura senza intelletto.
Ora sarebbe falsare la storia e non intendere l’anima e la
mentalità di Bernardino non vedere in questo concetto
della sapienza l’espressione sincera del suo pensiero.
Ma sarebbe anche far torto alTacume speculativo del filo-
sofo; il quale avrebbe bensì dato prova di più intrepida
cecità materialistica a disconoscere affatto le prove della
sapienza divina nella razionalità e spiritualità di tutta la
natura, così come egli invece la vedeva più vivamente
lampeggiare nella finalità deH’organismo animale; e
avrebbe potuto dissimulare la meraviglia del caso, che il
naturai meccanismo delle nature agenti produca il miracolo
del mondo e del pensiero; ma, per fare una costruzione più
II. BERNARDINO TELES IO
iyo
armonica e coerente, l'avrebbe lasciata campata in aria.
Il puro meccanismo non è intelligibile.
E Telesio che, a redimere la realtà dalla trascendenza,
non sa intenderla se non meccanicamente, e però vuotata
dello spirito che la sorregge e l’avviva, ha bisogno di legarla
e quasi sospenderla, da un capo e dall’altro, allo spirito, al
pensiero, alla legge, che è la sola àncora a cui la realtà
possa fermarsi. Talché la sua natura, guardata dentro, è
ricondotta sì a' suoi principii, che sono in lei ; ma
dalle prode apparisce creata da Dio e a Dio ritornante con
l’anima oltremondana. Come la sua origine è fuori di lei,
ed essa non può sorgere da sé, così la sua fine, che è il suo
fine, non dipende da lei, e richiede un nuovo intervento di
Dio, che suggelli l’opera sua, destando nella natura una
superiore e definitiva potenza, che la riporti a lui. Sicché
tutta rimmanenza, che è il pensiero nuovo del Telesio,
resta, come doveva restare, quasi avvolta e chiusa nel
bozzolo della vecchia trascendenza. Che sarà il destino e
il segno caratteristico della filosofia di Bruno e di Campa-
nella e di quanti tentativi si fecero allora o si son fatti di
poi per intendere iiixta propria principia una natura,
una realtà, che non sia la realtà dello stesso pensiero, che
aspira a intendere : quale Cartesio la vide, e quasi la sentì
per la prima volta, quando, sequestratosi idealmente dal
gran rumore del mondo che si dice esteriore, ascoltò
l’intima voce dell’essere che continuava a parlargli dentro;
e scoprì il mondo nuovo della filosofia moderna, il quale ha
veramente in sé tutte le ragioni del proprio essere.
Il mondo, a cui Telesio tenne fisso il suo sguardo tenace
per quasi cinquant’anni con l’ansia nel cuore e il bisogno
di compenetrarlo della sua ragione, è un mondo ormai
scomparso dai nostri occhi, e non può destare più il nostro
interesse. I suoi scritti, dentro ai quali pur s’agitò l’anima
sua poderosa, son divenuti desolatamente aridi ai nostri
occhi e semplici documenti per gli storici, cui spetta di
II. BERNARDINO TELESIO
iyj
ravvivarne il senso che ebbero per Telesio e pel tempo suo.
Ma negli sforzi del Telesio per ricostruire una natura, che
avesse in sé i suoi principii, gli storici scorgono la prima
grande battaglia combattuta, sulla soglia dell’età moderna,
per rivendicare la libertà e il valore immanente della vita ;
e però essi additano nel Cosentino uno degli eroi del
pensiero.
§§
APPENDICE BIBLIOGRAFICA
I
SCRITTI DI B. TELESIO
i.
Bernardini Telesii | Consentirli j De rerum natura
iuxta propria \ principia liber primus, j et secundus |
Romae. | Apud Antonium Biadimi Impressorem Came-
ralem. | Anno M.D.LXY. (Nel frontespizio e nel verso
della carta per la sottoscrizione v' è l’impresa : la fenice
tra le fiamme col motto Fit Aeterna Qui bus). Pagine 177
(non ha numero la 2a) : 8 innum. a princ. e 2 in fine ; in-40.
Vedi Catalogo delle ediz. romane di A. Biado Asolano
ed eredi (in Indici e calai, del Ministero della P. I.) Roma,
1896, p. 101.
A pp. 176-77 un’Errata-corrige segna pel Proemio del libro
quattro correzioni, che si trovano già eseguite in tre copie pos-
sedute dalla Bibl. Com. di Palermo (segn. LIII, C. 2) e dalla Vit-
torio Emanuele di Roma (segn. 68, 13, C, 36; e 68, 13, D, 24):
cioè
Fac, prooem.
ver. 25
26
5 prooe. 23
Proaemium
tam diu
bine
Prooemium
iamdiu
hanc
ne
nec
Ciò dimostra che il proemio, terminata la stampa del volume,
venne ristampato.
13. — Gentile, I problemi della scolastica.
IL BF.EXARD1XO TELESIO
M'4
Ma il primo proemio ci è stato conservato in un importantissimo
esemplare della stessa Bibl. Vittorio Emanuele di Roma, segn. 71, 3,
J>, 26, insieme con un frontespizio finora ignoto ai bibliografi,
diverso da quello qui sopra descritto pel motto dell’impresa, che è:
solis, fit aeterna ouiBus, DiGNA igxiuus uri. Importantissimo
esemplare, oltre che per numerose postille ed aggiunte sparse nei
margini e in carte interfoliate, anche e sopra tutto per sei carte
che vi si trovano legate tra il proemio e il primo libro, contenenti
una redazione nuova dei capitoli I-1V e XIX-XXIII del primo
libro. Al cap. XIX precede {c. 4 r) la didascalia: <« Quae sequuntuv
capita loco iq, 20, 21, 22 el 23 ponendo, sunt ». Idi molto interesse
riuscirebbe un minuto confronto di queste due primitive redazioni,
documento assai significativo (cfr. sopra pp. 162-63, 181) della irre-
quietezza con cui il Telesio, fin dal primo momento che diè in
luce il primo abbozzo dell’opera sua, si accinse a rifarla, insoddi-
sfatto e desideroso di una più convincente e sicura sistemazione
del proprio pensiero.
2.
Bernardini Telesii ì Consentili! ! De Renan Natura
iuxta propria prin \ cipia, Liber primus, & Scemi | dus,
denuo editi. | Clini Licentia Superiorum. j Neapoli |
Apud losephum Cacchium { Anno MDLXX.
Il frontespizio reca la figura femminile di cui a p. 39. Sono
cc. 95 numerate soltanto nel recto. V’è soppresso il proemio della
edizione precedente; e vi sono introdotte molte modificazioni.
Gli esemplari di questa edizione si trovano sempre legati con 1
tre opuscoli stampati a Napoli nei 1370.
Un esemplare, con correzioni di mano del Telesio, proveniente
dalla bibl. di Domenico Cotugno, si conserva tra i mss. della
Nazionale di Napoli (XIV, E, 68): ed è degno di considerazione
perché attesta ad oculos come il Telesio, dopo questa seconda edi-
zione, che già era un rifacimento, continuasse a tormentare la sua
opera prima di ridurla alla forma definitiva, in cui la dié in luce
diciott’anni dopo. Le varianti (comunicatemi dall’amico prof.
Spampanato) concernono, la maggior parte, la forma; ma sono
particolarmente notevoli le numerose cancellature di lunghi brani,
consigliate per lo più dal disegno dei nuovo assetto che l’autore
II. BERNARDINO TELESXG
i‘J5
intendeva dare alia materia, ('osi, per non dire delle brevi frasi,
vi si vedono cancellati i seguenti brani:
Lib. I: c. 3 v 1. 27-c. 4 v 1.8: siquidem... intuebere velati; c. 6 r
ì. 29-c. 6 v 1. 6; ibi modo... assumit ullam; cc. 7 v e 7 v interamente;
c. 8 y-8 v tutto il cap. 11 ; c. 9 v 11. 5-9: videri... viribus; c. io 1. 19
debet... fino alla fine della facciata; c. 11 rii. 17-19 robustioreq ite...
possunt; c. 11 y 1. 31-38 e c. 11 v 11. 1-3; c. 13 v 11. 1-19; c.
14 r 11. 19-38 e 14 v tutta; c. 16 v-ij r tutto il cap. 22; e.
20 y 11. 1S-24: Ai naturae... interdum ; cc. 20 a-23 v : i capp.
30-33 c parte del 34 fino alle parole ubi robustius; c. 25 r 11.
15-28 e 25 v 1-17; enim; c. 34 r 11. 8-14 e 19-21; c. 34 v 11.
10-15; c- ,V> r 11- 5-S: At sensus... omnes; 40 v IL 19-24: omnino...
quaevis. Lib. II: c. 42 r 11. 15-19: Et nequaquam... forma; c.
42 v 11. 35-7: At neque mutationem; c. 46 r a 47 r: capp. 6
e 7; c. 47 v II. 1-5; c. 49 r e 49 v: capp. 11 e 12; c. 50 v
a 51 v: cap. 14.
Ma si vegga nella prima edizione di questo scritto, pp. iii-
iiì), che cosa attraverso le correzioni autografe dell’esemplare
napoletano sia diventato il cap. i° del lib. li, e come esso si
sia ulteriormente trasformato nell’ed. 158S.
Una traduzione di questi due libri Delle cose naturali, ricor-
retti dall’A., fu fatta da Francesco Martelli (1534-1587); ed
è pubblicata dal Palat. CCCCXLIX, in Francesco Palermo,
l mss. Palalini dì Firenze ordinati ed esposti, Firenze, Celìini,
voi. Ili, 1868, pp. 1-232, con un Avvertimento dell’editore, che
informa della dedica al Cardinale, poi Granduca, Ferdinando
de’ Medici, del 1573, e della traduzione, che è nello stesso co-
dice, degli opuscoli telesiani Del mare e Delle cose che in aria
si fanno per lo stesso Martelli.
3-
Bernardini Telesii Consentini De Rerum natura \
ìuxta propria principia | libri IX j ad illustriss. et Excel-
lentiss. D. Ferdinandum Carrafam Nuceriae Ducem j
Neapoli j Apud Horatium Salvianum j M.D.LXXXVI.
In f. Sul frontespizio è riprodotta la figura femminile del-
l’ed. 1570. Questa edizione definitiva (di cui il Graesse, VI,
II. BERNARDINO TELESIO
I96
if, p. 47 ricorda copie con la data 1387) è riprodotta nelle
due seguenti.
4-
Tractationum philosophicarum tomus unus; in quo con-
tinentur :
I. Philippi Mole nili Veneti Universalium Institutio-
num ad hominum perfectionem, q-uaetenus industria parari
potest, contemplationes quinque;
II. Andreae Caesalpini Aretini Quaestionum Peripa-
teticarum libri A5 * 7 ;
III. Ber. Telesii De rerum natura, libri IX.
Genevae, apud Eustach. Vignon, MDLXXXVIII; in-f.°
Né anch’io ho potuto vedere questa edizione; che il Niceron
(Mémoires, XXX, 108-9) dice conforme all’ed. del 1386. Lo Spam-
panato, pref. alla sua ed. p. XXI, erra dicendo genovese questa
ristampa e credendo relative al De rer. nat, le opere del Mocenigo
e del Cesalpino.
5-
Bernardini Thelesii Consentini De rerum natura
iuxta propria principia, Coloniae, Excudebat Petrus Mou-
lardus, MDCXLVI.
Questa edizione è citata da L. Telesio, in Bernardini Thylesii
operimi catalogus, aggiunto alla sua ristampa àe\Y Orazione del
D’Aquino, p. 71. — Il Fiorentino, Pomponazzi, p. 384, cita una
edizione del De rer. natura con la data di « Neapoli 1637 <> : che
dice appartenuta a Ulisse Aldrovandi ed esistente nella Bibl. Naz.
di Bologna. Se non che, come m’informa l’amico prof. Flores,
questa Biblioteca possiede soltanto l’edizione 1586, e del resto
l’Aldrovandi morì nel 1605. È piuttosto da tener presente il se-
guente luogo della Orazione2 del D’Aquino (p. 9): «Onde de'
suoi divini scritti tanta stima ha fatto il mondo, che sono stati
dati più volte in luce, non solamente in Italia, ma in Fiandra
(?) ed in Germania: e sebbene gli Italiani hanno innalzato le sue
opere grandemente, le nazioni straniere si sono ingegnate in ciò di
II. BERNARDINO TBLEStQ
'97
avanzargli, e gli Alemanni, rimosso il primo titolo del libro, dove
egli per sua modestia ponea solamente il suo nome ed il suggetto
dell'opera, l’hanno ornato grandemente d’un altro nuovo titolo
nel quale si contiene, che quella opera è piena di molta dottrina, e
che è necessaria agli studiosi delle lettere così umane come divine ».
6.
Bernardini Telesii j De rerum natura j a cura di
Vincenzo Spampanato, | volume primo [ A. F. For-
miggini editore in Modena fiqio].
Pagg. xxn-332 in-8°. È il i° volume dei Filosofi, italiani, collezione
promossa dalla Soc. filos. italiana, diretta da Felice Tocco. Precede
una pref. del Tocco e una dello Spampanato. Il 20 voi. uscì nel 1913
(pp. 328). È in corso di stampa il 30 voi. con cui si sarà dato tutto
d D. r. n. Al i° voi. ha premesso una riproduzione del ritratto
inciso dal Morghen, pubbl. per la prima volta nella Biografia degli
uomini ili. del Regno di Napoli del Fervasi (1822).
Bernardini j Telesii [ Consentini | De his, quae in
Aere fumi] et de Terrae- j motibus. Liber Unicus j cum
Superiorum facultate — Neapoli, j Apud losephum
Cacchium. j Anno MDLXX.
Carte 14 num. irei recto ìn-40. Sul frontespìzio è la solita figura
femminile, corn’è anche nei due opuscoli seguenti.
Precede una dedica del Telesio al card. Tolomeo Calli.
L’opuscolo fu tradotto in ital. dal Martelli: cfr. sopra n. 2.
8.
Bernardini } Telesii j Consentini j De eoiorum ge-
neratione \ Opusculum. | Cum superiorum facultate |
Neapoli, j Apud losephum Cacchium. j Anno MDLXX.
II. BERNARDINO TERESIO
Tt)S
ln-40 cc. 7 rumi, nel recto. Precede una lettera di dedica dell'A.
al Duca Gio. Girolamo Acquaviva in alcuni esemplari premessa
ai due libri del De ver. natura del ’70 per errore di chi legò con essi
questi opuscoli.
