III. IL CARATTERE DELLA FILOSOFIA ITALIANA 231
decadere nel pensiero, insieme con gli altri paesi d'Europa ;
o almeno, cosi parve alle prime generazioni del secolo se¬
guente. Ma l’apparente decadenza era nuova disciplina a
più alto segno, e a nuovo risorgimento. Paragonare, per
esempio, col Vico il filosofo napoletano subito dopo di lui
salito egualmente in alta fama, tra la stima concorde e il
plauso di tutta Italia, Antonio Genovesi, per chi non sappia
applicare ai valori ideali se non una misura assoluta, senza
riguardo ai rispettivi momenti storici del loro manifestarsi,
può essere argomento di malinconiche considerazioni per
l’età seguita alla morte del Vico. Il Genovesi non ebbe
mente per intuire i grandi problemi vichiani; a petto
dell’autore della Scienza Nuova, non par né anche meritare
nome di filosofo. E pure nel Genovesi e nella numerosa sua
scuoia e in tutti gli scrittori affini d’ogni regione italiana,
l’Italia nella seconda metà del Settecento affronta pro¬
blemi non sospettati dal Vico : in apparenza molto modesti,
dal rispetto speculativo, ma in realtà di grande portata
storica, e perciò filosofica. Giacché la filosofia ora si fa
piccola per affiatarsi col mondo dell’esperienza e mettersi
a contatto della vita: e volgesi all’economia e alle
questioni sociali e pedagogiche recandovi il suo spirito
illuminato e concreto, per tentare anche in Italia una
cultura che sottragga gli spiriti ai frati e agli accademici
e ai letterati, stretti in alleanza per opposti interessi con¬
correnti nel concetto di una vita senza riflessione scientifica
e senza libertà spirituale, e di una scienza e di un’arte
senza vita. Immagine viva dell’epoca la poesia di Giuseppe
Parini: la cui forma, liberatrice della poesia italiana dalla
Arcadia, è tutta nel nuovo contenuto, semplicissimo e
quasi elementare, e pur possente d’ispirazione, e iniziatore
di un’epoca nuova: la coscienza dell’uomo, nella sua dirit¬
tura, nella sua dignità morale; onde il poeta scopre in sé
l’uomo, e fa vibrare nel canto una corda non più udita
da Dante in poi. Muore il letterato, perché rinasce l’uomo.