II. I.A VERITÀ
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Quando, insomma, dalla esperienza si passa alla prima
forma di elaborazione che ne fa l'attività logica dell' in¬
telletto e si ripensa il pensiero, e si organizza secondo i
rapporti che i concetti hanno tra loro, come avevano
insegnato Aristotele e Porfirio, l'assoluto, l’eterno, l'atto
puro, il perfetto, l’immanente, tutti gli attributi onde si
concepisce il divino, si scorgono come il presupposto im¬
plicito d’ogni pensiero; e niente si pensa, senza pensare
Dio. Pensato Dio, tutto s'illumina; non pensando Dio,
tutto s’offusca e si perde nella notte più fitta. Prima il
divino riluceva nello stesso soggetto del pensiero, in
quanto memoria: ora irrompe e s’accampa nell’oggetto del
pensiero, in quanto intelletto.
Ma l'intelletto procede dai termini alle proposizioni :
e allora insegnava Aristotele sorge la questione della verità.
Ricordate il principio del De interpretatione ? « Nella sintesi
e nella dieresi c’è il falso e il vero. E così i nomi e i verbi
per se stessi sono come il concetto senza sintesi e senza
dieresi, per es., ‘ uomo ’ e 4 bianco ', se non s’aggiunge
altro ; ché ancora non è né falso né vero ». Pensare vero
o falso non si può dunque senza giudicare, mettere in
rapporto, positivo o negativo, un predicato con un sog¬
getto. Kant dirà senz’altro: pensare è giudicare. Bonaven¬
tura dice : l’intelletto giudica, quando ha la certezza della
verità del giudizio; certezza che è sapere: sapere cioè che
l’intelletto non può ingannarsi nel giudizio suo. Scit enim,
quod veritas illa non potest aliter se habere ; scit igitnr,
illam veritatem esse incommutabilem. Parole d’oro, che tanti
non sono neppur oggi in grado di ripetere. Ogni giudizio
è un doppio giudizio; ogni atto di coscienza è insieme
atto di autocoscienza; e perciò il pensiero non è mai
fatto, ma valore.
Bonaventura non dice nettamente tutto questo; ma
nel suo linguaggio dice altrettanto. Dice che l’atto del
giudicare si addoppia ed afforza, anzi, a dir proprio, si
4. —- Gentile, I pTobUmi della scolastica.