9-
Bernardini Telesti j Consentini j De mari, | Liber
Unicus, j Ad Illustriss. Ferdinandum Carrafam j So-
riani Comitem. ; Neapoli, j Apud Iosephum Cacchium,
1570. Iu fondo all’opuscolo'. Cum Licentia Superiorum.
Sono cc. 12 num, nel recto; in 40.
Precede una dedica del filosofo al conte Ferdinando Carata
Soriano.
L’opuscolo fu tradotto in ital. dal ¡Martelli: cfr. sopra n. 2.
IO.
Bernardini j Telesii j Consentini j Vanì de naturalibus
j rebus libelli j ab Antonio Persio editi. | Quorum alii nun-
quam antea excusi, alii meliores | facti prodeunt. { Sunt
autem hi : de Cometis, et j Lacteo Circulo, j De his, quae
in Aere fiunt. 1 De Iride. | De Mari, i Ouod Animal univer-
sum. j De Usu Respirationis. ; De Coloribus, j De Saporibus.
| De Somno. | Unicuique libello appositus est capitum
Index, j Cum privilegio | (insegna tipografica) | Venetiis
M.D.XC. j Apud Felicem Valgrisium.
Dopo la pref. Antonius Persius candido Lectori, c’è Vindex
opusculorum, che divide tutti gli opuscoli in due classi:
-— Prima pars, in qua praecipua Mete-reologie a continentur;
— Secunda pars, in qua, quae Parva naturalia dici possunt,
tractantur.
Nella ia classe sono compresi i quattro opuscoli De Cometis et
lacteo circulo, De his quae in aere fiunt (dedicati entrambi a Gian
Iacopo Tomaie), De iride (al vescovo di Padova, Luigi Cornelio),
e De mari (a Francesco Patrizzi).
IH HERNARDINO TERES®
¡99
Nella 2a altri cinque opuscoli: Quod animai universum ab unica
animae substantia gubernatur contra. Galenum (a Giov. Vincenzo
lineili), De, usu respirationis (a Giovanni Micheli), De coloribus
(a Benedetto Giorgi), De saporibus (a Fed. Pendasio), De sonino
(a Girolamo Mercuriale).
Il volume consta di 4 carte innum. a principio, 5 parimenti
innum. in tine e dei 9 opuscoli ciascuno dei quali con numerazione
a se, sul recto, e con frontespizio particolare; tranne il primo.
11 I-II op. di cc. 26 (De Com. e De Ms); il III (De ir.) di cc. 20;
il IV (De mari) di cc. 19; il V (Quod a nini.) di cc. 47; il VI (De usa)
cc. 8; il Vii (De color.) cc. 15: Ì’VIII (De sapor.) cc. 15; il IX (De
somno) cc. 15.
II.
Due opuscoli inediti del Telesio De fulmine e Quae et
quomodo fehres facilini furono per la prima volta pubblicati
dal Fiorentino, Telesio, II, pp. 325-74, insieme con la ri-
sposta del Telesio al Patrizzi : Solutiones Thylesii, pp. 391-98.
Dal Fiorentino fu anche ristampato il Carmen ad doari-
nam Castriotam del Telesio (pp. 311-12), inserito nel volume
Rime et versi in lode della illustriss. et eccellentiss. S. D. Gio-
vanna Caslriota Carr. Duchessa di Nocera et Marchesa di
Civita Santo Angelo, scritti in lingua toscana, latina et spa-
gnuola da diversi hnomini illustri in varii et diversi tempi
et raccolti da Don Scipione de’ Monti, Vico Equense,
1585; già ristampato da S. Spiriti, Memorie, pp. 92-3 e da
Luigi Telesio, 0. c., pp. 55-6. Circa l’apocrifìtà dell’epi-
gramma per la storia di Scipione Mazzella vedi Bartelli,
Note, p. 55 n.
12.
Manoscritti e opere smarrite.
Oltre la notizia importante dataci da Giov. Paolo cVAqui-
no, riferita sopra a p. 166, e quelle del Persio (nella pre-
200
II. BERNARDINO TELESIO
fazione riferita nella ia edizione di questo studio, pp. 130-31
e 135), è da considerare la lettera del Quattromani, su
cui richiamò già l’attenzione il Nicodemo nelle Addizioni
copiose alla Bibl. Nap. del doti. N. Toppi, Napoli, Castaldo,
1683, p. 53; e l’accenno dello stesso Telesio, De rer. nat.,
V, 1 : « Tum maris aquarumque et eorum quae im sublimi
fiunt iridisque et colorum exortus in propriis est explicatus
commentariis. Metallorum lapidumque et
reliquorum, si quae alia supersunt, quin in superioribus
manifestatus sit, parum omnino deesse videri potest, et
alias, si coeptis faverit Deus, manifestabitur magis ».
Per un opuscolo De pluviis, cui si allude nel De mari,
c. X, cfr. Almagià, Le dottr. geo-fisiche di B. Telesio,
P- 333-
II
SCRITTI SU B. TELESIO *
1. La filosofila di Bernardino Telesio ristretta in brevità,
et scritta in lingua toscana dal Montano Accademico Cosen-
tino [Sertorio Ouattromani}. Alla Eccellenza del Sig.
Duca di Nocera. Con Licenza de' Superiori. In Napoli,
Appresso Giuseppe Cacchi, 1589.
Ristampato con Introduzione e note a cura di Erminio Troilo,
Bari, Soc. Tipogr. Ed. Barese, 1914.
2. Oratione di Gio. d’Aquino in morte di Bernardino
Telesio,philosopho eccellentissimo, agli Accademici Cosentini.
In Cosenza, per Leonardo Angrisani, 1596.
Rist. a Napoli, Fratelli Frani, MDCCCXL a cura di L[uigi]
T[elesio]. Precede (pp. XXVI) una lettera del T. al marchese di
* Sono citati i soli scritti per vari rispetti notevoli. Delle storie gene-
rali della filosofia soltanto quelle che contengono esposizioni originali.
II. BERNARDINO TELESIO
201
Villarosa; e seguono (p. 55) il Carme del Telesio a (Giovanna Ca~
stnota con la trad. italiana del Cavalcanti, 1'epigramnia a Scipione
Mazzella (p. 60) col distico contro Aristotele, il son. di Lelio Capi-
lupi (p. 61) e due poemetti di Antonio Telesio.
Sul p. Luigi Telesio prefetto della Biblioteca dei Gerolamini
vedi Luigi Maria Greco, Elogio del p. L. T., negli Atti dell’Ac-
cademia Cosentina, voi. Ili, pp. 345 sgg.
3. Francesco Bacone, De principiis atque originibus
secundum fabulas Cupidinis et Coeli: sive Parmenidis et
Telesii et praecipue Democriti philosophia, tractata in fabula
de Cupidine; in Philosophical Works edited by Ellis and
Spedding, III, pp. 63-118 (con pref. delFEHis e note).
La prima volta questo opuscolo fu pubblicato da Isacco Gkuter
in Franc. Baconi de Verulamio Scripta in naturali et universali
philosophia, Amsterdam, 1653, pp. 208 sgg.
4. Iohannis Imperialis, Musaeum historicum et physi-
cum, Venetii, ap. Iuntas, An. MDCXL, pp. 79-80.
A p. 78 c’è un ritratto del Telesio. Pel cui valore storico si osservi
che nello stesso frontespizio del libro è detto che le imagines del
Museo storico sono ad vivum expressae, e nella prefazione al lettore:
« Icones ad vivum ubique locorum a nobis anxio perennique studio
conquisitas, vix cogere in unum licuit paucas, nec impensae peper-
cimus, nec oleo, aliquam interdum, prout minus congrua cense-
batur, abolendo, aliquam reformando, et cum probatioribus confe-
rendo, quo studiosa cupidaque huiusmodi elegantiarum tua non
falleretur fiducia ».
5. P. Freheri, Theatrum virorum eruditione claro-
rum, Norimbergae, 1688, p. 1484.
C'è un ritratto del Telesio, riprodotto da Rixner e Siber innanzi
al volume più oltre citato.
6. Ioh. Gegrgii Lotteri, De vita et philosophia Ber-
nardini Telesii commentarius ad illustrandas historiam phi-
losophicam universam et liter ariani saeculi XVI Christiani
1 —■ ———*............ ..
Ph 1109: - V' h ’* celi es ?, ti t u t
derlltn versi •‘¿a < •s.S.o.ariamiti
IT. BERNARDINO TTXESIO
sigillatim, Lipsiae, a pud Beruh. Christoph. Breit-Kopfium,
1733, in-4°.
Nei Nova Acta erudìtorum dì Lipsia, MPCCXXXIil, pp. 351-53,
c'è una recensione di questa monografia.
7. I. Bruckeri, Historia critica philosophiae, to. IV,
pars I, Lipsiae, MDC.CXXXXIIÏ, pp. 449-60.
8. Mémoires pour servir à ¿’hist, des hommes illustres dans
la république des lettres, avec un catalogue raisonné de leurs
ouvrages par le R. P. Niceron barnabite, to. XXX,
Paris, 1734, pp. 104-10, 114.
9. Salvatore Spiriti, Memorie degli scrittori cosentini,
Napoli, 1750, pp. 83-93.
10. J. G. Buhle, Gesch. d. neueren Philosophie seit der
Epoche d. Wiederherstellung der Wissenschaften, Göttingen,
1800-1805, Bd. II, Abth. II, pp. 648 sgg. ; trad. franc.
Jourdan, Paris, 1826, II, 11, pp. 563-71.
11. P. 1.. Ginguené, Histoire littéraire d’Italie [conti-
nuata da F. Salfi], to. A ll, Paris, Michaud, 1819.
Le pp. 500-14 relative al Telesio sono un’aggiunta di F. Salii.
12. Rixner e Siber, Leben und Lehrmeinungen berühm-
ter Physiker am Ende des XVI und zu Anfang des XVII
Jahrhunderts, Bd. III {Sulzbach, 1820) (B. Telesius).
Oltre una biografia del Telesio, contiene la traduzione (molto
libera) di molti brani del De rer. natura.
13. Giuseppe Boccanera da Macerata, Bernardino Te-
lesio, nella Biografia degli uom. illustri del Regno di Napoli,
to. Vili, Napoli, N. Gervasi, 1822 (col ritr. del Morghen).
li. BERNARDINO Ti:LESTO
14. Francesco Saverio Salpi, Elogio di Bernardino
Felenio, 2aediz., Cosenza, Migliaccio, 183S (di pp. 48 in-160).
Ristampato in Salpi, Prose varie, Cosenza, Migliaccio, 1S42.
La prima volta era stato pubblicato nel giorn. ì.a Fata Morgana
di Reggio Calabria, 15 marzo 1838; e contro di esso allora com-
parve un opuscolo: Luigi Telesio, Risposta all’art. inserito nel
giorn. intitolato La Fata Morgana.... Su la vita e la filosofìa
di Bernardino Telesio, in Napoli, nella Stamp. della Società Id-
iomatica, 1839 (cit. da F. Bartelli, Note, p. 70).
15. Ferdinando Scaglione, [La filosofia di B. Telesio]-,
negli Atti della Accademia Cosentina, Cosenza, pe’ tipi di
G. Migliaccio, 1842, voi. II, pp. 15-115.
In risposta al tema assegnato dall’Accademia l’anno 1838:
« Ksporre con lucidezza e precisione il sistema filosofico di B. T.,
e far conoscere quale e quanta influenza abbia esercitato sul
progresso delle scienze, e quali scrittori, sian essi calabri o stra-
nieri, abbiano maggiormente contribuito a propagare la nuova
dottrina Telesiana ».
16. Chr. Bartholmèss, De Bernardino Telesio, Paris,
1849.
17. H. Ritter, Geschichte der Fililo sopivi e ; Bd. I della
Gesch. d. neueren Philos., Hamburg, Perthes, 1850, pp.
56i-75-
18. J. E. Erdmann, Grundriss der Geschichte der Phi-
losophie, I, Berlin, 1S69, § 243, pp. 523-26.
19. F. Fiorentino, Bernardino Telesio, ossia studi sto-
rici su'l'idea della natura nel Risorgimento italiano, Firen-
ze, Le Monnier, 2 voli., 1872 e 1874.
Della psicologia del T. il Fior, s era occupato nel Pomponazzi
(vedi sopra p. 186 n. 1). A proposito del volume del Telesio furono
pubblicati i seguenti scritti del Ferri e del Franck.
204
II. BERNARDINO TELESIO
20. Luigi Ferri, La filosofia della natura e le dottrine
di B. T. ; nella Filos. delle scuole itaa. 1873.
21. Ad. Franck, Bernard. Telesio, ou Études historiques
sur Videe de la nature pendant la renaissance italienne par
F. Fiorentino, in Journal des S avant s, a. 1873, pp. 548 sgg.
e 687 sgg.
22. M. Carriere, Die philosophische Weltanschauung
der Reformationszeit2, Leipzig, 1887, II, 34 sgg.
La prima ediz. è del 1847,
23. Telesio, rivista di scienze lettere ed arti, Cosenza,
a. I, fase. I, 28 febbr. 1886 (direttori Vincenzo Iulia e
Domenico Bianchi).
Ne conosco tre fase., che non contengono nulla sul Telesio,
salvo un cenno, nelTart. di G. AL Greco, Il Quattromani critico
(nel fase. 3 del 30 aprile 1886, pp. 154-55), alla teoria dell’anima
del filosofo cosentino, difesa dalle critiche del Fiorentino.
24. K. Lasswitz, Geschichte der Atomistik vom Mittel-
alter bis Newton, Hamburg u. Leipzig, 1890,1 B., pp. 312-14.
25. Karl Heiland, Erkenntmsslehre und Ethik des
Bernardinus Telesius ; Inaug.-Dissert., Leipzig, 1891 (pp. 52
in-8°).
A pp. 1-2 c’ è una bibliografia della letteratura telesiana.
2Ó. Felice Tocco, Le fonti più recenti della filosofìa
del Bruno, Roma, 1892 (estr. dai Rend. Lincei).
A pp. 72-3 i rapporti del Bruno col Telesio. Cui è da aggiun-
gere l’osservazione dell’ Ellis nella pref. al De Principiis di
Bacone, ed. cit., p. 75 n.
ir. BERNARDINO TERESIO
205
27. \V. Dilthey, Dìe Autonomie des Denkens im XVII
Jahrhundert, in Archiv für Gesell, d. Philos., VI! (1894},
pp. 82-96.
Rist, nel voi. Weltanschauung u. Analyse des Menschen seit
Renaissance und Reformation3 (Gesamm. Schriften, Bd. II) Lpz.
u. Berlin, Teubner, 1921. Vedi quivi pp. 289-92 sull’etica di T.,
e PP- 433-36-
28. Gio. Sante Felici, Le dottrine filoso fico-religiose di
T. Campanella con particolare riguardo alla filos. della
Rinascenza italiana, Lanciano, Carabba, 1895.
A pp. 34-51 sono studiati i rapporti del Camp, col Telesio.
29. St. de Chiara, Bricciche telesiane. Nozze Tancredi-
Zumbini, XIX aprile MDCCCXCYII [Cosenza, tip. Aprea],
pp. 8 in-40.
Spigolature dall’archivio cosentino relative al nome della
madre del T. e ad alcuni dei suoi figliuoli. A p. 4 n. 1, è detto:
«Un solo, il Brucherò, dice ch’egli sia nato nel 1508; ma questo
non è assolutamente possibile, perché nel sett. del 1508, come
abbiam visto [« nelle schede del notar Benedetto Anione, sotto
la data del 6 di sett. 1508, i capitoli di un secondo matrimonio,
che Giovanni Telesio, padre del nostro Bernardino, contrasse
con la signora Vincenza Garofalo»], il padre passava a seconde
nozze. Ua data del 1509, poi, si desume anche dalla seguente
notizia cortesemente comunicatami dal mio nob. amico Luciano
de Matera e da lui ricavata di su un antico ms.: « A dì 8 di sett.
1588 si sepelì nella sua sepultura della sua cappella dentro la
Chiesa magiore il filosofo Bernardino tilese d’età d’anni settan-
tanove ».
30. Francesco Bartelli, Note biografiche (B. Telesio e
Galeazzo di Tarsia), Cosenza, A. Troppa, MCMVI.
Sul Telesio, pp. 7-73. È il miglior saggio biografico che si abbia
per l’esame rigoroso delle notizie e per la larga esplorazione dei
documenti inediti cosentini.
200
TE BERNARDINO TELESIC)
31. Roberto Almagjà, Le dottrine geofisiche di B.
Teiesio: primo contributo alla storia della geografia scien-
tifica nel cinquecento, Firenze, Ricci, 1908 (estr. dagli
Scritti di geografia e storia della geografia pitbbl. in onore di
G. Dalla Vedova).
32. Ernst Cassirer, Das Erkcnntnisprobleni in der
Philosophie und Wissenschaft der neueren Zeit, Berlin,
Cassirer, 1908; 2a ed. 1911, voi. I. pp. 212 sgg.
33. Duilio Ceci, Bernardino Teiesio (con bibliografia)
ne La cultura contemporanea, Roma, a. il, n. 3, i° feb-
braio 1910, pp. 41-45.
Articoluccio d’occasione. Nella Bibliografìa si cita: « Fran-
cesco Bonci, Il volgarizzamento dello scritto latino di B. (sic)
T: I colori presso gli antichi Romani, Pesaro, Federici, 189-;.
51 a si tratta dei De. coloribus di Antonio Teiesio.
34. Erminio Troilo, Bernardino Teiesio, Modena,
Formiggini, 1910 (pp. 77 in-160 picc. ; col ritr. del Morghen;
N. 11 dei Profili del Formiggini).
35. J. Roger Charbonnel, La pensée italienne au
X VP siècle et le courant libertin, Paris, Champion, 1919.
Sul X., pp. 453-59, e passim.
36. Leon Blanciiet, Campanella, Paris, Alcan, 1920.
Influenza di T. su C., pp. 138-45; Psicologia di T., pp. 164-
171; Morale di T., pp. 392-97.
37. Leonardo Olschki, Bildung u. Wissenschaft in
Zeitalter der Renaissance in Italien, Lpz.-Firenze, Olschki,
1922.
Su Teiesio pp. 8-11; su Telesio-Ta ssoni, pp. 289-90.
nella
III
IL CARATTERE STORICO
DELLA
FILOSOFIA ITALIANA
Prolusione al corso di Storia della filosofia
R. Università di Roma, tenuta il io gennaio 1918
Signori,
Da questa cattedra, a cui gl’illustri colleghi della Facoltà,
con atto di benevolenza che altamente mi onora, si com-
piacquero chiamarmi ; e che io non salgo senza trepidazione
pensando alla responsabilità di chi in Roma s’accinga, me-
more della missione eterna della Città immortale, a mo-
strare per qual via a qual segno il pensiero umano sia
proceduto e proceda ; da questa cattedra fino a ieri tenuta
con lustro da imo scrittore noto a quanti sono stati uomini
colti in Italia dal Settanta in qua per avere consacrato il
meglio del suo fine ingegno e de’ suoi scritti eleganti a
investigare i caratteri nazionali del pensiero e dell’arte
italiana; in questo momento tragicamente solenne, in cui
la sventura improvvisamente abbattutasi come fulmine
sulla patria ha svegliato e riscosso le sue più riposte energie,
e ridesto la sua coscienza, incitandola a riflettere sul proprio
essere, le proprie doti ei propri difetti, i propri bisogni e le
proprie aspirazioni; io non saprei trovare argomento più
opportuno al mio corso, che la storia della filosofia ita-
liana ; né tema più degno d’essere sottoposto all’attenzione
dell’uditorio, al quale rivolgo oggi per la prima volta la
parola, di questo che può considerarsi come Fepilogo anti-
cipato del mio corso: del concetto cioè, che molti anni di
studi intorno ai rappresentanti cospicui od oscuri e alle
correnti secolari del pensiero italiano mi hanno condotto
a formarmi del suo carattere storico.
14. —• Centi le, l problemi della scalasi ìe<t.
2 F O
III. IL CARATTERE DELLA FILOSOFIA ITALIANA
Né, prendendo a trattare in particolare della filosofia
italiana, io temo di sminuire e restringere artificiosamente
per un interesse contingente l’ufficio mio, che è d’insegnare
la storia universale della filosofia ; poiché in nessuna scienza
come nella filosofia è vero ad evidenza il principio, che
l’universalità non comprende una fantastica totalità quan-
titativa di parti diverse, ma concerne l’inerenza e risonanza
del tutto in ogni singola parte; in modo che una storia
della filosofia italiana, — che sia conoscenza intelligente
della medesima, ossia rappresentazione piena e insieme
giudizio, — non è possibile senza che in questa storia parti-
colare si rifletta e si vegga c la filosofia greca, da cui la più
gran parte dei problemi speculativi fondamentali, che
attirano tuttavia il nostro interesse, traggono origine ;
e quella medievale, in cui gli stessi problemi si rinnovano
trasfigurati dal cristianesimo; e tutti i principali sistemi
giunti a maturità neH’età moderna in ogni parte dell’Euro-
pa, via via che vennero definiti i principii direttivi della
nuova civiltà. La storia è tutta un sistema, ogni punto del
quale rispecchia in sé il tutto, in quanto ne è spiegato e
concorre per la sua parte a spiegarlo.
In questa osservazione è anche la ragione che può
giustificare il concetto, già tanto discusso e sempre discu-
tibile finché non inteso convenientemente, d’una filosofia
italiana, e in generale, d’una filosofia nazionale; concetto
intorno al quale chiedo licenza di chiarire, qui in prin-
cipio, con ogni brevità il mio pensiero. Né la filosofia, né
la scienza, né l'arte, né la religione hanno, a rigore, aspetto
nazionale; e ogni trattazione orientata secondo distin-
zioni politiche non può non apparire fondata su criteri
arbitrari, empirici e pericolosi. Chi non sente che la verità,
come che sia definita, è verità solo a patto che non tra-
monti né di qua né di là dai Pirenei? e che la divina bel-
lezza ha virtù di trionfare della morte non pur degli uomini
di genio che primi la vagheggiarono ed espressero dalla
arci, il caratteri; della filosofia italiana
21 I
commossa fantasia, ma e dei popoli stessi ai quali prima
svelossi nelle sue forme native? E qual’è la radice dell’ardo-
re incoercibile che spinge il neofita d'una fede nuova a
comunicarla e propagarla tra gli uomini, partendo magari
in guerra santa contro gl’infedeli, se non l’impossibilità di
concepire un Dio, senza concepirlo senza competitori,
unico sovrano di quanti cuori battano al mondo? Di qui
la logica che trasse alcuni nostri giobertiani intorno al
1860, quando la questione della nazionalità in filosofìa fu
tra noi dibattuta con maggior passione, a non starsene
contenti alla tesi di quei nazionalisti più discreti che,
volendo la filosofia giobertiana per l’Italia, volevano impli-
citamente che ogni popolo avesse la sua, conforme al suo
genio, come allora si diceva; e a sostenere che la filosofia
del Gioberti, come la più alta forma di pensiero filosofico
cui fosse pervenuta la ragione umana, era destinata ad
espandersi di là dalle Alpi e dai mari, e a diventare il
verbo dell’umanità civile, strumento nuovo e perfetto del
preconizzato primato morale e civile italiano. E in verità
la profonda coscienza che il grande pensatore subalpino
ebbe del valore immortale di talune idee preminenti della
sua filosofia, è il fondamento non solo psicologico, ma logico
e dottrinale, della tesi, altrimenti paradossale, né di certo
giustificabile interamente coi criteri di nazionale e patriot-
tica pedagogia, del primato italiano. Ogni più modesto
uomo che pensa, non può a meno di pensare col convinci-
mento di essere nel vero: cioè di pronunziare un giudizio
che abbia valore assoluto, trascendente i limiti della sua
personalità, non pure particolare e privata, ma anche
nazionale. Senza questo convincimento, non ci sarebbe
pensiero. Per questo convincimento l’uomo non solo
pensa, ma apre bocca, e parla, e procura di farsi sentire
più che possa lontano, nello spazio e nel tempo.
La filosofia, come la forma più concentrata e rigorosa
del pensiero, non si può sottrarre a questa legge; e può ben
2 1 2
II!. IL CARATITI RK. DI'. TX A FILOSOFIA ITALIANA.
dirsi perciò che essa ò universale e internazionale in quanto
è filosofia, e che filosofia non è in quanto è nazionale. Ma
ciò non toglie né che in ogni filosofìa sia ravvisabile un
carattere nazionale, né che ogni filosofia, la quale sia cosa
viva, debba averne uno; giacché è un assioma logico
che l'universalità non è annullamento, anzi in veramente
di tutte le determinazioni particolari. Non c’è inno di poeta
che suoni eterno, senza esprimere una situazione determi-
nata, avvinta a circostanze affatto singolari, e quindi a un
attimo eternamente fuggito. Né il problema del filosofo si
risolve in concetto di valore immortale senza nascere dalla
personalità storica dell'uomo, determinata secondo il tempo
e il luogo, e però secondo una corrente spirituale di cultura,
che è sempre quella d’un popolo. E in ogni momento della
nostra vita interiore matura un problema, nella cui solu-
zione consiste il ritmo della coscienza: un problema, che
sorge da un aspetto particolare del mondo lampeggiante
ai nostri occhi o da un singolare stato d’animo, che è tutto
nostro, e soltanto nostro, costitutivo del concetto operante
della nostra personalità; ma si risolve in un pensiero, che
è idea librantesi alta al di sopra di ogni particolare, nel
puro cielo delle cose eterne.
Così, non soltanto nazionale, ma la filosofia è, e dev’es-
sere, personale: vita dell’anima, che è sempre anima indi-
viduale, piantata con radici profonde nel suolo della storia
determinata come storia d'un uomo, e in quell'uomo di un
popolo, e in quel popolo d’ima civiltà, e infine di questa
umanità che trasforma il nostro pianeta in regno sempre più
trasparente dello spirito; e insomma, del mondo nel com-
plesso compatto delle sue attinenze svariate e della sua
vita unica. E si può dire pertanto che come l’attività
puntuale dello spirito è definibile per lo sforzo di affer-
marsi come idealizzazione della materia, così tutta la vita
dello spirito in ogni sua manifestazione assegnabile, e sopra
tutto nella filosofìa che ne è il conato più gagliardo, consista
III. IL CARATTERE DELTA FILOSOFIA ITALIANA
- f A
neìrimmaneiitc ascensione dal particolare, che è limitato
e temporale, all’universale, che è infinito ed eterno; dal
mondo dove l’uomo è chiuso in se stesso, o nella cerchia
de’ suoi interessi più prossimi, al mondo in cui egli parla
con Dio, e con tutti quelli che sono, che furono o che
saranno.
I ni m a n e n t e , perché cotesta ascensione è atto non
destinato ad esaurirsi; e la filosofìa che assorbe e risolve
ogni limite, compreso quello della nazionalità, adempie
questo suo processo eternamente, senza perciò che vi sia
mai una filosofìa storicamente additabile e positiva, la
quale possa dire d'aver vinto ogni limite. E se m’è lecito
di esprimere il mio pensiero con una formula precisa, la
filosofia nell’ atto onde si libera dalle angustie del parti-
colare, è universalità attiva o realizzazione dell’universale;
ma nel fatto nel quale essa apparisce come soluzione
solidificata, sistema costituito, un certo pensiero già pen-
sato e ripensabile, torna a rinchiudersi nel suo limite, a
configurarsi come un modo di pensare particolare, corri-
spondente allo spirito d’un certo tempo o popolo.
Ma guai all’individuo che si petrifica in un’idea o in un
sistema ripugnante ad ogni innesto e restio ad ogni svilup-
po ; e guai del pari al popolo che dica di sé : — Ho trovato
quel che cercavo, e non mi resta da fare che custodirlo e
conservarlo ! — La tradizione degna d’un popolo di vivi,
da cui non si sia partito lo spirito, che è svolgimento ed
eterna conquista di se medesimo, è rinnovamento con-
tinuo nello slancio tenace e coerente verso l’avvenire.
Volgiamoci dunque al nostro passato, non per sigillarlo
sotto l’esatta nozione di quel che fummo e pensammo:
che sarebbe curiosità vana, o culto superstizioso e mortifi-
cante d’una nostra eredità nazionale, morta e infeconda;
ma per fare di questa nostra italianità, quale si venne
realizzando lungo la nostra storia particolare, il nostro
214
TIT. IL CARATTERI-: DELLA FILOSOFIA ITALIANA
problema presente ed urgente, il segreto della nostra vita
spirituale. Giacché l’uomo è figlio di se medesimo, ma in
quanto non vive di vita tutta estrinseca ed inconsapevole,
sì di riflessione, onde cerca sempre se stesso dentro se
medesimo, e non si trova mai quale vorrebbe essere;
poiché la sua natura lo porta sempre più in alto; ed ei
finisce col trovarsi appunto in questo cercarsi incessante
e ansioso, che è tutta la sua storia. La quale non è dietro
alle nostre spalle come volgarmente si fantastica, quasi
paesaggio reale anche se non veduto; ma esiste in quanto
la facciamo essere e quale la facciamo essere secondo la
virtù ricostruttiva e i bisogni del nostro spirito, e le conse-
guenti leggi della nostra indagine.
La storia, pertanto, della nostra filosofia, è la nostra
stessa filosofia, quale, per essere cosa nostra, luce della no-
stra coscienza e vivo principio del nostro operare, deve
rampollare dall’intimo della nostra individualità. Troppo
già c’indugiammo nell’informazione degli studi altrui.
Non che la scienza possa mai sequestrarsi da ogni com-
mercio intellettuale ; il quale anzi si estenderà sempre da
popolo a popolo per quella stessa legge che associa in una
sola ricerca maestro e discepolo, e ne congiunge gli sforzi
e continua da una generazione all’altra un solo lavoro.
Ma il sapere, e massime la filosofia, che vuol essere un
sapere integrale, se ha come sua condizione indispensabile
questo inserirsi dello sforzo del singolo nel processo sto-
rico universale, e quindi tutta l’ampiezza e tutta la possi-
bile freschezza della cultura informativa, non può scam-
biarsi con cotesta sua condizione: la quale anzi, nella sua
astrattezza, si può dire che sia la negazione del vero sapere.
E troppo in verità ristemmo a guardare quel che s’era
fatto o facevasi presso le altre nazioni; e abbandonati a
quest’atteggiamento da spettatori passivi e distratti,
lasciammo che a grado a grado s’affievolisse e presso che
si spegnesse quel vivo senso delle cose spirituali, che
IH. IL CARATTERE DELLA FILOSOFIA ITALIANA
•ìi 5
ci dà il gusto della filosofia e ci fa distinguere la filosofia
vera, che è intensa vita dell’anima bramosa di quelle idee
a cui ogni uomo aspira, almeno nei segreto del cuore, da
quella scolastica esercitazione intellettuale, che, tronfia di
astrusi tecnicismi e della più polverosa erudizione, stomaca
e respinge, come ogni meccanismo chiuso e sordo ai veri
interessi umani. E così ci siamo indifferentemente inchinati
a pensatori, forse modesti, ma sinceramente compresi della
coscienza di reali difficoltà e problemi di alto significato
speculativo, come ai compilatori laboriosi di commentari
indigesti, dei quali in nessun tempo fu penuria, ma dei
quali il tempo stesso ha fatto sempre giustizia.
La filosofia ormai deve cessare di essere per gl’ Italiani
arnese da museo od abito tagliato sull’ultimo figurino; e
deve diventare una volta risolutamente quello che essa fu
sempre negli uomini e nei popoli che impressero un’orma
nel solco dell’umano lavoro : quella sublime liberazione dai
pregiudizi e dalle vane passioni, che solo può dare aH’uomo
la forza di guardare impavido al proprio destino: studio
serio, profondo di risolvere il problema della vita, così come
sorge nella coscienza dell’uomo dalla pressura del mondo
in cui gli spetta di vivere. La scienza, a cui ci siamo con
tanta speranza e fiducia rivolti, e che poteva infatti ba-
starci quando trattavasi di riformare con nuovo tirocinio le
menti ancor prone al dommatismo retrivo, non soddisfa più
gli animi; nei quali risorge, con veemenza di reazione, una
vaga nostalgia di non si sa quali credenze e promesse di
appagamenti misteriosi a quei bisogni intellettuali e morali,
che la scienza non appaga, e non può appagare, perché
indirizzata a fini diversi. E si sente sempre parlare di reli-
gione; ma nessuno saprebbe dire precisamente di quale.
Gli stessi cattolici, che dopo il Sillabo pareva godessero
del credo più nettamente e solidamente determinato che
avesse mai avuto virtù di raccogliere gli spiriti di una
chiesa, han dovuto con un taglio netto e violento troncare
2 16
HI. IL CARATTERE DELLA FILOSOFIA ITALIANA
ogni discussione apologetica che tentasse raccostare il
contenuto della loro fede allo spirito scientifico del nostro
tempo, poiché attraverso quell’apologià vedevano svanire
i contorni della propria dottrina, e questa confondersi con
una forma o coll’altra del più schietto razionalismo. Per
modo che la religione, per gli uomini di pensiero non usi a
contentarsi di parole, è oggi divenuta piuttosto un’esigenza
che un positivo e determinato atteggiamento spirituale.
In verità, religione o filosofia che debba essere, un con-
cetto della vita è indispensabile; ma è anche impossibile
in quel presupposto intellettualistico, che fu la premessa di
quasi tutta la cultura italiana degli ultimi tempi. E intendo
per intellettualismo non solo la concezione della
realtà quale semplice dato teorico dello spirito, cui non
s’appartenga se non di riflettere l’oggetto preesistente, ma
la conseguente considerazione di ogni spirituale attività, e
non pure della scienza e della filosofia, ma dell’azione più
evidentemente pratica ed efficace, come cosa che tocchi
soltanto l’uomo, estraneo alla realtà e quindi impotente
a mutarne sostanzialmente l’assetto.
In tale concezione non c’è posto né per la religione, né
per la filosofia come concetto della vita ; se per tale concetto
devesi intendere la coscienza della nostra vita nel sistema
totale delle cose; fuori del quale la vita è assurda astra-
zione, che potremo, in via provvisoria, fermarci pure a
considerare, ma senza ottenere mai che ne sprizzi scintilla
di luce. La vita è dell’uomo che s’abbraccia agli uomini
fratelli e alla madre Terra e al padre Sole, come dicevano
una volta i nostri filosofi; o alla Natura, come si preferì
dire più tardi; o meglio, poiché questa natura sospesa nel
vuoto indefinito non può apparire alle menti più che una
parte sola dell’essere, al Tutto, come che sia da definire :
al Tutto, di cui certo il pensiero scorge una traccia dentro
di sé, anzi può dire di sentirne in sé il palpito. E aver
coscienza della vita, è aver coscienza di questo Tutto, in
III. IL CARATTERE DELLA FILOSOFIA ITALIANA
217
cui è la nostra vita, e che vive in noi: nel Noi più intimo,
ciré parla e s’afferma nella coscienza pensando e magari
solo dubitando, come Cartesio avvertì. Ebbene, come per-
venire a tale coscienza senza superare la dualità a cui
s’arresta rintellettualismo, e riafferrare quell’unità, in cui
noi che volgiamo intorno gli occhi ansiosi in cerca della
colonna che ci sorregga, siamo, purché vogliamo, questa
stessa colonna, nella sua saldezza incrollabile? Soltanto
da essa la filosofia può attingere quella virtù riformatrice c
ristoratrice delle forze spirituali, per cui essa si diffe-
renzia dal puro sapere scientifico e appresta alla religione
quel movimento libero e razionale, onde questa, nella sua
rigidità dommatica, è priva.
Ma affinché la filosofia torni ad assumere questo carattere
e questa efficacia religiosa, occorre che acquisti quel calore
di intimità e di eticità, onde la fede del credente si suol
riportare più al cuore che all’intelligenza, o richiede una
intelligenza che sia pure volontà e amore. Si ricordi il
Pascal: col quale tutti pensiamo esservi due forme ben
distinte, anzi diverse, di vita spirituale: una tutta super-
ficiale, che può fare l’uomo dotto ed esperto senza far
l’uomo, perché riempie la mente o l’addestra, ma non forma
il carattere; modifica lo spirito, ma sfugge a quel nucleo
vivo della persona, che è sempre sostanziato di idee che
sono interessi vitali, e la cui ruina sarebbe la nostra morte ;
— e un’altra profonda, che investe l’intimo essere dell’io,
e ne è quasi il germogliare spontaneo, dove il pensiero è
azione perché trasformazione interna e riforma dell’essere,
e quindi riforma del sistema totale, del quale l’essere parte-
cipa; e dove perciò non hai cultura senza carattere, né
programmi senza opere, poiché la persona non è fuori
delle sue idee, e le convinzioni sono indirizzo di vita.
Certo, anche la religione degenera spesso in formale e
vuota superstizione; ma la superstizione non è la religione,
eterna spregiatrice di tutti i sepolcri imbiancati. E così è,
2 f 8 II r. IL CARATTERE DELLA FILOSOFIA ITALIANA
e dev’essere della filosofia, se vuole risorgere funzione su-
prema dello spirito, e sdegnare lina volta gl’ingombri libre-
schi, memore del divino motto: Resurrexit, non est hic.
La nostra filosofia vuol dunque essere soluzione del pro-
blema della nostra cultura, che è la nostra vivente perso-
nalità. Allora una parola è ascoltata, quando è attesa e
risponde a un bisogno che pulsa di dentro.
Anche noi potremo far cominciare nel mondo della cul-
tura LItalia moderna e nostra con Francesco Petrarca, il
primo degli umanisti, intendendo che il suo nome non rap-
presenta un assoluto inizio — poiché la storia non ha di
questi inizi assoluti — ma l’elevazione a importanza storica
decisiva d’un movimento degli spiriti, che s'era venuto pre-
parando lentamente, a cominciare dal sec. ix, e s’era fatto
più vivace nel xm, quantunque tuttavia inconsapevole
della rivoluzione che avrebbe una volta prodotta.
Confrontate il Petrarca con Dante ; e sentirete il divario
di due età radicalmente diverse nel modo di concepire la
vita. Dante è ancora, e in massimo grado, un uomo intero:
in lui arte e dottrina, religione e politica, fede e filosofia,
tutto è fuso in uno spirito solo, compatto; in cui Virgilio
non è soltanto l’autore dello stile ammirato, ma l’ispira-
tore d’una fede politica e quel triste, quasi mistico, abi-
tatore del nobile castello, dove vive in desio senza speme;
e la donna che suscitò i primi palpiti nel cuore giovinetto,
trasumanata dalla morte, è divenuta simbolo del più
alto ideale religioso ed umano a cui si sia innalzata la
mente dell’esule peregrino, che dalbinfortunio e dalla
miseria è fatto vagheggiatore e propugnatore animoso di
un ordine politico universale, fondato sulla giustizia, e
della giustizia vindice provvidenziale. Donde quella forma
del poema, vero miracolo: così vasto organismo e così
serrato nel concetto e nell’anima che vi circola e l'avviva
in ogni punto, per guisa che né una sentenza né una figura,
III. IL CARATTERE DELLA FILOSOFIA ITALIANA
219
né il guizzo di un’immagine né il ritmo di un verso si riesca
a sorprendere, in cui non si ripercota la nota fondamentale
di questo suo spirito vibrante di fede: di fede nella sua
arte, nella sua politica, nella sua chiesa, nelle sue passioni,
nella vita insomma quale apparve, tutta insieme, inscin-
dibile, ai suoi occhi intenti e appassionati. Perciò egli può
dirsi uomo intero. La sua filosofia nel De Monarchia e nel
poema, non è semplice sapere di dotto, appreso alle « scuole
dei religiosi » e alle « deputazioni dei filosofanti », quale a
lui stesso sembrò in sul principio; né strumento che la
gente del mestiere gli abbia opportunamente fornito a
corazzare di sillogismi gli argomenti del suo credo. Né la
sua arte scende mai al livello di espediente didascalico o
polemico. Né la sua fede religiosa è guardata mai coll’oc-
chio profano calcolatore del politico. Poeta sovrano, in
quanto la complessa visione del mondo, risultante da
tutti gli elementi di cultura maturati nel Medio Evo, è
fusa nel fuoco del suo possente spirito, e ravvivata dal
senso immediato delle persone e delle cose, in mezzo a cui
si svolse la vita dell’uomo ; Dante rimane sul limitare della
nostra storia nazionale, erma colossale, non solo perché
poeta, ma anche perché incarnazione nel poeta dell’uomo :
di un uomo, che dovunque si volga, qualunque parola
pronunzii, è lui, una personalità presente in ogni istante a
se stessa, che non piega e non distingue tra teoria e pra-
tica, tra dire e fare, tra scienza e fede; ed è insomma quel
che l’uomo dev’essere: una coscienza !
Col Petrarca comincia il movimento spirituale che farà
grande l’Italia nella storia moderna; ma comincia pure a
dissolversi quell’unità, di cui rimane così splendido esempio
Dante, quind’innanzi or più or meno esaltato, ma sempre
incompreso. Comincia il letterato; e chiamiamo con
questo nome, come fu uso italiano nel Settecento, anche il
poeta, anche il filosofo e uomo di scienza, ed ognuno che
durante t’Lhnanesimo, il Rinascimento e la Decadenza
220 Hi, IL CARATTERE DELLA FILOSOFIA ITALIANA
fece professione di scrittore. Grandi le benemerenze del
letterato verso tutta la civiltà moderna. Padre della filo-
logia, che, nata in Italia nel Quattrocento, si diffonde nel
secolo stesso e nel successivo per tutta Europa, e raggiun-
ge nel Seicento la sua forma definitiva; egli è anche il
padre della moderna letteratura, tutta direttamente o
indirettamente ispirata a quel classicismo, che rivisse nel
sec. xv per l’industre entusiasmo dell’erudito italiano;
il quale, infranto nel suo cuore il mondo del Medio Evo,
seppe riaffacciarsi, di là da un millennio, con vergine
sguardo all’affascinante spettacolo dell’antichità luminosa
di poesia e di sapere. Ma egli fu anche l’iniziatore della
critica biblica, offrendo nel Valla un esempio istruttivo al
Cusano prima, e poi ad Erasmo, contribuendo per questa
parte allo spirito della Riforma. E sopra tutto fu l’annun-
ziatore e il precursore della filosofìa moderna; che in
Bacone guardò infatti al Telesio come al primo dei
moderni ; per Cartesio ed Herbert di Cherbury ebbe
in Campanella un ispiratore geniale e suggestivo; con Spi-
noza tolse da Giordano Bruno, anzi, attraverso Leone
Abrabanel, dai Platonici di Firenze la logica del panteismo
naturalistico; e con la filosofia dell’Illuminismo, nel tempo
più opportuno, die sistema e potenza rivoluzionaria di
radicale rinnovamento ad atteggiamenti spirituali comuni
all’Umanesimo e al Rinascimento italiano, recati in forma
brillante e paradossale fuori d’Italia dal pugliese Vanini,
il più scandaloso libertino del primo Seicento, e
per tale bruciato vivo nel 1619 a Tolosa.
Né basta. La benemerenza maggiore del letterato ita-
liano verso la civiltà moderna consiste nell’essere stato egli
primo che, con opera, non più di una persona o di una setta
— come ce n’erano state nei tempi di mezzo — ma uni-
versale a presso che tutti gli studiosi, la ruppe col domma-
tismo tradizionale, e promosse la libera attività dello spirito
nell’arte, nella scienza e nella filosofia: le quali parve, e si
IIT. IL CARATTERE DELLA FILOSOFIA ITALIANA 221
convenne, che potessero vivere ed esplicarsi interamente
astraendo dalla vita reale, e senza incontrarsi perciò né con
le leggi dello Stato, né con quelle della potestà ecclesiastica.
E così avvenne che l’uomo si dividesse in due parti: una
da abbandonarsi alla Chiesa e al Principe; poiché era il
tempo che attraverso la Signoria si veniva costituendo lo
Stato moderno come organismo essenzialmente politico;
ma l’altra, chiusa in sé e sequestrata dalla vita, libera di
spaziare senza lacci di premesse prestabilite, nella sicura
espansione della creazione artistica e della ricerca razio-
nale. Di modo che e il movimento umanista, che in filosofia
metterà capo al platonismo fiorentino e al nuovo aristo-
telismo di Padova e di Bologna; e il naturalismo, apparen-
temente antitetico, di Leonardo e di Machiavelli, di Telesio,
di Bruno e di Campanella, hanno una radice comune e
un medesimo significato. Sono la riscossa dello spirito
verso la libera manifestazione delle sue energie e la imma-
nente comprensione della realtà, al cui cospetto l’uomo,
nello stato della coscienza ingenua, si trova: sono la prima
negazione del trascendente e insieme la prima afferma-
zione della libertà dell’uomo. Il quale in Italia infatti
acquista la coscienza, tutta propria dell’età moderna, del
proprio valore e della propria potenza nel mondo : pren-
dendo le mosse dalle dispute umanistiche intorno al potere
della fortuna e alla nobiltà, e giungendo fino al grande inno
religioso del poeta filosofo, che dalla spelonca del suo
Caucaso napoletano, novello Prometeo, lancia il suo grido
per la Germania reverente al mondo : Pensa, uomo, pensa !
La rottura e la separazione tra l’uomo pratico e l'uomo
di studi non avvennero già senza difficoltà e contrasti:
anche perché la tradizione filosofica della Chiesa aveva or-
mai saldati legami indissolubili tra la teologia dommatica e
dottrine logiche e metafisiche, che nelle ultime scuole
medievali, nel sec. xm, avevano raggiunto la più solida
1ÍÍ. IL CARATTERE DELLA FILOSOFÍA ITALIANA
forma sistematica, ed eran battuti in breccia dagli Umani-
sti, come poi, con maggior vigore, dai filosofi del cadere
del sec. xv e del seguente. Ma i contrasti inevitabili (comin-
ciarono già col Petrarca, che polemizzò principalmente con-
tro la logica degli ultimi scolastici) ebbero sempre carattere
episodico ; e scoppiarono soltanto in quei casi in cui i pen-
satori non stettero scrupolosamente alla consegna di tener
separato il dominio della filosofia, o della scienza, da quello
che la Chiesa giudicò di sua speciale e sacra pertinenza.
E come ci fu un umanismo cattolico, o meglio di cattolici,
che poté vantare alle sue origini un pontefice dei meriti
eccezionali di Niccolò V, così può additarsi in un pio cano-
nico di S. Maria del Fiore, Marsilio Ficino, la sincera e
onesta alleanza della fede cattolica con quella stessa
filosofia, che, ridotta a più rigorosa coerenza, sarà l’Etica
dell’empio abbonito da tutte le Chiese, Benedetto Spi-
noza.
Storicamente, l’accordo fu ritenuto possibile e fatto
valere in pratica. Non importa se il letterato, cercando
bene dentro alla propria coscienza la radice dell’uomo,
che avrebbe dovuto alimentare la sua fede di cittadino e
di credente, non ve la trovasse; e fantasticasse, per esem-
pio, con Pomponio Leto non so quali classiche congiure
nella Roma di Paolo II; o con Tommaso Campanella
una « Città del Sole » comunistica insieme e teocratica
nelle montagne della sua Sila. Non importa se lo stesso
Campanella e Giordano Bruno non si tenessero dal ridere
delle credenze di quella religione che essi professavano;
e il Pomponazzi suggellasse col suicidio quella sua dottrina
tutta negativa e desolante della mortalità dell’anima, che
protestava di professare soltanto come filosofo, anzi come
semplice interprete di Aristotele, rimettendosi sempre
nella sua fede personale agl’insegnamenti della Chiesa;
e il Machiavelli non vedesse nella religione niente più che
uno strumento politico. La dottrina della doppia verità, che
ITI. IL CARATTERE DELLA FILOSOFIA ITALIANA
per i filosofi eterodossi del Medio Evo era stata una scap-
patoia personale, nel nostro Rinascimento divenne principio
riconosciuto universalmente, al quale i filosofi fecero sempre
ricorso perché esso rappresentava un modus vivendi già
convenuto.
Così, non solo l’arte fu cosa tutta individuale ed astratta,
al pari deirerudizione che invade il cervello senza toccare
la persona ; ma la stessa filosofia diventò corredo dell’intel-
ligenza, e non riguardò il cuore, la volontà, la vita. La
quale, ho detto, fu abbandonata allo Stato e alla Chiesa,
due istituti confusi facilmente non solo perché storicamente
le due giurisdizioni venivano su dai secoli di mezzo intrec-
ciate e commiste per modo che nella realtà non era possi-
bile più distinguerle nettamente, ma per una ragione più
profonda, in cui era propriamente l’origine e il motivo di
quella mescolanza ; e che viene alla luce in filosofi scevri
d’ogni pregiudizio, e lungamente e fieramente perseguitati
dalla Chiesa: in Giordano Bruno e in Tommaso Campanella.
I quali intrepretano lo spirito di tutta la filosofia del Rina-
scimento quando asseriscono fermamente l’irriducibile va-
lore pratico, ossia sociale e politico, della religione, senza la
quale essi non veggono possibile impero effettivo di leggi,
che governino e realizzino una comunanza civile. Egli è
che, per essi, la religione investe la persona, laddove la
filosofia riguarda soltanto la pura intelligenza, che si
svincola dai gravi legami della vita storicamente organiz-
zata, cui praticamente conviene che l'uomo si adatti; ma
se ne svincola per confinarsi in un mondo, che non sarà
più quel medesimo a cui volgesi la volontà.
La filosofia è prima delle Accademie, dove, tra i ricordi
di uomini e scuole che la fantasia circonfuse di una poetica
aureola, si leggono e meditano i libri testé riacquistati e
riaperti di intelletti sommi, volanti come aquile al di sopra
dei tempi, dei regni, dei costumi e d’ogni alterna vicenda
di cose che passano e non mutano né il mondo né l’uomo.
Zl\ IH. IL CARATTERE DELLA FILOSOFIA ITALIANA
Poi è filosofìa delFinfinito universo, del cielo sterminato e
popolato di inondi infiniti, e delle lor vite infinitamente mol-
teplici sgorganti da un principio unico, che è massimo ed è
minimo, e unisce in sé tutti i contrari, di là dalla natura spa-
ziale dove i contrari si contrappongono escludendosi; e in
quell’Uno lo spirito contemplando s’immerge, in un furore
eroico, onde riattinge la sua divina origine. In ogni caso,
l'uomo, padre della sua famiglia, e cittadino del suo paese, e
insomma uomo di questo mondo, in cui gl’incombe la re-
sponsabilità di quel che fa e di quel che dice, anzi di quello
stesso che pensa, poiché anche solo a pensare, egli si fa
principio di conseguenze che si ripercotono immancabil-
mente all’intorno, e concorrono o creano ostacoli al bene
cui universalmente si tende; quest’uomo dalla filosofia è
messo da parte. D’altro lato, quest’uomo, stretto all’obbligo
di render conto a ogni istante dell’esser suo, è preso dallo
Stato, che ne vigila e indirizza la condotta esteriore; e
poiché questa ha i suoi motivi nella coscienza, lo stesso
Stato ha bisogno della Chiesa, che vigili sull’interno delle
anime, e disciplini le volontà con quelle sue leggi, il cui
fondamento giace nel fondo dei cuori, donde può scaturire
ogni ispirazione veramente efficace delle azioni.
La filosofia del letterato italiano non andò mai
oltre un’etica prettamente naturalistica. La quale, chi
ben rifletta, non è una vera e propria etica, se l’etica è
la dottrina della libera vita, che crea se stessa, poiché
non esiste in natura: laddove ogni intuizione naturali-
stica suppone che la realtà, tutta la realtà, in ogni suo
carattere e particolare, potrà sì essere disconosciuta o
misconosciuta, ma esiste, e convien che lo spirito per
doveroso omaggio le sacrifichi ogni sua originalità. L’etica
che trae l’uomo dalla sua condizione naturale e istintiva
verso un fine superiore raggiungibile solo mediante lo
sforzo di vincere in sé la natura primitiva e conquistarne
III. IL CARATTERE DELLA FILOSOFIA ITALIANA 22j
una propria, tanto dalla prima diversa per quanto la
libertà differisce dal cieco meccanismo; quest’etica, che
fa l’uomo umanamente operoso, perché pensoso più di
quel che ha da essere, che non di quello che c’ è, e gli
fa dell’amore una legge, e un bisogno del sacrifizio di sé
agli altri e ad una realtà esorbitante dal suo particolare
interesse (idee tutte senza senso nella vecchia concezione
eudemonistica dei maestri greci) ; questa etica nuova
— che è poi la sola possibile — non poteva sfuggire al-
l’occhio acuto dei nostri filosofi essere la forza della re-
ligione positiva, che la loro filosofia non era tuttavia in
grado di elevare a coscienza di puro concetto.
Quindi il limite, che i nostri filosofi, non per prudenza
pratica, ma per logica necessità assegnano tutti al loro
filosofare, con una incoerenza che fa onore alla sicurezza
e larghezza del loro senso speculativo. Ecco Telesio che
s’impegna a spiegare la natura iuxta propria principia,
e perciò la divinizza. Ma la dottrina, che si vede spun-
tare verso la fine del suo vasto trattato De rerum natura,
dell'anima come forma propria dell’uomo, fun-
zione, teoretica e pratica, della vita eterna, onde l’uomo
si solleva al di sopra della natura, e la intende, non è
un’aggiunta estrinseca e una superfetazione del sistema,
anzi il complemento indispensabile per concepire nella
stessa natura l’uomo. Il quale perciò in fondo alla fati-
cosa costruzione telesiana, intesa a dimostrare la vanità
della teleologia aristotelica, comparisce a un tratto per
abbatterla con la sua sola presenza. Giacché se questa
natura, che nelle sue stesse forze materiali immanenti, o
nelle sue nature agenti, come il filosofo cosen-
tino dice, è il principio e la spiegazione di tutto il suo
essere ed operare, è pur quella che ha nel suo seno, e
di fronte a sé l’uomo che la guarda e l’intende, e può
farlo perché dotato di anima soprannaturale; essa, per
— (ìentu.b. I problemi della setti,:sl ira.
1 5.
2 ¿6
III. IL CARATTERE DELLA FILOSOFIA ITALIANA
confessione dello stesso Telesio, non è più intelligibile
iuxta propria principia.
Ed ecco, dopo di lui, cantato liberatore delle menti
dal giogo aristotelico e il « maggiore dei filosofi », e « splen-
dore della natura », ecco Tommaso Campanella dar senso
a tutte le cose, e tendere a fare dell’uomo un essere tra
esseri fratelli, ancorché minori, e un membro tra le mem-
bra diverse d’una sola immane mole animata. E pure
egli prende dal suo Telesio quella stessa dottrina della
mente sopraggiunta nell’uomo all’essere naturale, per
spiegarsi dominatrice non pure nell’anima individuale
come scintilla del divino e germe di quella religione na-
turale, che tanta storia doveva avere fuori d’ Italia da’
primi iniziatori del deismo inglese fino ad Emanuele
Kant, ma nella vita sociale, base inconcussa della sua
organizzazione necessariamente teocratica.
Ed ecco Bruno, che inneggia entusiastico, dalla Cena
delle ceneri al De minimo e alla Lampas triginta statuarum,
al Dio che è nelle cose, ma per distinguerlo dal Deus supra
omnia, dal Dio trascendente, al quale tiene per fermo che
questa divina natura abbia bisogno di esser sospesa; e
verso il quale la sua filosofia non ha ali, grata ai teologi,
che gliene suggeriscono l’idea, pronta ad accoglier da loro,
di là dal confine a cui essa può spingersi, un insegnamento
che tesoreggia un sapere soprannaturale. Giordano Bruno,
eroe, simbolo, vittima santa d’una tragedia, che è stoltezza
ascrivere a malvolere di uomini, o a protervia di sistemi,
sempre umanamente riformabili e quindi imputabili a chi li
mantenne ; poiché la sua fu la tragedia immanente alla sua
filosofia, anzi al suo tempo, orientato verso l’annulla-
mento del trascendente, e pure disposto, o meglio costretto
a rinserrarsi entro i cancelli di un mondo, che solo nel
trascendente poteva avere la sua ragion d’essere. Egli, lo
stesso Bruno, aveva già segnato a Venezia la propria
condanna, ammettendo, anzi affermando — come, del
III. IL CARATTERE DELTA FILOSOFIA ITALIANA
resto, aveva sempre fatto nei libri — una religione sacra
e intangibile, ma esterna e superiore, nella vita, alla sua
filosofìa. E la sua vera grandezza storica consiste appunto
nell’avere espiato sul rogo, come Gesù sul Golgota, non
un errore personale, ma quello di un’epoca; e non per
crudeltà di nemici, ma per una necessità storica, che farà
sempre guardare a lui come a uno dei martiri maggiori del
pensiero umano.
Martire con lui Galileo, ancorché la sua tragedia non sia
stata del pari cruenta. Ma non sanguinò il cuore al grande
vegliardo nell’atto della genuflessione e dell’abiura sotto la
minaccia dei tormenti, a lui settantenne e infermo? e poi
nella relegazione desolata, mentre che andava considerando
— secondo il suo pietoso lamento — « che quel cielo, quel
mondo e quello universo, che egli con sue maravigliose
osservazioni e chiare dimostrazioni aveva ampliato per
cento e mille volte più del comunemente veduto da’ sa-
pienti di tutti i secoli passati », si veniva per lui scemando
e restringendo, fino a chiudersi nella solitudine della sua
persona, poiché gii si spegneva la luce degli occhi? Galileo,
che mantenne e difese in due lettere famose la dottrina
bruniana della separazione della scienza dalla fede, mi-
rando bensì a sottrarre la prima alla soggezione della
seconda, ma nel presupposto che l’una non avesse ad in-
contrarsi nell’altra; e riconoscendo perciò egli pel primo,
che dove 1’incontro avvenisse — e quali conseguenze meta-
fisiche potessero trarsi dalla ipotesi copernicana aveva
mostrato Bruno —- la scienza dovesse piegare, come piegò
egli, nella triste penombra della Minerva, a disdire la sua
verità incompatibile con la dottrina di quella Chiesa, alia
quale egli pure voleva affidata la salute dell’anima?
Anche la sua, bisogna riconoscerlo, fu scienza da lette-
rato; e non poteva essere autonoma, perché espressio-
ne, non della umana personalità, ma, ripeto, di astratta
intelligenza.
2 2 8 III. IL CARATTERE DELLA FILÓSO PIA ITALIANA
Al di sopra di Galileo, nell'ordine del pensiero specula-
tivo, alla distanza di una generazione rimasta a trava-
gliarsi negli astratti problemi di matematica e di fìsica della
scuola galileiana, grandeggia Giambattista Vico; il massimo
erede del nostro Rinascimento e insieme l’oscuro profeta
d’ogni più alto concetto filosofico dei tempi nostri ; Vico,
che converte la speculazione dall’esterna natura, impene-
trabile ad occhio mortale, alla storia, al mondo dello spirito,
o, come egli dice, mondo delle n a z i o n i , lucido
specchio delle leggi stesse della mente che si propone
d’intenderlo. Vico, che movendo dall5intuizione naturali-
sticamente panteistica dei nostri platonici del Quattro e
del Cinquecento, e sentendo le esigenze agnostiche spun-
tate dalle riflessioni della scienza recente e dallo stesso
dubbio cartesiano, fa centro del circolo neoplatonico, onde
l’uno si moltiplica per ritornare a sé dal molteplice, appunto
nell’uomo; in cui scopre il creatore d’un mondo tutto di-
verso da quello a cui la vecchia filosofia e la nuova scienza
avevano mirato: un mondo non meno reale, quantunque
spirituale, e non meno eterno, quantunque spiegantesi nel
tempo mercé l’opera dell'umano arbitrio. E proclama così
la sua Scienza Nuova: nella quale l’intelletto non è più
contemplatore d’una realtà non sua, anzi, come unità di
mente e di arbitrio, di teoria e di pratica, il prin-
cipio stesso d'una realtà, che è reale soltanto come suo
proprio sviluppo. E quindi un nuovo furore eroico, ben
diverso da quello del Bruno: non più l’estraniarsi dell’uo-
mo da sé per immedesimarsi con la natura, anzi un
profondarsi in se medesimo per attingere il principio della
divina vita creatrice.
Fu dunque il Vico panteista? Il panteismo è una visione
naturalistica, e Vico è uno dei più vigorosi e originali asser-
tori della realtà spirituale. Ma di certo la sua filosofia è
tanto spiritualisticamente immanentistica, quanto è da dirsi
a buon diritto naturalistica la filosofia di Bruno e di Cam-
m. IL CARATTERE DELLA FILOSOFIA ITALIANA 22Q
panelli. Ciò non toglie tuttavia che anche nel Vico riappaia
il trascendente; non solo perché con una sincerità e una
serietà religiosa, da cui i pensatori del Rinascimento furono
tutti alieni, egli professò scrupolosamente il suo cattoìi-
cismo, e cattolica volle la sua filosofia; ma anche, e princi-
palmente, perché il suo immanentismo sta e si regge dentro
certi limiti, che il filosofo napoletano si guarda bene di
sorpassare; e se ne guarda bene, non già perché gliene
manchi il coraggio — che a nessun filosofo ha fatto mai
difetto ! — ma perché nel sistema totale del suo pensiero
gliene manca assolutamente il modo. Il suo mondo umano
è prodotto della Provvidenza, intesa come quella logica
appunto che governa la nostra mente, e dentro la quale
questa mente celebra la propria libertà. Or bene: questa
Provvidenza è dunque la stessa mente umana nella sua
eterna essenza e nel suo immortale valore?
No; per quanto equivoche possano riuscire non poche
espressioni della Scienza Nuova, essa è quella divina Prov-
videnza, che nella stessa vignetta che il Vico si compiacque
di premettere al libro, illumina dall’alto l’uomo che esce
dalla selva primitiva, come Dante che sarebbe ritornato
indietro senza il soccorso di Virgilio mandato dal cielo.
E questa divina Provvidenza non s’identifica del tutto con
la umana, perché accanto alla Scienza Nuova rimane pur
sempre, non mai rifiutato dall’autore, il suo De antiquis-
sima Italorum sapientia, di cui qualche eco si ode pure nel-
l’opera maggiore: una dottrina cioè, per cui la realtà è
naturale, ed ha un principio metafisico a sé, diverso da
quello onde si genera la storia, e ad esso irreducibile.
Tant’è, la sola scienza concessa allo spirito umano resta
sempre quella del mondo suo proprio; e di fronte ad esso
resta sempre, impenetrabile, la natura di Dio, col suo eterno
divieto. Dio dunque non è l’uomo : non è l’attività che fa
l’uomo uomo, fabbro della propria fortuna, di tutto un
mondo, non proprio di un individuo particolare, ma storia
III. IL CARATTERI Di.I.LA FILOSOFIA ITALIANA
230
di tutti, che è complemento e compimento dell'essere.
E però l'uomo non è Dio, ma Io ha in faccia, superiore a sé ;
e deve curvare le ginocchia, e sottomettersi.
Qui è la radice della contraddizione e della oscurità del
Vico, il filosofo più religioso che l’Italia abbia avuto. Chi
può dirci quanta coerenza e quale vigore di svolgimenti la
sua filosofìa avrebbe raggiunto, se avesse potuto sottrarsi
all’incubo dei presupposti fermissimi, sotto i quali giacque
durante la sua lunghissima tormentosa gestazione (si son
potute contare ben dieci redazioni della Scienza Nuova !), e
quale virtù di disciplina mentale e morale non avrebbe ella
potuto spiegare sugrintelletti italiani? I quali invece, per
un secolo e più, mirarono a lei come a sfinge misteriosa,
presentendo vagamente negli avvolgimenti di quel pensiero
ammonimenti vitali; ma incerti del loro genuino significato,
che non può svelarsi se non in un sistema logico, netto,
ricavato tutto da un principio tratto con rigore alle conse-
guenze con cuore che non trema, perché sente in sé la forza
onnipotente che rassicura. E Vico ha dovuto aspettare nel
sec. xix un pensiero liberato dagli abiti tradizionali per
influsso di forme spirituali straniere, affinché potesse esser
ravvisato nella sua schietta fisionomia, e quasi svelato a
se medesimo.
Dopo Vico, l’Italia, dalla metà circa del Settecento fino
ai primordi del secolo scorso, fu aperta e soggetta al riflusso
della cultura europea, non ancora così adulta da potere sco-
prire l’originalità del grande pensatore napoletano. La cul-
tura, nata nell’Italia della Rinascita, vi ritornava come
filosofìa dell’esperienza e antimetafisica, come illuminismo,
come materialismo: nelle forme estreme a cui l’umanismo e
il naturalismo italiani erano pervenuti attraverso il movi-
mento spirituale europeo della nuova scienza e della nuova
fede religiosa e politica, dalle lotte per la riforma e la libertà
di coscienza a quelle della rivoluzione politica e sociale, ne’
suoi prodromi e ne’ suoi contraccolpi. L’Italia parve allora
III. IL CARATTERE DELLA FILOSOFIA ITALIANA 231
decadere nel pensiero, insieme con gli altri paesi d'Europa ;
o almeno, cosi parve alle prime generazioni del secolo se-
guente. Ma l’apparente decadenza era nuova disciplina a
più alto segno, e a nuovo risorgimento. Paragonare, per
esempio, col Vico il filosofo napoletano subito dopo di lui
salito egualmente in alta fama, tra la stima concorde e il
plauso di tutta Italia, Antonio Genovesi, per chi non sappia
applicare ai valori ideali se non una misura assoluta, senza
riguardo ai rispettivi momenti storici del loro manifestarsi,
può essere argomento di malinconiche considerazioni per
l’età seguita alla morte del Vico. Il Genovesi non ebbe
mente per intuire i grandi problemi vichiani; a petto
dell’autore della Scienza Nuova, non par né anche meritare
nome di filosofo. E pure nel Genovesi e nella numerosa sua
scuoia e in tutti gli scrittori affini d’ogni regione italiana,
l’Italia nella seconda metà del Settecento affronta pro-
blemi non sospettati dal Vico : in apparenza molto modesti,
dal rispetto speculativo, ma in realtà di grande portata
storica, e perciò filosofica. Giacché la filosofia ora si fa
piccola per affiatarsi col mondo dell’esperienza e mettersi
a contatto della vita: e volgesi all’economia e alle
questioni sociali e pedagogiche recandovi il suo spirito
illuminato e concreto, per tentare anche in Italia una
cultura che sottragga gli spiriti ai frati e agli accademici
e ai letterati, stretti in alleanza per opposti interessi con-
correnti nel concetto di una vita senza riflessione scientifica
e senza libertà spirituale, e di una scienza e di un’arte
senza vita. Immagine viva dell’epoca la poesia di Giuseppe
Parini: la cui forma, liberatrice della poesia italiana dalla
Arcadia, è tutta nel nuovo contenuto, semplicissimo e
quasi elementare, e pur possente d’ispirazione, e iniziatore
di un’epoca nuova: la coscienza dell’uomo, nella sua dirit-
tura, nella sua dignità morale; onde il poeta scopre in sé
l’uomo, e fa vibrare nel canto una corda non più udita
da Dante in poi. Muore il letterato, perché rinasce l’uomo.
III. IL CARATTERE DELLA 'FILOSOFIA ITALIANA
Rinasce nel Parini, rinasce nell’Alfieri; rinasce nel poeta,
come rinasce nel filosofo, che si guarda intorno, e sente
la vita che è sua, e non gusta più la filosofia che lo estrani!
da essa. E la nega; e cade nel sensismo, e fino nel mate-
rialismo: che ha questo motivo storico, per cui rappresenta
un progresso sul passato : il bisogno di afferrarsi al positivo,
all’attuale, per poter agire su di esso, e governarlo da sé,
senza comode ma pericolose delegazioni.
Da quel movimento si levarono le prime voci unitarie
italiane; e quando esso fu reso più vivace ed esteso ad ogni
parte della penisola dall’irrompere e dilagare della grande
Rivoluzione di qua dalle Alpi, sorse la nuova coscienza, non
più astratta e letteraria, ma positiva, operosa, politica, e
insomma concreta ed efficace, dell’Italia nazione che po-
tesse e dovesse far da sé.
Il Rinascimento era chiuso; ed era cominciato il Risor-
gimento. I filosofi sono all’avanguardia; dopo Galluppi,
che dentro alla Napoli Borbonica, sospettosa non pur delle
novità, ma delle stesse più onorate tradizioni paesane,
rinnova bensì Tantico esempio della filosofia paga di astratte
speculazioni pur di spaziare liberamente nella tranquilla
cerchia de’ suoi problemi; ma per questa via riesce, con le
sue analisi pazienti, acute, insistenti, a ridare al pensiero
italiano il senso e la disciplina della rigorosa ricerca specu-
lativa mettendo in luce le esigenze critiche immanenti a
ogni filosofia dell’esperienza che abbia chiara consape-
volezza di sé; dopo Galluppi, la filosofia italiana, già in
possesso del nuovo punto di vista raggiunto dalla specu-
lazione europa col Kant, può col Rosmini e poi meglio
col Gioberti tornare alla metafisica. Può inaugurare una
filosofia, degna di questo nome, senza limiti, e senza
rinunzie: concetto del mondo e dell’uomo nel mondo.
È il tempo del nostro Romanticismo : l’uomo non si conten-
ta più di immagini o idee senza rapporto necessario con i
III. IL CARATTERE DELLA FILOSOFIA ITALIANA 233
suoi interessi ed affetti quotidiani; anzi di questi affetti e
interessi fa materia alle sue immagini e alle sue idee, che
intende trattare come cosa seria, affare di coscienza.
Né il mondo è più quello a cui mirava una poesia di sogno
o una speculazione metempirica, ma il mondo appunto di
questa attuale esperienza, in cui è il nostro dolore e l'ar-
dente aspirazione di tutti i momenti a liberarcene. Para-
gonate ora l’uomo del Manzoni, espressione perfetta di
questa età, all’uomo del Monti; che abisso! E lo stesso
abisso divide il Saggio filosofico del buon Galluppi dal
Primato e dal Rinnovamento del Gioberti, Da una parte,
il letterato, il vecchio italiano, che a prezzo della sua libertà,
anzi della sua anima, ha conquistato la libertà, anzi la
vita alla civiltà dell’Europa; dall’altra, il poeta che effonde
la sua anima di uomo che è alla presenza di Dio, e sente
tutta la propria miseria, ma anche la grandezza di cui può
essere fatto degno dalla fede animosa in quel Dio, in cui
è la sostanza di tutto quello che forma il pregio della vita,
e che l’attrae a sé accendendogli dentro fiamme di amore ;
e il filosofo che scruta in sé i legami ond’egli, e ogni uomo,
è avvinto a tutte le cose, e tutte le cose fanno sistema in un
mondo spirituale, retto da leggi più ferree di quelle, da cui
par governata la natura esterna; in un mondo, a cui l’uomo
collabora con gli sforzi del suo volere, in una divina auto-
coscienza, onde l’essere, tornando a sé, realizza appieno la
sua spirituale essenza. La vita diventa una milizia, in
quanto tale si scopre nel profondo della riflessione; la vita,
compenetrata dello spirito vitale del cristianesimo; la vita,
che la filosofìa sveglia e promuove con voce che penetra
nelle tombe, e ne risuscita i morti, segnando la via per cui
la vita è degna dell’uomo, indirizzato a una meta.
Rosmini è ancora legato al passato: la sua filosofia vuol
essere, e non è, questa vivente coscienza del divino che
abita nello spirito umano : per tema di romperla con la re-
ligione, rimasta, secondo lui, di là dalla umana specula-
234
JII. IL CARATTERE DELLA FILOSOFIA ITALIANA
zione, egli avvolge e ricinge lo spirito entro fasce e fasce
di distinzioni sottili tra il soggetto puramente umano,
ancorché illustrato dal lume divino, e Dio, l’essere reale
assoluto che reca in sé il segreto della nostra felicità,
perché è tutto ciò che il cuore o l’intelletto possa deside-
rare. Ma Gioberti, il grande Gioberti, la cui anima giova-
nile si accostò e s’accese al fuoco della apostolica fede
mazziniana, dell’Ezechiello immortale della nuova Italia,
Gioberti strappò le fasce; e non volendo neppur gettare
da un canto il cattolicismo, a cui vide abbarbicati gli
spiriti italiani, non lo credette tuttavia capace di sopravvi-
vere senza riformarsi ; e riformarsi nel trionfo dell’assoluta
libertà dello spirito, divenuto pienamente consapevole
della sua infinita natura e potenza. E l’Italia non dimenti-
cherà che ai primi fremiti, onde si riscosse la sua coscienza
nazionale per affermarsi in campo giovenilmente audace
contro il suo oppressore, essa si trovò e ritenne giober-
tiana; né dimenticherà che, dopo la prima prova fallita,
ma non indarno tentata, se è vero che porre un problema
è avviarne la soluzione, nel glorioso decennio privilegiato
del genio prudente e audace del Cavour, il suo programma,
come in un libro di profezie, era tutto segnato nell’ultima
opera del suo maestro del ’48, il più grande excubitor inge-
niorum che il nostro paese abbia avuto.
Signori,
Quel programma non è esaurito; poiché per decenni e
decenni giacque negletto e quasi dimenticato, mentre questa
Italia, che s’era politicamente abbozzata, sarebbesi do-
vuta formare interiormente nel pensiero e nella volontà
di grande popolo, che ha dietro a sé una storia splendida
di energie umane, ancorché incomposte e prive di quella
comune e salda disciplina statale, che é condizione d'ogni
UT. IL CARATTERE BELLA FILOSOFIA ITALIANA 235
grande potenza spirituale; e ha innanzi a sé un vasto
arduo compito di civiltà, creatogli appunto da questa disci-
plina una volta ottenuta, principio ed impegno, in faccia
al mondo, d’ima nuova storia.
Il vecchio letterato è morto ; ma ei dev’essere morto non
solo nel concetto e nel gusto degl’ Italiani, sì anche nella
vita, nel carattere, nella volontà. L’Arcadia e la rettorica,
l’accademia e la filosofia da eruditi devono essere davvero
un passato irrevocabile, morendo nei cuori, soffocate dal
sentimento religioso della serietà austera, non di alcuni
soltanto dei nostri pensieri e dei nostri atti, ma di tutti gli
istanti della nostra vita. A questo patto l’Italia manterrà
l’impegno contratto. L’Italia dei letterati crollò quando il
suo popolo seppe ascoltare la voce di un Gioberti e si levò
in piedi, e si strinse intorno a una bandiera, ed entrò in
Roma. Ma qui non può restare senza smettere le ultime
spoglie della vecchia coscienza, che distingueva e distin-
gueva, e uccideva nell’uomo l’uomo, tarpando le ali al
pensiero, estraniando l’arte dalla vita e cacciando la filo-
sofia tra le morte ombre dell’intelletto.
Qui Dante che aspetta, deve risorgere: non solo nella
gran luce di Monte Mario, ma nel profondo dell’anima
italiana. Questa è l’ora di rifare qui l’uomo intero, che
senta come pensa, e operi come parla, uno, saldo, con la
fede che spiana i monti perché fonde la volontà nel dovere,
e le dà così tempra d’acciaio.
L’Italia, diciamolo con Dante, mostra di aver ben appreso
quest’arte : ed eccola nell’ora del pericolo affollata sulle cre-
ste dei monti percosse con vana furia di ferro e di fuoco
dalla rabbia nemica, e sulla riva arginata da una muraglia
di giovani petti, risoluta virilmente ad essere spezzata
piuttosto che piegata: e in tale risolutezza, già vittoriosa.
Ma quella tempra d’animo che non crolla, né vede ter-
mine medio tra la morte e la vittoria nel trionfo dell’ideale
abbracciato, noi aspettiamo, noi vogliamo che dai campi
DEIXA FILOSOFIA ITALIANA
230 HI. IL CAKATTCKL
di battaglia torni, lucida e salda, a quelli del lavoro quoti-
diano, alla casa e alla scuola, negli uffici e nelle officine,
nei traffici e nella politica, nell’arte e nella scienza: e la vo-
gliamo qui, nella filosofia, a cui convergono e da cui si
riflettono tutti i raggi della vita morale d’un popolo.
È tempo che si riprenda la grande tradizione giobertiana;
e che degli esperimenti di pensiero, di cui abbondò il
primo mezzo secolo di quest’Italia nuova, si raccolga il
frutto, instaurando nella filosofia, e con essa e per essa in
tutta la nostra attività spirituale, quella pienezza, che fa
del pensiero fucina ardente, non di semplici sistemi specu-
lativi, ma di sistemi della vita,
INDICI
fe
INDICE DEI NOMI
Abrabanel (Yéhudàh): v. Leone
Ebreo.
Acquaviva (Giovanni Girola-
mo) , 198.
Agostino (S.}t 16, 5>, 53, 58,
67, Si, 90.
Alberto Magno, 8, 16, 8o, 113.
Aldovrandi (Ulisse), 196.
Alessandro di Afrodisia, 118-19,
126.
Alessandro di Hales, 8, 80.
Alfieri (Vittorio), 232.
Alighieri (Dante): v. Dante Ali-
ghieri.
Almagià (Roberto), 200, 206.
Amari (Michele), 30 e n.
Anseimo (S.) d’Aosta, 8, 66,
67-81, 83, 85, 90.
Acquasparta (Matteo d’) : v.
Matteo d’Acquasparta.
Ariosto (Ludovico), 149.
Aristotele, 3, 7, io, 12, 16, 18,
26, 32, 49, 52, 54, 58, 61,
65, 82, 84, 85, 86, 87, 88,
Sa, 90, 9 2, 94. 99. 102, 103.
104, 105, ioó. 107, 108, 109,
I IO, in, 112, ii 4, 116, 117,
118, 119, 120, 121, 123, 125,
12 7. 138. 146, 147. 148, 149.
15L DA 153. 155. 158, 159.
161 e n., 162 n., 170, 171,
i?2. 173. 174 e n., 175. 176,
17 7» 180, 182, 184, 201, 22 2.
Anione (Benedetto), 205.
Averroè, 16, 31, 33, 34, 94,
105, 116, 118, 119-22, 123,
126, 151.
Avicenna, 16, 33, 34, 90.
Bacon (Francis), 13, 42, 101,
15L 152> 153, 155 e n., 168,
169 e n., 170, 171, 172, 182,
184, 201, 204, 220.
Bacon (Roger), 8, 34, 35.
Baeumker (Clemens), 8.
Battelli (Francesco), 154, 155,
158 n., 159 n., 160 n., 199,
203, 205.
Bartholmèss (Christian), 203.
Bartolomeo da Messina, 35.
Barzellotti (Giacomo), 209.
Bentivenga (Matteo) d’Acqua-
sparta: v. Acquasparta (Mat-
teo d’).
Benvenuto dei Rambaldi da
Imola, 29.
Berkeley (George), 101, 173.
Bernardone (Pietro), io.
Bertoni (Giulio), 160 n.
Bianchi (Domenico), 204.
Blanchet (Léon), 206.
Boccanera (Giuseppe), 202.
Boezio (Anicio Manlio Tor-
quato Severino), 15, 16.
Bambini (Vincenzo), 167.
Bonaventura (S.) da Bagnorea,
INDICE DEI NOMI
- 4°
8, 37-57> 5&> DL 65, 66, So,
82, 83, 84, S5.
Borici (Francesco), 200.
Brucker (Johann Jakob), 202,
205.
Bruno (Giordano), 25, 26, 136,
M7. 15B i53a I54 e n-, 169,
ino, 204, 220, 221, 222, 223,
2 26, 227, 228.
Buhle (Johann Gottlieb), 202.
Campanella (Tommaso), 25,
136, 148, 167, 168 n., 160,
182, 186 n.. 187, 190, 205,
206, 220, 221, 222, 223, 226,
228.
Capilupi (Ippolito), vescovo di
Fano, 159.
Capilupi (Lelio), 160 n., 201.
Carata (Ferdinando), 193, 19S.
Carata (Ferrante), duca di No-
cera, 159 e n., 164.
Carriere (Moritz), 204.
Cartesio (Renato): v. Descartes
(René).
Cassirer (Ernst), 206.
Castriota (Giovanna), duchessa
di Novera, 166, 199, 201.
Cavalcanti (Giulio), 167, 201.
Cavour (Camillo Benso di), 234.
Ceci (Duilio), 206.
Cesalpino (Andrea), iq6.
Cesi (Federico), 152.
Charbonncl (J. Roger), 206.
Châtelain (Émile-Louis-Marie),
Di-
chiara (Stefano De) : v. De
Chiara (Stefano).
Cicerone (Marco Tullio), 16.
Collenuccio (Pandolfo), 34.
Colonna (Egidio) : v. Egidio
Romano.
Cornelio (Luigi), vescovo di
Padova, 198.
Cotugno (Domenico), 194.
Croce (Benedetto), 157 11.
Cusano (Niccolò): v. Niccolò
da Cusa.
Daniels (A.), 77 11., 83 n., 84 n.
Dante Alighieri, 4, 9, 11, 12,
14-24, 27-28, 30, 34, 35, 56,
IOÓ, 122. 126, I27, 129, I3I,
132, I43, 218, 2IQ, 229, 231,
2 3 5 -
D’ Aquino (Giovanni Paolo)
154 11., 157 n., 158 n., 159 n.,
r6o n., 164 e n., 166 e n.,
196, 199, 200.
De Chiara (Stefano), 205.
De Matera (Luciano), 205.
Democrito, tu, 173.
De* Monti (Scipione), 199.
Denifle (Heinrich), 13.
Descartes (René), 7, 13, 41,
44, 79, 83, 90, tot, 151, 190,
217. 220.
De Vio (Tommaso), 113.
Dilthey (Wilhelm), 203.
Dionigi (Pseudo) TAreopagìta,
90.
Di Tarsia (Galeazzo), 205,
Duns Scoto (Giovanni), 8, 34,
80, 111-12, 113, 114, ri 5,
Di-
Eckhart (Meister), 13.
Egidio Romano, 80, 113.
EÌlis (Robert Leslie), 169 e n.,
201, 204.
Enrico di Brabante, 34,
Enrico di Gand, 80.
Epicuro, t6.
Eraclito, ir8.
Erasmo da Rotterdam, 220.
Erdmann (Johann Eduard),
20 3.
Eriugena (Giovanni Scoto) : v.
Scoto Eriugena (Giovanni).
Ermanno il Tedesco, 20.
al-Faràbl, 16.
INDICE DEI NOMI
-MI
al-FarghanT, 16.
Federico II di Svevia, 3, 4, 9,
28, 29-35.
Felici (Giovanni Sante), 186 n.,
205.
Ferri (Luigi), 204.
Vicino (Marsilio), 25, 29, 136,
147, 222.
Fiorentino (Francesco), 160 n.,
164 n., 165 n., 169 n., 183
e n., 186 n., 196, 190. 203,
204,
Fishacre (Richard), 80.
Folengo (Teofilo), 149.
Foscolo (Vigo), 24.
Fowler (Thomas), 152 n.
Francesco (S.) d’Assisi, io, 37,
38, 39, 40, i4r,
Francesco I, re di Francia, 139,
Francie (Adolphe), 204.
Freher (Paulus), 201.
Gaeta (Giacomo), 167.
Gaetano (II) : v. De Vie (Tom-
maso).
Galilei (Galileo), 106, 227, 228.
Galli (Tolomeo), card., 197.
Galluppi (Pasquale), 232, 233.
Garofalo (Francesca), 156.
Garofalo (Vincenza), 205.
Gaunilone, 77, 79, 85.
Genovesi (Antonio), 231.
Gentile (Giovanni), 168 n.
Gesù Cristo, 9, 39, 40, 45, 55,
139, 227.
al-GhazzàlI, 16.
Gilbert (William), 168.
Ginguené (Pierre-Louis), 202.
Gioberti (Vincenzo), 7, 25, 26,
64, 211, 232, 233, 234, 235.
Giorgi (Benedetto), 199.
Giovanni (S.) Evangelista, 31.
Giovanni di Salisbury, 151.
Grabmann (Martin), 56 n.
Graesse (Theodor), 193.
Greco (G. M.), 204.
Grego (Luigi Maria), 201.
Gregorio IX, papa, 30, 33.
Gregorio XIII, papa, 164.
Gruter (I.), 201.
Guglielmo di Auxerre, 80.
Guglielmo di Moerbeke, 34.
Guglielmo di Occam: v. Occam
(Guglielmo di).
Guglielmo di Ware, 80.
Haeckel (Ernst Heinrich), 122.
Hegel (Georg Wilhelm Frie-
drich), 7,
Heiland (Karl), 180 n., 204.
Henry (C.), 83 n.
Herbart (Johann Friedrich),
109.
Herbert di Cherbury, 220.
Hobbes (Thomas), 24, 101.
Hume (David), 101.
Jacopone da Todi, 93, 141.
Iamsilla (Pseudo) : v. Niccolò
di Iamsilla.
Ibn Sab’ In, 30, 31.
Imperiale (Giovanni), 201,
bilia (Vincenzo), 204.
Kant (Immanuel), 7, 44, 49,
59, 65, 68, 69, 74, 75, 76,
86, 91, 95, 96, 100, 172, 173,
226, 232.
Lasswitz (Kurd), 204.
Leibniz (Gottfried Wilhelm
von), 47, 152 n.
Leonardo da Vinci, 221.
Leone Ebreo, 147, 220.
Leopardi (Giacomo), 24.
Leto (Pomponio), 222.
Locke (Johan), 101, 173.
Lotter (Johann Georg), 201,
Lucrezio Caro (Tito), 91.
Machiavelli (Niccolò), 56, 148,
221, 222.
16. — O kntii.k, I problemi della scoi a.stiro
INDICE DEI NOMI
Maggio (Vincenzo), 100, ibi.
Malebranche (Nicolas de), 151.
Manfredi, re di Sicilia, 3, 4,
32, 34-
Manso (Giambattista), 165 e n.
Manzoni (Alessandro), 233.
Marsilio da Padova, 25.
Marta (Giacomo Antonio), 167.
Martelli (Francesco), 163 n.,
163, 195, 197, 198.
Martirano (Bernardino), 157.
Matteo d’Acquasparta, 56-57,
80.
Matteo (S.), 9 n.
Mazzella (Scipione), 199, 201.
Medici (Ferdinando de’), 165,
195-
Mercier (Désiré), 04.
Mercuriale (Girolamo), 199.
Michele Scoto, 34.
Micheli (Giovanni), 199.
Mocenigo (Filippo), 190.
Montano accademico cosentino:
v. Quattromani (Sertorio)
Monti (Vincenzo), 233.
Morghen (Raffaello), incisore,
197, 202, 206.
Nardi (Bruno), 45 11., 132.
Niceron (Jean-Pierre), 196, 202.
Nieodemo (Leonardo), 165 n.,
200.
Niccolò da Cusa, 220.
Niccolò di lamsilla, 29.
Niccolò V, papa, 222.
Nizzoli (Mario), 152.
Occam (Guglielmo di), 80.
Olivi (Pier Giovanni), 126.
Olschki (Leonardo), 206.
Orange (Philibert de Chalon,
principe d’), 157.
Palermo (Francesco), 163 n.,
165 n., 195.
Paolo (S.), 39, 92.
Paolo II, papa, 222.
Paolo Veneto, 24.
Paracelso (Theophrastus Bom-
basi von Hohenheirn, detto),
168.
Parini (Giuseppe), 231, 232.
Parmenide, 78, 109 e n.
Pascal (Blaise), 151, 217.
Patrizzi (Francesco) da Cherso,
25, 165, 168, 169 e n., 198,
199.
Peckham (John), 80.
Pendasio (Fed-), 199.
Persio (Antonio), 162 n., 105,
198, 199.
Petrarca (Francesco), io, 14,
24, 25, 32, 143, 144, 218,
219, 222.
Pico della Mirandola (Gio-
vanni), 147.
Pietro d’Àbano, 25.
Pietro Lombardo, 80.
Pietro di Tarantasia, 80.
Tinelli (Giovanni Vincenzo),
199.
Pio IV, papa, 1D3.
Platone, 7, rò, 54, 79, 81, 82,
90, 102, 107, 108, 109, no,
in, 112, no, 137, 146, 147,
149, 157 n.t 172, 173, 174.
Ponietti (F.), 157 n.
Pomponazzi (Pietro), 25, 31,
126, 147, 186 n., 196, 222.
Porfirio, 49.
Protagora, 82, 102.
Pseudo-Uionigi i’Areopagita : v.
Dionigi (Pseudo) 1’ Areopa-
gita.
Quattromani (Sertorio), 160 n.,
164 n., 165 n., 200, 204.
Ramo (Pietro), 153.
Renan (Joseph-Ernest), 30.
Riccardo di Middleton, 80.
Riccardo di S. Vittore, 38.
FNDTCi: DEI NOMI
Bitter (Heinrich), 203.
Rixner (Thaddaeus Anselm),
201, 202.
Roberto di Couryon, 33.
Rosmini Serbati (Antonio), 25,
56, 126, 232, 233.
Rousseau (Jean-Jacques), 24.
Rousselot (Pierre), 57 n.
Salirnbene (fra) da Parma, 29.
Salvi (Francesco Saverio), 202,
203.
Scaglione (Ferdinando), 203.
Scoto Enugena (Giovanni), 8.
Scoto (Michele) : v. Michele
Scoto.
Sensale (Diana), 163, 164.
Sertillanges (Antonin-Dalma-
ce), 62 n., 64, 66 n., 95 n.
Severino Danese, 168.
Siber (Thaddaeus), 201, 202.
Sigieri di Brabante, 31, 122.
Socrate, 82, 102, 164, 168.
Spampanato (Vincenzo), 182
n., 194, 196, 197.
Spedding (James), 201.
Spencer (Herbert), 122.
Spinoza (Baruch), 45 n., 220,
222.
Spiriti (Salvatore), 199, 202.
Taddeo d’Alderotto, 20.
Talete, 16, 179.
Tasso (Torquato), 165 e n.
Tassoni (Alessandro), 167 n.,
206.
Hi
Telesio (Antonio), 157, 160 n.,
201, 206.
Telesio (Bernardino), 25, 133-
20Ó, 220, 221, 225, 2 26.
Telesio (Giovanni), 156, 205.
Telesio (Luigi), 160 n,, 196,
199, 200, 201, 203.
Telesio (Paolo), 157.
Telesio (Prospero), 156, 165.
Telesio (Tommaso), 157, 163.
Telesio (Valerio), 156.
Temistio, ny.
Tocco (Felice), 197, 204.
Tommaso (S.) d’Aquino, 8, 12,
15. rR 19, 31, 34, 45 n., 56,
57-66, 80, 81, 84-96, 105,
108, in, 113-16, 122-30,
131, 142, 144, 147.
Tornale (Gian Iacopo), 198.
Toppi (N.), 165 n., 200,
Troilo (Erminio), 165 n., 200,
200.
Tucidide, 157 n.
Ugo di San Vittore, 126.
Valla (Lorenzo), 136, 220.
Yanim (Giulio Cesare Lucilio),
220.
Vico (Giambattista), 25, 26,
44, 47, 181, 182, 228, 229,
230, 231.
Villani (Giovanni), 34.
Virgilio, 17.
Vittorini (I), 52.
INDICE SOMM A E I O
A wer lenza
p. vii
I
I PROBLEMI DELLA SCOLASTICA E IL PENSIERO ITALIANO
i. La filosofìa scolastica in Italia e i suoi pro-
blemi » 3
i. Impulso dato agli studi filosofici in Italia da Federico li
di Svevia e da suo figlio Manfredi. - 2. Carattere nazionale
della filosofia. - 3. Universalità della filosofia scolastica. -
4. Il limbo dantesco simbolo del mondo scolastico. -
5. Inizio delle filosofie nazionali alla fine del Medio Evo. -
6. Il tentativo di Dante : il Convivio. — 7. La Divina Commedia.
- 8. Rapporto della scolastica col pensiero italiano. - 9. Lo
spunto antiscolastico del De monarchia. - io. Le idee filosofiche
di Federico e lo studio di Aristotele nel sec. xni. — 11, Argo-
mento delle seguenti liezioni.
il. La verità » 37
1
1. Il misticismo di Francesco d'Assisi e quello di 3. Bona-
ventura. - 2. Il motivo dell’Itinerario di Bonaventura. -
3. Opposizione tra lo spiritualismo cristiano e quello greco.
Lo spiritualismo platonico. - 4. Lo spiritualismo di Aristo-
tele. - 5. L’intellettualismo greco e la « teogonia umana »
del cristianesimo. - 6. Esposizione dell’Itinerario. I grandi
mistici. - 7. la memoria. - S. L’intelletto. -
9. La volontà. - io. Conclusione scettica del misti-
cismo. - 11. Soluzione platonica del problema cristiano.
II
1. Matteo Bentivenga d’Acquasparta e Tommaso d’Aqui-
no. - 2. L’intellettualismo di Tommaso d’A. e la sua defi-
nizione della verità. - 3. Senso e intelletto nella dottrina tomi-
sta. - 4. La verità come relazione ideale. - 5. Il pregio e il di-
fetto del concetto tomista della verità.
246
INDICE SOMMARIO
ni. Dio e il mondo
1. Il credo ut iutelligarn di Anseimo d’Aosta, e i rapporti tra
fede e scienza, tra esperienza e pensiero. - 2. Il concetto della
esperienza e quello della fede. - 3. L’errore scolastico in-
torno alla libertà dello spirito, in generale, e il concetto di Dio
in Anseimo, — 4. Il vero senso dell’ argomento ontologico. -
5. Il suo carattere, e la critica di Gannì Ione. - 6. La causa
dell'errore di Anseimo e la logica aristotelica. - 7. II signifi-
cato storico dell’argomento ontologico e le sue vicende. -
8. I due indirizzi (platonico-agostiniano e aristotelico) ri-
spetto alla dimostrazione dell’esistenza di Dio. — 9. S. Bona-
ventura. - io. Le dimostrazioni tomiste dell’esistenza di
Dio. - ir. La prima prova. — 12. La seconda prova. — 13. La
terza prova. - 14. La quarta prova. - 15 La quinta prova -
16. Vanità di tutti i tentativi e la trepidazione del mistico
Jacopone da Todi. - tj. La creazione del mondo e l’insuf-
ficienza della scolastica : non infeltign ut credani.
iv. L’intelletto umano
1. Il doppio aspetto della conoscenza, oggettivo e sogget-
tivo, e la tendenza del platonismo. - 2. La tendenza del
kantismo, e il pensiero come atto. - 3. Il concetto aristote-
lico della conoscenza come sviluppo. - 4. La teoria della
sensazione, come sensazione della sensazione, in Aristotele. —
5. Il senso come grado dell’intelletto, e il difetto di auto-
coscienza o individualità nell’intelletto qual è concepito
da Aristotele. - 6. Il concetto dell’individuo nella filosofia
greca, nel cristianesimo e nella filosofia moderna. — 7. La
controversia scolastica intorno al principium indivìdua-
tionis e la dottrina aristotelica. - 8. Dottrina scotista. - 9. Dot-
trina tomista. - io. I pericoli dell’ilcmorfismo tomista e la
questione dell’intelletto o dell'immortalità dell'anima, -
11. Le interpretazioni dei commentatori: Alessandro. -
12. Averroè e l’averroi.smo. - 13. Critica tomista dell’aver-
roismo. - 14. Le dottrine psicologiche di Dante. - 15. La
dottrina tomista dell’immortalità. - 16. Il fallimento della
scolastica.
II
BERNARDINO TELESIO
1. Introduzione
11. Il pensiero medievale
ni. Umanesimo e Rinascimento
INDICE SOMMARIO
iv. Vita e scritti di B. Telesio p. 153
v. Dottrina telesiana » 166
vi. Il limite del naturalismo telesiano » 181
Appendice bibliografica » 193
I. Scritti di B. Telesio » 193
II. Scritti su B. Telesio » 200
III
IL CARATTERE STORICO DELLA FILOSOFIA ITALIANA
Prologo e argomento. - La filosofia italiana e la filosofia
universale: concetto dì filosofia nazionale. - Fine filosofico ed
etico dello studio della nostra filosofia. - Inizio della filosofia
italiana: il distacco del Petrarca da Dante: il letterato
italiano, artefice del Rinascimento e della Decadenza ita-
liana. Il suo difetto e le sue benemerenze. Separazione tra
la vita e l’arte, la scienza, la filosofia. - II limite della filosofia
in Telesio, Campanella, Bruno, Galileo; e il loro martirio. -
La filosofia del Vico e il cattolicismo. - Genovesi e gli scrit-
tori riformatori della sua età : Parini, Alfieri e la
rinascita dell’uomo. - 11 pensiero del Risorgimento: Galluppi,
Manzoni, Rosmini, Gioberti. Carattere pratico dell’ultima filo-
sofia italiana. - Il problema della nostra filosofia e il momento
presente » 207
Indice dei nomi
»
239
OPERE COMPLETE
DI
GIOVANNI GENTILE
OPERE SISTEMATICHE
I-11. Sommario di pedagogia. Voi. I: Pedagogia ge-
nerale; voi. II: Didattica.
III. Teoria generale dello spìrito come atto puro.
IV. I fondamenti della filosofia del diritto.
V-VI. Sistema dì logica come teoria del conoscere
{voli. 2}.
VII, La riforma dell educazione
Vili. La filosofia dell’arie.
IX. Genesi e struttura della società.
X.
XI.
XII.
XIII.
XIV-XV.
XVI.
XVII.
XVIII-XIX.
XX-XXI.
XXII.
XXIII.
XXIV.
XXV.
XXVI.
OPERE STORICHE
Storia della filosofa (dalle origini a Platone:
inedita).
Storia della filosofia italiana (fino a Lorenzo
Valla).
I problemi della Scolastica e il pensiero italiano.
Dante.
II pensiero italiano del Rinascimento (voli. 2)
Studi vichiani.
Vittorio Alfieri.
Storia della filosofia italiana dal Genovesi al
Galluppi (voli. 2).
Albori della nuova Italia (voli. 2).
Vincenzo Cuoco.
Gino Capponi e la cultura toscana nel secolo deci-
monono.
Manzoni e Leopardi.
Rosmini e Gioberti.
I profeti del Risorgimento italiano.
XXVII. La riforma delia dialettica hegeliana.
XXVIII. La filosofia di Marx,
XXIX. Bertrando Spaventa.
XXX. Il tramonto della cultura siciliana.
XXXI-XXXIV. Le origini della filosofia contemporanea in Italia
(voli. 4).
XXXV. Il modernismo e 1 rapporti fra religione e filosofia.
OPERE VARIE
XXXVI. Introduzione alla filosofia.
XXXVII. Discorsi di religione.
XXXVIII. Difesa delia filosofia.
XXXIX. Educazione e scuola laica.
XL. La nuova scuola media.
XLI. La riforma della scuola in Italia.
XLII. Preliminari allo studio del fanciullo.
XLIII. Guerra e fede.
XLIV. Dopo la vittoria.
XLV-XLVI. Cultura e fascismo (voli. 2).
FRAMMENTI
XLVII-XLV11I. Frammenti di estetica e di teoria della stona
(voli. 2).
XLIX-L. Frammenti di critica e storia letteraria (voli. 2)
LI-LII. Frammenti di filosofia (voli. 2).
LIII-LV, Frammenti di stona della filosofia (voli. 3).
MI. EPISTOLARIO Carteggio Gentile-Jaja (voli. 2).
III. Carteggio Gentile-Maturi.
IV e sgg. Carteggi vari
Finito di stampare
il 20 Febbraio 1963
nello Si ab. Tip. già G. Civelli
Via Faenza, jz
Firenze